
Nell’autunno del 2022, per il numero 9 de Lo stato delle città, mi chiesi se era possibile formalizzare una teoria dei processi urbanistici lungo la Dora a Torino. Disponevo di un archivio di osservazioni, documenti e scritti elaborato negli anni. Desideravo evitare spiegazioni rigide e schematiche perché avevo il timore che, in seguito, l’osservazione raccogliesse soltanto dati utili a confermarle. Tentai allora di individuare alcune linee tendenziali dello sviluppo urbano, soffermandomi più sul metodo induttivo che mi aveva permesso di definirle. Queste linee tendenziali agiscono a diversi livelli di scala geografica e riguardano differenti funzioni, ma è interessante soffermarsi sulla loro interazione – e quest’ultima intuizione manca ancora nell’articolo che riproponiamo. Sono passati quasi tre anni. Il cantiere di The Student Hotel – oggi The Social Hub – è sospeso per un inatteso aumento dei costi dei materiali edili: ora vi crescono le erbacce stagionali. Permane un’ostinata caccia ai venditori informali lungo il fiume: proprio in queste settimane la Città è impegnata nella repressione, impiegando un numero cospicuo di pattuglie della municipale. Gli enti del terzo settore – e in particolare la fondazione di comunità del quartiere – sono impegnati a gestire nuovi fondi per la progettazione sociale e culturale e non si esprimono in merito all’ennesimo tentativo di allontanare gli straccivendoli: l’ignavia garantisce l’inclusione nel governo del quartiere. (francesco migliaccio)
* * *
Otto anni fa, era primavera, usciva per Monitor il primo articolo sui quartieri accanto alla Dora di Torino. Il resoconto menzionava uno sfratto violento eseguito dalla polizia, i progetti di riqualificazione sognati dagli assessori, le velleità estetiche di una nota scuola di scrittori e la lotta viva dei solidali. Da allora ho, abbiamo esplorato il mondo urbano che da piazza della Repubblica discende fino al fiume e oltre prosegue verso Aurora e Barriera di Milano. Nel tempo abbiamo raccontato gli sgomberi e le forme d’opposizione, abbiamo analizzato i piani di rigenerazione e allestito gallerie fotografiche, pagine di carta hanno accolto la voce di chi ha avuto la forza di resistere: nella cronaca s’incontrano la voglia di comprendere la città e il desiderio di supportare le lotte. Ora, quando contemplo i materiali radunati, mi chiedo se da una sequenza di racconti, immagini e interviste possa nascere un quadro interpretativo, o una teoria; se la narrazione sia un metodo di conoscenza, e di quale tipo.
Esistono modelli complessivi, o schemi critici sui processi di trasformazione urbana: “gentrification”, “turistificazione”, “foodification” o “airbnbfication” migrano dal linguaggio accademico agli articoli di giornale, ai libri. Fenomeni peculiari e spesso evidenti – come l’aumento dei prezzi immobiliari, l’evoluzione dell’offerta consumistica, l’espansione del mercato degli alloggi per turisti – sono descritti come cause di un effetto generale e raggruppati in categorie che ambiscono a definire un processo complessivo. Ho il timore che questi modelli siano ormai cristallizzati e inducano l’osservatore a selezionare dati utili a corroborare la tesi di partenza. Gli schemi diventano una briglia per l’immaginazione: i luoghi mostrano quel che i sensi s’attendono, il corso degli eventi appare lineare e inesorabile.
Appunti, storie orali, fotografie e resoconti di redazione, tuttavia, non sono meri materiali grezzi e nel tempo ho annotato spunti teorici, tendenze che possano spiegare i cambiamenti del quartiere e le forze dominanti interessate. Queste linee sono suggerite dall’esperienza concreta maturata lungo le sponde della Dora e non è certo che siano applicabili ad altri quartieri o a città diverse. Ho distinto tre linee tendenziali adeguate a generalizzare i fenomeni: l’azione degli investitori e delle istituzioni pubbliche; la gestione commerciale e disciplinare di tratti peculiari dello spazio urbano; il lavoro simbolico di operatori culturali e funzionari del terzo settore.
