La storia silenziosa di Tarek. L’arresto, la condanna, la solidarietà

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La storia silenziosa di Tarek. L’arresto, la condanna, la solidarietà
(disegno di sam3)

Il 5 ottobre del 2025 è stata una giornata storica: migliaia di persone scesero in piazza a Porta San Paolo, a Roma. I manifestanti, sfidando i divieti del governo, reclamavano a gran voce la fine del genocidio a Gaza. Per diverse ore, sotto una pioggia torrenziale, le forze dell’ordine circondarono il presidio con i blindati permettendo l’ingresso ai manifestanti solo previa identificazione; anche nei pressi della città, nelle aree di servizio autostradali adiacenti la capitale, le forze dell’ordine impedirono ai manifestanti, tramite fogli di via, di raggiungere il presidio. In piazza, dopo una serie di provocazioni poliziesche e un fitto lancio di lacrimogeni, si arrivò agli scontri su via Ostiense. In serata venne arrestato uno studente italiano, Tiziano, portato in questura e posto agli arresti domiciliari. Il tribunale l’ha condannato a due anni, ma la pena è stata sospesa per l’applicazione della condizionale in quanto soggetto incensurato.

Qualche settimana dopo, nel silenzio dei media, venne arrestato un altro ragazzo, un tunisino di nome Tarek. Anche lui, come Tiziano, accusato di resistenza a pubblico ufficiale. A differenza dello studente italiano, Tarek è un ragazzo straniero con precedenti penali, con lo stigma della sua condizione etnica. Le accuse inchiodano Tarek seguendo il solito razzismo istituzionale. Il ragazzo viene descritto come un uomo dalle sembianze magrebine, che dopo aver colpito gli agenti a ombrellate, e lanciato delle bottiglie, si infligge volontariamente dei tagli per impedire il fermo da parte delle forze di polizia.

La vicenda emerge diversi mesi dopo, a maggio, grazie a una corrispondenza telefonica, su Radio Onda Rossa, in cui l’avvocato di Tarek spiega che il ragazzo è stato condannato, con il rito abbreviato, a una pena di quattro anni e otto mesi. Una sentenza singolare perché la condanna è superiore alla richiesta del pubblico ministero che chiedeva tre anni. Il 21 maggio, davanti al carcere di Regina Coeli, viene indetto un presidio per esprimere solidarietà al ragazzo tunisino, e agli altri detenuti, in cui tra l’altro i manifestanti leggono una lettera di Tiziano indirizzata allo stesso Tarek.

Per approfondire la vicenda decido di incontrare l’avvocato del ragazzo, Leonardo Pompili. Una chiacchierata in attesa della pronuncia dell’udienza di appello fissata il prossimo 21 novembre.

Mi racconti la storia di Tarek?
Tarek è arrivato in Italia nel 2008, dalla Tunisia. In Italia ha conosciuto una compagna con cui ha avuto una relazione, e da cui sono nati due figli. Aveva il permesso di soggiorno e lavorava. Dopo sono iniziati i primi problemi e Tarek ha deciso di separarsi dalla compagna. Da questo momento comincia a precipitare nella marginalità: difficoltà a trovare una casa, difficoltà a trovare un posto di lavoro. Nel 2020, un altro episodio segna la vita di Tarek. Un litigio con due persone si trasforma in una colluttazione. Viene aperto un fascicolo a suo carico e Tarek viene condannato per tentato omicidio. In carcere la  situazione si aggrava, e la depressione lo porta a un consumo esorbitante di farmaci. Scontata la condanna ricomincia a lavorare, ma a nero. A tal punto che dopo l’arresto, avvenuto qualche giorno dopo il 5 ottobre, il datore di lavoro con cui lavorava nega di conoscerlo. Tutto questo impedisce al ragazzo di recuperare una parte della retribuzione che gli spettava. Inoltre, al momento, appare difficile regolarizzare la sua posizione. Tarek ha una carta d’identità ma il permesso di soggiorno scaduto. A giugno doveva presentarsi all’ufficio immigrazione per il rinnovo, ma a causa della detenzione carceraria non è riuscito a presentarsi all’appuntamento ed è stato chiesto un rinvio.

