Monologo Torino. Voci di classi dirigenti durante lo sgombero di Askatasuna

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Monologo Torino. Voci di classi dirigenti durante lo sgombero di Askatasuna
(disegno di peppe cerillo)

Nel museo del Risorgimento di Torino c’è una stampa ottocentesca davanti alla quale mi soffermo spesso. Si ritrae un’immaginaria piazza del Plebiscito a Napoli. La piazza s’apre sul mare, il Vesuvio appare lontano avvolto dal fumo e la città attorno è scomparsa. In primo piano il re Ferdinando II regge spaventato la costituzione del 1848 mentre s’accalca attorno una folla inferocita pronta a bastonarlo. Il re è tenuto fermo da tre figure: uno scheletro che reca una falce con su scritto “Morte”, una donna guerriera con una spada con l’incisione “Forza” e una vecchia dai capelli scarmigliati con una veste che dice: “Paura”. Una didascalia recita: “Il re di Napoli nel momento che dava le riforme al suo popolo”. Poco oltre, basta attraversare alcuni corridoi del museo, s’apre la Sala Plebisciti di palazzo Carignano, ampia e decorata con stucchi, appesi alle pareti vasti dipinti risorgimentali con cannoni e patrioti all’assalto. Qui si tiene un incontro organizzato da La Stampa e rivolto ai lettori. Sul palco leggo lo slogan “La Stampa è con voi”. È il pomeriggio di giovedì 18 dicembre: una data che segnerà la coscienza storica della città.

Non sono settimane facili per il giornale torinese. Dopo l’irruzione in redazione da parte di alcuni manifestanti, era il 28 novembre, La Stampa ha ottenuto un sostegno pressoché unanime e ha ricevuto anche la visita del suo editore John Elkann. Solo pochi giorni dopo lo stesso editore – certo persona corretta, educata, non un vandalo che distrugge redazioni – ha annunciato la vendita del gruppo che controlla il giornale e il destino de La Stampa è ancora incerto. La conferenza di oggi assume così un valore simbolico: gli ospiti partecipano e intervengono per mostrare affetto e sostegno. La mattina si sono alternati sul palco, fra gli altri, l’ex-sindaco Chiamparino, la presidente della Fondazione CRT, il presidente dell’Unione Industriali di Torino, l’assessora alla cultura della città. Questo pomeriggio, invece, vedo Luigi Ciotti, il presidente della Compagnia di San Paolo Marco Gilli, Elsa Fornero, il direttore del Museo Egizio, il presidente di Iren Spa, Carlo Petrini di Slow Food e altre personalità del mondo della cultura e dell’imprenditoria. Dialogano con loro il direttore, il vicedirettore e i giornalisti de La Stampa.

«Io penso che è il momento di far rinascere questo giornale. Non viviamo questo momento come un momento di lutto, ma di rinascita!», esclama Petrini invano. È un funerale, anche se nessuno lo ammette. La famiglia Agnelli ha abbandonato il suo giornale così come ha lasciato la città: all’ombra delle fabbriche dismesse non c’è più bisogno d’un foglio padronale che garantisca il consenso e amministri la verità. Oggi tutti, contriti eppure ottimisti, si riuniscono al capezzale e raccontano di quando, da bambini, vedevano i nonni dispiegare sul tavolo i fogli stampati di fresco. Segue in platea un pubblico attento, borghese e invecchiato, che non fa mancare i suoi applausi e sommesse risate a sottolineare i passaggi arguti.

Se fosse stato un altro giorno, avrei scritto un articolo comico, o grottesco. «Torino ha qualcosa di veramente speciale», dice Baricco con ampi gesti delle mani. «Se c’è uno sport nel mondo che consiste nell’essere una città che si sfila dai suoi splendori per trovare un nuovo equilibrio, una compostezza e una bellezza sua – Baricco in video allarga di nuovo le braccia con pausa da retore – …se c’è questo sport del declino delle città – pausa, sorniona – …se c’è questo sport Torino è veramente campione mondiale». Avrei scritto un articolo comico citando a caso una frase tratta dall’intervento a distanza di Maurizio De Giovanni. Avrei potuto menzionare la già presidente dell’Accademia Albertina lanciare un monito democratico: «Non ricordo chi lo disse: “Libertà è partecipazione”». E il vicedirettore de La Stampa: «Gaber!». O ancora Vladimir Luxuria: «Bisogna difendere La Stampa, è spesso stata sotto attacco. Penso ad alcuni, non so come definirli, teppisti che hanno assalito la redazione. Lunga vita a La Stampa!». Ma non posso scrivere un articolo grottesco, o ironico il 18 dicembre, il giorno in cui sgomberano Askatasuna. Poco distante, là fuori, mentre qui parlano le classi dirigenti, ci sono due idranti che lanciano acqua ai solidali e una ventina di camionette bloccano il quartiere di Vanchiglia. Le scuole accanto sono state chiuse sin dall’alba.