Sulla sponda settentrionale della Dora, quando il Lungo Dora Firenze digrada verso via Bologna, s’apriva un’area libera tra i palazzi. Al centro c’era uno spiazzo d’asfalto e la domenica s’organizzavano partite di cricket, i giocatori scavalcavano le recinzioni e trascorrevano l’intero pomeriggio. Quest’area di ventimila metri quadrati apparteneva al demanio, ma la giunta guidata dalla Cinque Stelle Appendino ne ha permesso l’alienazione e la svendita per sei milioni di euro. Una compagnia olandese che controlla la catena The Student Hotel ha acquistato il prato e gli immobili intorno e ha promesso un investimento da cinquanta milioni di euro per costruire una struttura ibrida: camere costose per studenti, stanze per riunioni, uffici per manager flessibili. E poco più a valle, in via Bologna, s’alza il centro direzionale di Lavazza, inaugurato nel 2018 dopo un investimento da centoventi milioni di euro. Questa è la prima linea di tendenza: il quartiere si trasforma grazie all’intervento di capitali privati supportato dalle istituzioni e dall’impiego della forza pubblica. Soltanto negli ultimi tre anni abbiamo osservato imponenti operazioni di polizia per sgomberare chi è considerato pericoloso, indesiderabile o inadeguato: ora non esistono più il mercato degli straccivendoli in San Pietro in Vincoli e l’asilo occupato di via Alessandria, un punto d’incontro, di riflessione e di organizzazione delle lotte in città.
La seconda linea di tendenza può essere percepita da sensi più acuti, attenti ai minuti movimenti in strada e alla gestione degli angoli del quartiere. Lungo il fiume i proprietari dei piccoli negozi di generi alimentari e bevande, originari di India e Pakistan, ricevono ispezioni e multe per futili inadempienze, in alcuni casi subiscono chiusure temporanee per editti emananti dal sindaco. Sul ponte di ferro venditori irregolari dispongono stuoie e poche merci e devono dileguarsi quando giunge la vettura della municipale di ronda. In queste occasioni i vigili discutono e collaborano con il servizio di guardie private dell’associazione di commercianti che controlla il Balon, il mercato delle pulci ormai adeguato alle attese di turisti e abbienti consumatori. Questi guardiani pattugliano il quartiere ogni sabato e ne garantiscono l’ordine, legittimati dal comune e dalla questura.
L’egemonia territoriale di peculiari interessi commerciali si scorge anche nei patti di collaborazione siglati tra il presidente di circoscrizione e alcune attività di ristorazione e svago lungo il fiume. In nome della cura dei beni comuni e della manutenzione di aree pubbliche gli esercenti possono gestire lo spazio intorno ai loro locali in cambio di controllo sociale, pulizia e piccole opere di abbellimento. In alcuni angoli l’ordine assicurato dagli esercenti appare dolce e innocuo, ma per il protocollo “Sponde sicure” la violenza è manifesta. Un barista di Lungo Dora Napoli, referente del protocollo e informatore della polizia, ha il diritto di controllare il tratto di strada accanto al parapetto lungo la Dora: può disporre i suoi tavolini sul suolo pubblico, guadagnare dalla vendita di bevande a turisti e avventori bianchi, allontanare i poveri che trascorrono le ore con una canna o una birra accanto al fiume. Così la disciplina in strada, esito di piccoli e quotidiani gesti di forze pubbliche e private, garantisce il profitto di privilegiate attività commerciali accanto alla Dora.
La terza linea tendenziale riguarda la gestione del consenso, ovvero l’amministrazione dei discorsi e dei simboli. I protagonisti sono le associazioni del terzo settore, gruppi informali, cooperative di funzionari e operatori culturali. Lungo la Dora è un esempio peculiare il programma Tonite, un progetto europeo di “community-based urban security”. Secondo Tonite gli eventi culturali, il consumo nei locali, le attività sportive al tramonto e le varie iniziative di coinvolgimento della cittadinanza garantiscono la coesione sociale tra gli abitanti e rafforzano la percezione di sicurezza quando scende il buio. Al bando di Tonite hanno partecipato enti di ricerca universitaria, associazioni e cooperative impegnate nel lavoro sociale ed educativo, locali commerciali, scuole di zona. Abbiamo seguito alcuni progetti: nei mesi artisti di strada hanno decorato un marciapiede antistante l’ingresso di una scuola; un espositore di opere artistiche e fotografie ha organizzato laboratori di editoria lungo il fiume; una fondazione di comunità ha accolto spettacoli teatrali e intrattenimenti nel giardino; operatori sociali portano al tramonto un calcetto in mezzo alla strada; una locanda ospita musicisti esotici per allietare le cene dei clienti. Le foto di ogni azione sono rilanciate nel mondo virtuale, accompagnate da testi brevi con slogan, i nomi delle istituzioni e l’auspicio che la sicurezza urbana sia l’esito di attività sociali partecipate e multiculturali.
