
I protagonisti di questa storia sono un piccolo giardino, una prestigiosa università statunitense e un’amministrazione comunale. Cominciamo, come è giusto, dal giardino.
TRACCE DI STORIA
Da qualche anno porta il nome di don Tullio Contiero, un prete poco amato dalle gerarchie ecclesiastiche, chiamato a Bologna agli inizi degli anni Sessanta dal cardinale Giacomo Lercaro per occuparsi degli studenti universitari, per i quali organizzava ogni anno viaggi in Africa per far conoscere loro il sud del mondo e metterli di fronte alle responsabilità e alle contraddizioni dell’Occidente. Ma in realtà nessuno lo conosce con questo nome. Tutti continuano a chiamarlo come prima: giardino San Leonardo, dal nome della strada che lo costeggia.
È nel centro di Bologna, nella zona universitaria, ma defilato rispetto ai grandi flussi che, a poche centinaia di metri, ne caratterizzano la vita quotidiana. È di piccole dimensioni (circa 1.500 mq), ma è molto amato dagli abitanti e dai frequentatori della zona, che se ne sono presi cura, nel tempo, anche attraverso comitati o gruppi informali. Non ha nulla di particolare, se non il fatto di rappresentare la “normalità”: uno spazio verde e tranquillo, dove le persone trascorrono del tempo in modo informale, senza essere attratti da attività o da luoghi di consumo. Troppo normale per resistere alla febbre della “rigenerazione” che sta dilagando in tutta la città.
Ma prima di descrivere qual è la minaccia che incombe su questo piccolo lembo di terra, è bene ricordare qual è il contesto urbanistico e sociale in cui si trova. Si tratta, innanzitutto, di un esercizio di memoria che ci riporta al 1973, anno in cui il comune di Bologna, con la regia dell’architetto Pier Luigi Cervellati – all’epoca assessore all’urbanistica – adottò una variante al Piano per l’edilizia economica e popolare (Peep) che estese al centro storico gli interventi per quella tipologia abitativa, fino ad allora destinata alla periferia. Il piano coinvolse cinque comparti del centro e portò al risanamento – per iniziativa pubblica – di circa settecento alloggi, dove tornarono ad abitare gli stessi nuclei familiari che li occupavano in precedenza, quando erano fatiscenti. Furono anche realizzati centri civici, studentati, spazi per attività di quartiere, recuperando complessivamente circa 120 mila mq di superficie. (Per un approfondimento si rinvia a questo articolo dell’architetto Carlo De Angelis, che fu tra i protagonisti del piano). Era ben chiaro che i ceti popolari sarebbero stati progressivamente espulsi dal centro, e il piano mirava – al contrario – a farli rimanere dove erano sempre vissuti. Via San Leonardo era una delle strade comprese nel piano.
‘NA TAZZULELLA ‘E CAFE’
Finora – come è facile immaginare – non c’è stato grande dialogo tra questa strada che ancora oggi conserva un tessuto popolare e la limitrofa Johns Hopkins University, i cui master costano – come si può ricavare dal sito – tra 65 mila e 89 mila euro all’anno. Ma il muro che divide la strada e il suo giardino dalla sede bolognese della rinomata università che ha la casa madre a Baltimora sta per cadere, non solo metaforicamente. Ad aprire la breccia sarà una caffetteria.
Questo è, infatti, il succo di una proposta avanzata dalla Johns Hopkins University, elaborata dallo studio Betarchitetti. Il Comune la accoglie nella cornice dei “patti di collaborazione”, una delle articolazioni del sistema di partecipazione costruito dall’amministrazione comunale con grande enfasi retorica che ne nasconde l’essenza: imbrigliare la partecipazione entro forme istituzionalizzate e centralizzate e distoglierla dalle questioni cruciali, discusse e decise al di fuori delle sedi istituzionali, al riparo da qualsiasi dibattito pubblico e rese note solo a cose fatte. Nel caso specifico si tratta di una evidente forzatura: come è possibile utilizzare questo strumento per autorizzare un intervento urbanistico su un intero comparto? Si tratta di una corsia preferenziale? O di un esperimento per introdurre senza far rumore una ulteriore forma di deregolamentazione?
Ma torniamo alla caffetteria della Johns Hopkins. Il succo della proposta è tutta qui: l’università chiede di poterla espandere aprendola verso il giardino, in cambio si farà carico delle spese per la sua ristrutturazione. Come da copione, anche stavolta non mancherà l’abbattimento di alberi (in questo caso tre esemplari tutelati), un elemento che caratterizza tutti i progetti di “rigenerazione” in corso o in previsione in tutta la città e che sta assumendo dimensioni enormi e intollerabili, i cui effetti non saranno mitigati dalle promesse di “compensazione” tramite nuove piantumazioni.
Ovviamente una richiesta del genere – che comporta la modifica della configurazione di uno spazio pubblico a favore di un interesse privato – va addolcita con qualche zolletta di zucchero. Ecco allora che si prospettano “eventi e festival” (in un fazzoletto di terra!). E poi la formula magica: “riconfigurazione del margine”. Abbassando il muro di contenimento del giardino – secondo i promotori – si otterrà una maggiore “permeabilità” rispetto al comparto oggetto dell’intervento, “favorendone il presidio sociale”. Per supportare queste affermazioni generiche e prive di sostanza non poteva mancare il richiamo alla “sicurezza”: la “permeabilità” servirebbe infatti a “far fronte all’annoso problema della mala frequentazione durante le ore notturne”. Quindi un bar, un muro più basso, una migliore illuminazione e – non poteva mancare – un impianto di videosorveglianza.