La difesa della democrazia è un discorso ricorrente. Nei giorni successivi al 28 novembre La Stampa è stata riconosciuta come irrinunciabile “presidio di democrazia”. Ora afferma Andrea Malaguti, il direttore del giornale: «L’informazione è la fonte della democrazia e io credo fermamente in questo. Noi siamo in un pianeta in cui il novantadue per cento degli esseri umani, il novantadue per cento, quindi praticamente tutti, sono guidati da governi che non sono democrazie. Noi facciamo parte dell’otto per cento. Noi, piccolini, pochi, abbiamo questo privilegio che non capiamo, che rischiamo di perdere». Prima di lui Luigi Ciotti libera una metafora: «L’informazione è sorgente di democrazia, innanzitutto – la voce è interrotta dagli applausi – e una democrazia progredisce solo se è costituita da cittadini informati e quindi proteggere un giornale, proteggere i giornalisti, vuol dire proteggere la democrazia di un paese». Dal telefono osservo un idrante della polizia su corso Regina Margherita che riversa acqua su persone sedute a tavolini piazzati in mezzo alla strada.

Si susseguono gli interventi a ritmo serrato. Fra le facezie, il brusio insignificante tipico di questi eventi, le frasi di circostanza, spiccano le considerazioni di chi gestisce brani importanti di potere in città. Luca Dal Fabbro, presidente di Iren (la società partecipata dalla Città di Torino che controlla le reti elettriche, gas e rifiuti), ragiona sullo stato dell’imprenditoria nella regione «di Agnelli e Olivetti». Riflette sulle strategie industriali e sul rapporto con la ricerca universitaria e avverte dell’importanza dell’innovazione in ambito informatico per affrontare una futura “guerra ibrida”: «L’Italia è tra i paesi che può offrire soluzioni. […] Tutti siamo molto preoccupati dai missili, dai carri armati, dagli aerei, ma costano molti soldi, mentre un attacco cibernetico fa lo stesso danno di un missile e costa un decimo, un centesimo, un millesimo».

Per Marco Gilli, presidente della Compagnia di San Paolo, «oggi è successo qualcosa di importante». Ecco, ora si espone sullo sgombero. «Oggi abbiamo dato i risultati del concorso di progettazione per la completa riqualificazione di tutto l’edificio della Galleria di Arte Moderna (Gam)». Menziona il vincitore del progetto, «una archistar di Rotterdam», e annuncia che «questo processo vuole ripensare la Gam, conservando ciò che c’è, e avere una grande capacità trasformativa. In modo da integrare veramente la Gam nella città, con gli spazi pubblici, gli spazi privati, gli spazi chiusi e gli spazi aperti». Massimo Broccio, presidente della Fondazione Torino Museo, annuisce fra il pubblico. Ma la Gam non è l’unico “progetto speciale” della Compagnia e alla fine dell’intervento Gilli ricorda anche la Cavallerizza, “polo culturale” e futuro quartier generale della fondazione. E ancora l’area dell’Ex-Moi: «Lì – conclude Gilli – vorremmo provare a mettere insieme laboratori della scuola di medicina e laboratori del Politecnico, per promuovere la ricerca interdisciplinare, una sinergia fra i nostri atenei e anche nuova imprenditorialità».

Seguire i progetti della Compagnia di San Paolo significa impostare un’ampia, per quanto parziale, mappa dello sviluppo urbano e della speculazione a venire. Solo tre giorni fa la giunta comunale ha approvato il progetto preliminare del nuovo piano regolatore. Il piano garantirà più flessibilità di intervento, meno burocrazia e meno regole per gli investitori. Il piano regolatore ispira Paolo Verri direttore della fondazione Mondadori: «Dobbiamo lavorare sull’area metropolitana, pensare a un piano regolatore della cultura. E non a livello comunale, serve un piano regolatore della cultura a livello regionale, macro-regionale». Verri è stato il promotore della candidatura di Matera a capitale europea della cultura nel 2019 e adesso s’auspica lo stesso destino per Torino: «Torino deve vincere la candidatura a capitale della cultura nel 2033. Fate un applauso a Torino 2033!».

