“A Silivri fa freddo”. Violazioni dei diritti umani nei Cpr della Turchia

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“A Silivri fa freddo”. Violazioni dei diritti umani nei Cpr della Turchia
(disegno di martina di gennaro)

Può accadere che trovandosi a Istanbul e dicendo che ti stai recando in uno dei suoi distretti, a Silivri, qualcuno ti risponderà che “a Silivri fa freddo”. Anche se è estate inoltrata e ci sono trentacinque gradi. Situata sulla sponda europea della provincia di Istanbul, antico villaggio di pescatori, dal 2008 ospita la più grande prigione europea con una capienza di 11 mila persone e ne detiene attualmente circa 22 mila, tra cui una buona parte di prigionieri politici detenuti in un regime di carcere duro noto come prigione di tipo F. È da questa grigia superficie, che si estende su 955.354 metri quadrati, che proviene l’aria gelida di Silivri.

All’interno dello stesso comune, a circa venti chilometri di distanza, sorge un’altra struttura detentiva, meno rinomata, il Centro di permanenza per il rimpatrio femminile di Selimpaşa, uno dei trenta Cpr costruiti in Turchia in seguito agli ingenti finanziamenti che dal 2015 vengono stanziati dall’Unione europea all’interno di progetti per il supporto di “pace e stabilità” (IcPS) con l’intento di contenere e controllare i migranti verso l’Europa da Siria, Iran, Iraq e Afghanistan.

In un comunicato stampa in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, il partito Dem (partito dell’uguaglianza e della democrazia tra i popoli) afferma che i Cpr “sono luoghi costruiti appositamente per torture e maltrattamenti” e che “l’accordo con l’Unione europea è di per sé un crimine”. Sono numerosi gli immigrati a essere arrestati e trattenuti arbitrariamente in questi centri e rispediti illegalmente nei paesi di provenienza, anche in seguito a richiesta di asilo, attraverso l’ottenimento delle loro firme di rimpatrio volontario, sottratte utilizzando tecniche ingannevoli o violenza psicologica e fisica. Il numero di arresti si è intensificato notevolmente dopo le ultime elezioni presidenziali, con l’aumento di controlli capillari supportati da camionette predisposte esclusivamente alla detenzione degli immigrati. Nel giugno 2024 il ministro dell’interno Ali Yerlikaya ha dichiarato compiaciuto che “nell’ultimo anno si è raggiunto il numero record di 141.187 espulsioni di stranieri irregolari”.

Fuori al Cpr di Selimpaşa, ogni mercoledì, una fitta folla aspetta in fila per registrare le impronte digitali su un veicolo sul quale compaiono, congiunte, la bandiera turca insieme a quella dell’Unione Europea. Per chi è riuscito a uscire e si trova sotto sorveglianza amministrativa con obbligo di firma in attesa di processo, l’incremento dei detenuti è stato tangibile: “Una volta al mese veniamo a firmare – dice una donna in fila –, se prima si aspettava non più di mezz’ora, dalla metà del 2023 la gente che è entrata qui è aumentata e si sta in fila in piedi anche per quattro ore sotto il sole e le intemperie; ci sono donne incinte e bambini piccoli, se ci si lamenta e ci si siede in un angolo fuori dalla fila i gendarmi richiamano all’ordine e minacciano di rimetterci dentro. Se sono stranieri, minacciano anche i nostri accompagnatori”.

Alcune attiviste arrestate in seguito al corteo del 25 novembre (giornata mondiale contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere) descrivono lo spazio detentivo come insufficiente e malsano: “La struttura si compone di tre piani riservati alle sezioni. In ognuna di esse, appena superate le sbarre, si è subito catapultati nello stretto corridoio affollato da materassi, ai cui lati si aprono sette stanze fornite di letti. La più grande ne conteneva sei. I bagni utilizzabili nella nostra sezione erano tre. Le docce due, di cui una ricavata da un precedente bagno alla turca riempito grossolanamente con qualcosa di simile allo stucco per chiudere l’orinatoio. Abbiamo provato a contare le donne detenute al terzo piano e crediamo raggiungessero circa il centinaio al nostro ultimo giorno di detenzione. Riscontriamo più persone che entrano rispetto a quelle che escono ed è molto probabile che una buona parte di chi è uscito sia stata in realtà trasferita in altri centri; accade spesso che ti dicano che verrai liberato, ma in realtà ti trasferiscono in Cpr più lontani dal luogo di residenza, a Gaziantep, Şanlıurfa e Erzurum, più vicini ai confini con Siria, Afghanistan e Iran, rallentando cosi le procedure legali per le scarcerazioni e agevolando la procedura di rimpatrio ‘volontario’ in piena violazione del principio di non-refoulement sancito dalla Convenzione di Ginevra. È raro che il trasferimento venga notificato, dal momento che sono frequenti i casi in cui avvocati e famiglie ne sono venuti a conoscenza a deportazione avvenuta. La comunicazione con l’esterno è assai limitata: hai a disposizione dieci minuti due giorni a settimana, dalle 16 alle 20 circa, ma gli orari vengono decisi arbitrariamente dalla guardia di turno. Il tempo non era mai sufficiente per le chiamate di tutte e inoltre, se non hai a disposizione il denaro contante per ricaricare la scheda telefonica non hai possibilità di comunicazione, così come di accedere ai beni di prima necessità venduti allo spaccio del centro a prezzi che superano quelli del mercato fuori.

