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«Vogliamo arrivare a un mondo in cui qualunque azienda sarà capace di dirci che obiettivo vuole raggiungere, quanto è disposta a pagare, collegare il proprio conto corrente, e noi faremo il resto» aveva detto lo scorso maggio Mark Zuckerberg, capo di Meta, descrivendo un futuro in cui gli inserzionisti potranno generare con le intelligenze artificiali le loro pubblicità su Instagram e Facebook. Pochi giorni dopo, in un’intervista, aveva chiamato questa trasformazione «una ridefinizione della categoria della pubblicità».
Questo mese il Wall Street Journal ha confermato le intenzioni di Meta, che punta a presentare degli strumenti di AI generativa per creare contenuti pubblicitari entro la fine del 2026. Nei giorni successivi alla pubblicazione dell’articolo, i titoli in borsa di alcune delle principali agenzie pubblicitarie del mondo, tra cui Publicis, Omnicom e WPP, hanno registrato grosse perdite (in alcuni casi le perdite sono state recuperate).
Meta non è l’unica società del settore a puntare sulla possibilità di generare automaticamente le inserzioni pubblicitarie per i propri clienti. Anche Google sta lavorando a servizi simili, mentre Amazon ha appena presentato un generatore di video (disponibile per ora solo negli Stati Uniti) in grado di produrre brevi clip sulla base di una descrizione testuale del prodotto in vendita.
L’utilizzo delle AI in campo pubblicitario non è di per sé una novità: finora però sono state usate nella gestione e distribuzione delle inserzioni, non per produrle direttamente. La stessa Meta, negli ultimi anni, ha investito molto sulle AI per personalizzare la distribuzione di pubblicità, anche per adattarsi ai cambiamenti voluti da Apple, che ha diminuito il numero di dati che gli utenti iPhone condividono con le app che usano. Questo aveva reso più difficile per Meta distribuire inserzioni personalizzate a gruppi di utenti specifici, difficoltà in parte attenuata grazie all’aiuto delle AI.
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Le parole di Zuckerberg hanno turbato molto il settore pubblicitario, che si è aggiunto alla lista crescente di mercati che sembrano destinati a cambiare a causa della diffusione di AI generative. Le prime conseguenze, come visto, le hanno sentite in particolare le cosiddette “Big 6”, le sei principali agenzie pubblicitarie del mondo, e i loro titoli in borsa. Eppure è molto più probabile che a soffrire maggiormente saranno le agenzie di dimensioni medio-piccole e i freelance, che tendono a lavorare per clienti più piccoli, con budget pubblicitari ridotti.
Come ha scritto Bloomberg, infatti, la maggior parte della spesa pubblicitaria su Facebook e Instagram proviene da inserzionisti che spendono dai 5 ai 20 dollari per volta per raggiungere più persone con i loro annunci. Si tratta di aziende molto piccole, imprese o progetti individuali, che spesso fanno pubblicità solo sui social network (e sul web in generale). È proprio questo il bacino di utenti che Meta vuole raggiungere, permettendo loro di generare pubblicità in poco tempo e senza spesa.
Nei giorni successivi all’intervista di Zuckerberg Alex Schultz, direttore del marketing di Meta, ha smentito l’idea che l’azienda voglia sostituirsi alle agenzie pubblicitarie. «Noi crediamo nel futuro delle agenzie», ha scritto, ricordando che Meta stessa si avvale di agenzie di questo tipo e non ha intenzione di automatizzare la sua comunicazione. È peraltro fuori discussione che le AI, per quanto sempre più capaci – specie nel generare video credibili – possano sostituirsi alle agenzie più grandi, specializzate in strategie complesse di marketing e pubblicità ad alto budget.
Sarà invece il sottobosco di banner pubblicitari a basso costo che caratterizza il web e i social media il bersaglio più facile di questo tipo di automazione, visto che già oggi non prevedono grande attenzione da parte di chi li produce. Anzi, generarli appositamente con le AI potrebbe anche permettere di ottenere contenuti pubblicitari più allineati alle priorità dell’algoritmo (in questo caso, quello di Meta), ottenendo una maggiore diffusione tra il pubblico.
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A soffrire, secondo il Wall Street Journal, sarà anche il performance marketing, un tipo di comunicazione finalizzata a ottenere una risposta di qualche tipo da parte degli utenti (come l’abbonamento a una newsletter, un like o un acquisto), e in cui l’agenzia viene pagata sulla base dei risultati ottenuti. Con le AI, una piccola azienda di e-commerce potrà generare diverse soluzioni e testare vari approcci, a ciclo continuo, riducendo drasticamente tempi e costi.
Nel frattempo però sempre più settori si stanno abituando a usare tecnologie simili. Lo scorso febbraio Gucci ha lanciato un video pubblicitario fatto con le AI, parte di una sua lunga sperimentazione con questo tipo di applicazioni. Sul web, inoltre, circolano da tempo campagne pubblicitarie di alta moda non ufficiali, fatte da utenti e artisti, che secondo il sito Business of Fashion «hanno già attirato l’attenzione» di molte aziende del settore, che cominciano ad apprezzare i punti di forza delle AI.
Dopo molti anni di crescita continua, infatti, il mercato del lusso sta vivendo un momento di difficoltà, a causa soprattutto di un calo delle vendite nel mercato cinese. Ciò spinge sempre più aziende del settore a tagliare i costi, rompendo anche il tabù dell’utilizzo delle AI a fini creativi.
La scorsa settimana, nel corso delle finali NBA, è andato in onda uno spot di Kalshi, un servizio che permette di scommettere su molti eventi, tra cui le partite di basket. Il breve video è stato realizzato completamente con le AI, precisamente con Veo 3, il generatore di video presentato recentemente da Google, spendendo circa duemila dollari.
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Secondo il suo creatore PJ Accetturo, che si definisce «AI Filmmaker», ci sono volute 300-400 generazioni per ottenere 15 clip utilizzabili, tra quelle che compongono lo spot. Il tutto è stato fatto «da una persona, in 2-3 giorni» con una riduzione del costo del 95% rispetto alle pubblicità tradizionali.