Innovazione digitale, sviluppo culturale, incremento dell’offerta artistica. Nella Sala dei Plebisciti le classi dirigenti disegnano l’avvenire di una Torino morbida e flessibile, disposta ad accogliere gli investimenti e i turisti. Risulta allora necessario smussare gli spigoli, ricucire le smagliature, eliminare i resti refrattari al cambiamento. Immagino sia all’opera un generale processo di metabolismo urbano: tutto ciò che è informale, non ancora governato, o spontaneo, deve essere tradotto in un nuovo codice, comprensibile a chi amministra e a chi investe, e messo a valore. L’opera di traduzione può essere dolce e riformista: si possono impiegare gli strumenti innovativi come i patti civici e i beni comuni per trasformare l’esistente, e adeguarlo al nuovo tempo. Oppure si può impiegare la forza violenta delle camionette, come è avvenuto oggi là fuori. Mentre ascolto rimbombare l’eco delle parole emanate dal microfono, immagino che i reazionari al governo nazionale non siano null’altro che uno strumento di cui il neoliberismo si serve per conquistare nuove porzioni di territorio. Forse l’aria è cambiata anche a Torino e ci aspettano stagioni meno ipocrite, dove i colpi cadono più duri e diretti.

Intorno a me gli ospiti parlano ancora, sono passate tre ore, e paiono soddisfatti, o compiaciuti. Qualcuno di loro osa ricordare quel che accade fuori. Paolo Verri si rivolge al pubblico: «Oggi è una giornata difficile, anche culturalmente. Perché lavorare sullo scontro è facile, lavorare sul dialogo è difficile. Io vorrei fare un applauso alla possibilità di fare il dialogo». Non ho capito il seguito a causa del battito collettivo di mani. E poi è il turno di Christian Greco, direttore del Museo Egizio: «Intendo il museo come piazza, come forum, come agorà, il museo come luogo sicuro in cui memorie si possono incontrare nel dialogo. Come si dice in greco? Dialegein, che lingua meravigliosa. Perché il dialogo è il sangue della nostra società. Se noi fossimo sempre tutti d’accordo non andremmo da nessuna parte». In realtà proprio qui, oggi, sono tutti d’accordo: non esiste alcuna alterità in questa melassa di linguaggio già omologato e adeguato al dominio del profitto sul mondo intero. Ho assistito a un monologo questo 18 dicembre, lo stesso monologo che ogni mattina trovo sulle pagine di carta.

È tardi ormai, fuori la sera è inoltrata. È tempo di andare. Il direttore de La Stampa Andrea Malaguti vuole però intervenire sulla prima pagina di domani, dedicata allo sgombero di Askatasuna. «Si può trattare in molti modi quello che è successo oggi a Torino, riguardo ad Askatasuna – afferma Malaguti. Ho sentito i commenti durante la giornata di gente che si mette la maglia. Ci sono quelli che dicono “Finalmente, era ora! Questi si devono cacciare perché non si può mancare di rispetto alla legalità”, il che è sacrosanto. E ci sono quelli che dicono invece: “Poveretti, avevano diritto anche loro di avere un luogo, bisogna ascoltare tutte le sensibilità”. Ora, io confesso che non so esattamente dove posizionarmi in questo dibattito, salvo schierarmi sempre dalla parte della legalità. Però noto, e mi domando: ma perché esisteva questo luogo? Esisteva perché anche le forze dell’ordine si rendono conto che è più facile controllare chi ha comportamenti illegali, se queste persone sono concentrate in un posto. Io suppongo – ma non lo so – che dentro ci fossero un sacco di microspie, che ci fosse una intercettazione approfondita. Quindi il motivo per cui rimaneva lì non era un motivo banale: buoni contro cattivi. Era invece legato all’idea su come si controlla una situazione di questo genere nella maniera migliore. Da domani possiamo immaginare che queste persone non è che spariscono, ma vanno altrove. È più facile o meno facile controllarle?». Il presidio di democrazia chiude per oggi, l’aperitivo aspetta nella sala accanto. (francesco migliaccio)

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