Intrattenimenti e spettacoli di Tonite avvengono negli stessi luoghi segnati da violenze e azioni disciplinari descritte nelle prime due linee tendenziali, eppure nessuna iniziativa ha elaborato riflessioni e dibattiti sulle speculazioni immobiliari, le discriminazioni, le violenze tra piazza della Repubblica e Barriera di Milano, nessun operatore ha avuto il coraggio di criticare apertamente l’ordine urbano intorno. Le buone intenzioni e la proclamata coesione sociale di Tonite, allora, sono una forma, per quanto inconsapevole, di propaganda: allontanano il rimosso dalla coscienza, diluiscono ogni spunto critico nella soffusa e indistinta patina delle buone intenzioni. Allo stesso tempo, i governanti della città menzionano Tonite in convegni, tavole rotonde, presentazioni, corsi universitari. In strada gli eventi sono spesso partecipati dai soli organizzatori, ma grazie al loro lavoro, spesso volontario o mal pagato, il progetto di sicurezza urbana ha una portata simbolica notevole, garantisce un’egemonia sui contenuti culturali e sulle rappresentazioni, legittima il discorso pubblico delle classi dirigenti.
Tonite è un caso di studio, in verità l’intera offerta culturale è integrata in un sistema di patrocini istituzionali e finanziamenti assicurati da progetti europei o fondazioni bancarie. Le opere simboliche, l’arte pubblica, i linguaggi confezionati non sono mera apparenza, o contenuti immateriali, piuttosto mi appaiono come oggetti concreti che s’amalgamano con gli interventi di rigenerazione, gli sgomberi, gli investimenti delle compagnie finanziarie, i gretti interessi di un commercio che s’adegua allo spettacolo per turisti. Ritenere che vi siano cause principali ed effetti primari o secondari, o processi strutturali e rifrazioni immateriali, mi sembra una semplificazione: nello spazio urbano i fenomeni descritti nelle tre linee di tendenza sono legati, collaborano e trovano un equilibrio precario. Abbandono la distinzione tra cause ed effetti e vedo quasi un campo di forze in connessione: alcune, come gli interventi di polizia e gli investimenti milionari, dispongono di una massa ingente capace di curvare in modo più accentuato lo spazio intorno. E non credo esista una regia unica e cosciente, un disegno. Piuttosto variegati e frammentari interessi puntuali s’incontrano, in certi casi combaciano, e la città appare dominata da una complessiva collaborazione tra investitori, istituzioni, esercenti tutelati, artisti e funzionari capaci di mescolare ingenua inconsapevolezza e spregiudicato cinismo. Forse i legami che tengono insieme i diversi snodi, o punti di forza, sono assicurati da un comune pensiero inconscio, una conformazione sopita delle menti, o ideologia.
Ora, alla fine, m’accorgo che la scrittura, se assume un tono saggistico o espositivo, non può evitare il cristallizzarsi di concetti e discorsi. Le categorie proposte qui hanno preso forma, sono scritte, e mi sembrano di nuovo schematiche. Forse gli stessi modelli esplicativi che non mi convincono sono nati un tempo come intuizioni vivaci e poi si sono consunti, si sono trasformati in semplificazioni e sono stati applicati in modo automatico fino a diventare scontati o inconsci. Immagino che la riflessione teorica si muova per cicli: un nuovo sguardo osserva il mondo, emerge un’intuizione, essa si formalizza, diviene stabile; poi inizia l’erosione, la teoria diventa uno schema in necrosi che non interpreta più i fenomeni, ma li imbriglia. Più importante della teoria è allora disporre di un metodo di ricerca che sappia mettersi in movimento, cogliere le mutazioni del paesaggio e della sensibilità di chi osserva: sono le tecniche del viaggiatore e del narratore che si sposta in mondi lontani. Eppure, per chi esplora sempre lo stesso quartiere è impossibile conservare quel senso di lontananza che favorisce il movimento e l’instabilità fecondi. Se la stanchezza dello sguardo è inevitabile, bisogna adottare nuovi espedienti. In questo testo ho usato in modo ambiguo i pronomi, perché mi muovo dalla prima persona singolare alla prima plurale – nel “noi” si nasconde una possibilità. Da tempo esiste un gruppo redazionale di Monitor che s’interroga sul quartiere e sulle più ampie trasformazioni urbane a Torino: così le attitudini percettive divengono, stagione dopo stagione, più varie e molteplici, impiegano diverse tecniche e vari stili e da un’intelligenza collettiva muove il rinnovamento degli strumenti critici.