Certi che la parola magica – “sicurezza” – rappresenti la chiave che apre tutte le porte (e non hanno tutti i torti, dal loro punto di vista, considerando il clima culturale e politico dominante, anche a livello locale), i redattori del progetto non si preoccupano delle evidenti contraddizioni. Se la “mala frequentazione” riguarda le ore notturne, come può la caffetteria garantire un presidio per scongiurarla? Se, come è scritto in un passaggio del progetto, “il rigido protocollo di sicurezza dell’università ha reso impensabile fino a ora favorire una permeabilità incontrollata degli accessi verso lo spazio pubblico”, cosa è cambiato ora? Forse la caffetteria non sarà aperta al pubblico (e quindi addio “presidio”?). Oppure dobbiamo aspettarci una caffetteria con “rigidi protocolli di sicurezza”?
Una versione precedente del progetto conteneva una proposta lasciata cadere nella versione definitiva, che merita però di essere citata: “Si propone inoltre la possibilità di trasformare l’attuale unità abitativa di proprietà comunale [che si affaccia sul giardino, ndr] in una attività ristorativa a carattere sociale che possa fornire una cucina interculturale di tipo kosher. Questa attività sociale consoliderebbe il carattere interculturale del comparto […]. Tale operazione potrà essere effettuata previo ricollocamento della famiglia ospitata nell’immobile”.
È un passaggio significativo, che illustra la protervia del soggetto privato che si spinge fino a invocare lo spostamento di un nucleo familiare insediato in un alloggio popolare per ricavarne un ristorante, e svela la vera natura del progetto. Il fatto che questa richiesta sia stata accantonata, infatti, non ne muta il significato: si tratta di un interesse privato su suolo pubblico. Tutto il resto è scenografia.
PICCOLO E GRANDE
Colpisce che nella relazione tecnica, nel paragrafo dedicato all’inquadramento storico e urbanistico, manchi qualsiasi riferimento al piano di edilizia popolare realizzato nel 1973. In sostanza, l’intervento proposto ignora completamente il contesto sociale nel quale va a incidere. Colpisce anche che il Comune non rilevi questa mancanza, che riguarda un aspetto di grande rilievo. Evidentemente l’amministrazione comunale ne ha perso la memoria, o forse non sa che farsene di una cultura urbanistica attenta ai bisogni sociali, al disegno complessivo della città e all’equilibrio tra interessi privati e interessi pubblici.
Del nuovo giardino San Leonardo il Comune è molto soddisfatto. I toni del comunicato con cui lo annuncia alla città (senza alcun confronto preliminare con il quartiere e i suoi abitanti) sono entusiasti: “Il progetto punta ad aprire il giardino verso la città, mettendolo in relazione con le attività e i servizi circostanti, attraverso la riqualificazione dei margini, la riorganizzazione degli accessi e la valorizzazione delle connessioni urbane […]. Gradini, sedute, rampe e gradoni ridisegneranno il perimetro del giardino per renderlo più accessibile, vivibile e connesso al tessuto urbano, trasformandolo in uno spazio di relazione e incontro per residenti, studenti e cittadini”.
Questo passaggio illustra bene quella che potremmo definire la neolingua della rigenerazione urbana. Si prende qualche termine dal lessico specialistico (riqualificazione, margini, connessioni…), lo si combina con qualche aggettivo comparativo che metta un po’ di enfasi nel discorso (più accessibile, più vivibile) e con qualche verbo che evoca il cambiamento (riorganizzare, trasformare), si condisce il tutto con una formula buona per tutti gli usi (spazio di relazione e incontro), e il gioco è fatto. Ma se si gratta sotto la superficie, quella frase non significa nulla.
Dietro al vuoto del discorso pubblico, però, ci sono processi rilevanti che stanno trasformando il volto della città. Da questo punto di vista la vicenda del giardino San Leonardo non è importante solo di per sé, per chi ne ha cura e lo frequenta, per chi abita nei dintorni, ma è anche una spia estremamente significativa delle tendenze in atto. Nella dimensione micro si possono leggere con chiarezza le distorsioni in atto nella dimensione macro. I 1.500 mq del giardino non sono diversi – per esempio – dalle decine di ettari delle grandi caserme dismesse, né meno importanti. La logica che regola la loro trasformazione è la stessa, e il suo nucleo è la profonda alterazione del rapporto tra pubblico e privato. In questo passaggio d’epoca, che ha inizio almeno trent’anni fa e che ora giunge a piena maturazione, i poteri pubblici hanno abdicato al loro ruolo di regolazione delle trasformazioni urbane in relazione ai bisogni della collettività. Non sanno né vogliono indirizzare gli interessi privati verso una funzione sociale, anzi, li assecondano al punto di modellare gli spazi pubblici sulla base delle loro esigenze. Bologna è ricca di esempi di questa sistematica distruzione dello spazio pubblico – che assume forme diverse a seconda dei contesti.
Il caso del giardino San Leonardo aggiunge a questo quadro un elemento specifico. Si tratta del fatto che – nella strategia dell’amministrazione comunale – la “rigenerazione” intesa nella sua accezione distorta deve riguardare anche le piccole aree, le zone interstiziali. Nulla deve sfuggire a questa ridefinizione dello spazio che è anche, necessariamente, una ridefinizione delle relazioni. I luoghi liberi, informali, dove non succede nulla di particolare perché vivono della ricchezza della quotidianità risultano d’intralcio a una visione dello spazio pubblico in cui i fattori dominanti sono il consumo, il controllo, l’organizzazione centralizzata di ciò che in quello spazio deve accadere. Ecco perché è così importante preservare la “normalità” di quel piccolo giardino. Se – partendo da lì – allarghiamo lo zoom, c’è la città intera, che vive ovunque le stesse tensioni. (mauro boarelli)