Ci racconti che è successo il 5 ottobre?
Tarek frequentava la zona di Ostiense e si trovava in un locale lì vicino. Non era andato appositamente al corteo. Decide di avvicinarsi quando la piazza era già blindata. E quando vede la polizia che manganella da un lato, e le bandiere della Palestina dall’altro, decide di compiere un gesto di protesta estrema: si leva la maglietta, e comincia a tagliarsi. Si tratta di un gesto comune a molti detenuti ed ex detenuti: compiere mutilazioni corporali come quelli che avvengono nei Cpr, quando i reclusi si cuciono la bocca. Un gesto di protesta nonché irriverente, perché il corpo è l’unica parte che non è soggetta al controllo del carceriere. Oltre al gesto autolesionistico, la procura lo accusa di aver preso a ombrellate un agente, e di aver lanciato delle bottiglie. La cosa singolare è che per giustificare il reato di resistenza a pubblico ufficiale l’accusa capovolge la cronologia della condotta: sostenendo che prima il ragazzo prende a ombrellate gli agenti, dopo lancia le bottiglie, e infine si taglia per non farsi arrestare. Tutte accuse opinabili. Per esempio, riguardo al lancio di bottiglie, nei video non si vedono i lanci né contro cose e né contro persone. Stessa cosa per l’accusa di aver colpito a ombrellate gli agenti: le forze di polizia sostengono che Tarek abbia colpito con l’ombrello un agente sull’avambraccio. Eppure non ci sono agenti refertati. Si vede solamente che lui agita un ombrello, per quarantanove secondi, verso il contingente di polizia, e poi scappa, senza colpire nessuno. Altra anomalia resta l’aggravante del numero di persone. Gli agenti sostengono che Tarek si sia messo alla testa dei manifestanti, dal video invece si nota come un piccolo contingente di poliziotti si stacca andando verso il ragazzo tunisino, e nel momento in cui prenderebbe a ombrellate gli agenti, lui si trova da solo. Questo dimostra che Tarek ha fatto tutto da solo. E il fatto che lo stesso giorno nella piazza ci siano stati disordini, non significa che puoi unire gli episodi. Per me non c’è resistenza perché nessuna delle condotte ha impedito nulla. Ma a ogni modo, pure che fosse resistenza aggravata, che va dai tre ai quindici anni, non puoi partire dai sette anni. Se immaginiamo il massimo della gravità, che può arrivare a un massimo di quindici anni, chi agita un ombrello non può rischiare sette anni, cioè la metà. Tanto più se la condotta è durata solamente un minuto e cinquanta secondi.

Pensi ci sia un nesso tra la condanna di Tarek e il nuovo ddl sicurezza?
Sì, il suo caso è un’anticipazione di quello che è il
Ddl sicurezza. Introduzione di nuovi reati, aumento di pene. Reati che non sono certamente delle novità. Nel nuovo ddl tuttavia c’è un salto di qualità: le norme sono incentrate sulla punizione di quei soggetti che vivono nella marginalità sociale. E contro coloro che questa marginalità sociale non l’accettano. Soggetti che combaciano con il profilo di Tarek, un ex detenuto che in piazza ha fatto un gesto estremo. Nel suo caso forse scimmiottante rispetto a un vero e proprio conflitto. Il ddl è pieno di norme che vanno a sanzionare il dissenso. I reati di opinione, con il nuovo pacchetto sicurezza, rientreranno nella cornice del 4-bis: la condanna della pena deve essere espiata in carcere. A me è capitato di seguire dei processi per reati di opinione. Uno per una rivista anarchica, e un altro per delle canzoni trap, in cui c’è l’aggravante del terrorismo. Una cosa impensabile alcuni anni fa. Oltretutto in questo pacchetto sono previste aggravanti per la resistenza. Insomma, hai una pena aggravata se commetti degli abusi contro un operatore delle forze dell’ordine. In più, nella normativa, ci sono benefici per gli agenti: il pagamento delle spese legali, o la possibilità di girare con un’altra arma oltre a quella di  ordinanza, senza bisogno di avere il porto d’armi. Adesso si sta parlando di approvare un’altra legge che permetterebbe di non iscrivere più notizie di reato a carico degli agenti di pubblica sicurezza.

Quali sono le condizioni di Tarek?
Alterna periodi in cui sta male, non parla molto, ha tanti pensieri, e non riesce a dormire, ad altri in cui sta meglio, e sembra molto attivo e dialogante. A fine maggio hanno organizzato una manifestazione davanti al Regina Coeli, nel penitenziario dove si trova, ma non aveva capito che fosse per lui. Ha detto che aveva sentito le grida da fuori, e quando gli ho riferito che era per lui è rimasto molto sorpreso. Mi dice che lo spostano continuamente, ora lo hanno messo in una sala ricreativa, adibita a cella, per assenza di spazio. È apparso molto felice quando ha saputo che era apparsa una storia a fumetti su di lui pubblicata da
Internazionale. Non immaginava tutta questa solidarietà. Tarek ha delle problematiche di salute che sono state evidenziate nel processo. Problemi che sono stati ignorati. Ho chiesto una perizia ma non è stata concessa. Non c’è stato nemmeno un confronto con la documentazione prodotta, nessuna motivazione. Hanno semplicemente detto che non c’erano motivi validi per indagare sui disturbi di Tarek. Perché un conto è la condotta di una persona che sta bene, un altro è quella di un soggetto con dei problemi. Spesso è una scelta di opportunità, altre volte dettata da altre ragioni, come evitare perdite di tempo, in quanto approfondire le condizioni di un detenuto implica la nomina di un perito. Molte persone che sono in carcere soffrono di questi problemi, ma dal momento che dovrebbero metterli tutti fuori e non ci sono le strutture, ti dicono che queste non sono malattie psichiatriche ma disturbi. Il carcere non funziona, è una discarica sociale e se andiamo a vedere la popolazione carceraria, la maggior parte dei detenuti sono poveri e immigrati. (giuseppe mammana)

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