“È negato il diritto alla salute, è ostruito l’accesso a qualsiasi tipo di farmaco proveniente dall’esterno e l’unica cura possibile a qualsiasi tipo di male fornita dal centro è una pillola di ‘antibiotico’ del quale non conosciamo il principio attivo, consegnata direttamente sul palmo della mano, priva del suo blister. Jana, una giovane donna sudamericana [nome e provenienza di fantasia], che riportava una ferita sull’arco palmare suturata con dei punti metallici per spillatrice, svigorita dalla permanenza in quel luogo firmò per il rimpatrio. Per legge, la Direzione provinciale per la gestione delle migrazioni dovrebbe finanziarne i costi, ma fu costretta a chiedere un prestito a qualcuno oltreoceano per acquistare un biglietto aereo. Il giorno del volo partì in direzione aeroporto con la camionetta guidata dai gendarmi. Non sappiamo esattamente cosa accadde ma la riportarono indietro dopo qualche ora. Ci dirigemmo verso di lei non appena oltrepassò le sbarre: il suo sguardo era orientato in una direzione che non era la nostra e quella di nessun altro lì dentro, non rispondeva a nessuno stimolo. Si accostò a uno dei materassi posizionati ai lati del corridoio per sdraiarsi e ci rimase come se fosse morta per i due giorni successivi. Dopodiché siamo uscite e non abbiamo saputo più niente di Jana, non ci ha mai richiamate al recapito che le avevamo lasciato”.

In seguito agli arresti arbitrari di cinque persone straniere – tra cui anche di provenienza europea – avvenuti durante il ventunesimo Pride di Istanbul (2023), un’associazione di avvocati volontari ha denunciato le condizioni di detenzione in questi centri, i trattamenti inumani e degradanti, la mancanza di accesso a cure mediche adeguate, alla ventilazione, la scarsa igiene (GGM’lerde Neler Oluyor?). Uno degli attivisti arrestati riportava una ferita alla gamba che non è mai stata curata adeguatamente in un luogo sterile. È stato reso noto il limitato accesso alla protezione internazionale e il contenimento arbitrario della comunicazione con i propri clienti. Nell’autunno 2024 alcune studentesse e attiviste palestinesi dell’organizzazione Filistin için bin genç sono state arrestate (anche con raid domestici a seguito di perquisizioni a casa), trattenute in custodia cautelare per diciotto ore senza possibilità di soddisfare i propri bisogni primari e trasferite nel Cpr di Selimpaşa al cui ingresso, segnala l’organizzazione, è stato strappato loro l’hijab. L’accusa illegittima è di vilipendio al presidente e violazione dei termini della legge n. 2911, entrata in vigore dopo il golpe militare del 1980, che limita il diritto di riunione e manifestazione, per aver esposto all’interno della campagna “Stop fueling genocide” gli accordi commerciali turchi con Israele e la compagnia energetica azera Socar. Da Ceyhan, a sud della Turchia, viene spedito infatti il petrolio azero fino al porto di Ashkelon, circa il trenta per cento del petrolio importato dall’entità israeliana. Attribuendo in aggiunta vaghe accuse come il rappresentare una “minaccia per l’ordine pubblico” questi centri diventano anche il luogo per silenziare studenti non cittadini, migranti e tutte le persone in movimento che denunciano apertamente il razzismo, lo sfruttamento, la violenza patriarcale e le politiche governative. (dalila procopio)

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