Nel settore delle intelligenze artificiali la Cina sta superando gli Stati Uniti?

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Nel settore delle intelligenze artificiali la Cina sta superando gli Stati Uniti?

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Fino a pochi mesi fa, il settore dell’intelligenza artificiale statunitense sembrava avere un netto vantaggio su qualsiasi concorrente. Aziende come OpenAI, Microsoft e Anthropic avevano sviluppato i modelli linguistici (o LLM) più avanzati e potenti del mondo (primo fra tutti ChatGPT) innescando una serie di investimenti molto ambiziosi nel campo delle AI.

A gennaio, però, un’azienda cinese fino allora poco nota, DeepSeek, rese disponibile online un nuovo modello dalle prestazioni comparabili ai migliori prodotti statunitensi ma dai costi molto più bassi. Nei mesi successivi, altri servizi simili provenienti dalla Cina, come Qwen di Alibaba Cloud o Doubao di ByteDance (la società proprietaria di TikTok), hanno dimostrato che il settore delle AI cinese non solo si è sviluppato molto velocemente, ma può competere con quello statunitense. Addirittura la rivista Foreign Affairs ha pubblicato un articolo secondo il quale, nel settore delle AI, gli Stati Uniti dovrebbero «prepararsi ad arrivare secondi».

Gli ottimi risultati delle aziende cinesi sono sorprendenti anche perché, a partire dal 2022, prima l’amministrazione di Joe Biden e poi quella di Donald Trump hanno vietato la vendita in Cina dei chip di produzione nazionale più avanzati, necessari per lo sviluppo di queste tecnologie. L’azienda più colpita da questi provvedimenti è stata senz’altro Nvidia, i cui chip sono un’avanguardia mondiale nel settore e hanno portato all’enorme crescita in borsa registrata dall’azienda negli ultimi anni.

Lo scopo degli Stati Uniti era quello di rallentare il progresso cinese nel campo delle intelligenze artificiali, ma il piano non ha funzionato del tutto. L’assenza forzata di Nvidia dal mercato cinese ha infatti costretto le aziende cinesi a investire nel settore. Secondo Jensen Huang, capo di Nvidia, questi blocchi hanno permesso alle aziende cinesi di guadagnare ampie fasce di mercato in Cina: prima dei divieti alle esportazioni, infatti, Nvidia controllava il 95% del mercato locale delle GPU (le unità di elaborazione grafica, un tipo di processore molto usato nell’addestramento delle AI), mentre oggi è scesa al 50%.

L’opinione di Huang è certamente influenzata anche dalle perdite economiche subite da Nvidia per via del blocco alle esportazioni, ma non è l’unico a pensare che la politica statunitense sia stata controproducente. Inoltre, in molti casi, il divieto è stato aggirato dalle aziende cinesi tramite società di facciata o il ricorso al contrabbando.

Alcune aziende, tra cui Huawei, si sono dimostrate in grado di sviluppare chip molto potenti, e secondo una recente analisi del centro studi francese Yole Group, entro il 2030 la Cina potrebbe diventare il principale produttore di semiconduttori (materiali fondamentali per la produzione di chip) al mondo, superando anche Taiwan, dove opera la TSMC, la più grande aziende del settore. Un eventuale sorpasso cinese in questo ambito potrebbe rendere inutili i divieti di esportazione.

Nell’ultimo anno le aziende cinesi del settore hanno anche investito per allargare il proprio mercato a paesi che non sono la Cina. In particolare una startup, Zhipu AI, sta lavorando per promuovere i suoi modelli linguistici in Asia, Medio Oriente e Africa, sfruttando la cosiddetta “nuova Via della Seta”, il grande progetto (noto anche con il suo nome in inglese “Belt and Road Initiative”) con cui il governo cinese finanzia infrastrutture commerciali in molti paesi.

Secondo OpenAI, l’azienda sviluppatrice di ChatGPT che sta provando a sua volta a espandersi in altri mercati, l’obiettivo di Zhipu AI sarebbe di «consolidare i sistemi e gli standard cinesi nei mercati emergenti prima che i rivali americani o europei possano farlo». Zhipu AI avrebbe già stretto accordi con Indonesia, Vietnam, Kenya e Malaysia.

Il grande investimento sulle AI in Cina rientra in una strategia governativa che, prima ancora di portare le proprie tecnologie all’estero, punta a rendere il paese indipendente dalle tecnologie statunitensi. Nel 2022 il governo cinese avviò un progetto segreto (detto anche “Document 79”) con l’obiettivo di sostituire del tutto i software stranieri con controparti cinesi entro il 2027, soprattutto nell’amministrazione pubblica e in settori chiave come finanza ed energia.

Le AI cinesi hanno inoltre una serie di caratteristiche che le rendono più accessibili di quelle statunitensi. La prima è perlopiù culturale: mentre le aziende cinesi puntano su applicazioni tecnologiche molto concrete, negli Stati Uniti l’obiettivo dell’industria sembra più ambizioso ma anche molto più fumoso. Gli esperti parlano di Artificial General Intelligence (AGI, o intelligenza artificiale forte, in italiano), un ipotetico livello futuro di AI in grado di replicare i meccanismi della mente umana. Si tratta di un concetto fantascientifico e di difficile definizione, che viene spesso evocato dai CEO delle aziende statunitensi, da Sam Altman di OpenAI a Demis Hassabis di Google DeepMind. Anche Mark Zuckerberg ha usato recentemente un concetto altrettanto aleatorio, quello di «superintelligenza».

In Cina invece da alcuni anni le AI sono alla base del programma di sorveglianza portato avanti dal governo centrale, oltre a essere impiegate nella gestione del traffico, nell’educazione e nell’amministrazione cittadina (soprattutto in alcune zone in cui le AI sono usate in modo sperimentale). In Cina, le AI vengono usate anche nell’industria, come dimostra la fabbrica di automobili completamente robotizzata (e potenziata dalle AI) da poco inaugurata da Xiaomi, in grado di produrre una vettura ogni 76 secondi.

Un altro fattore a vantaggio delle AI cinesi è il modello di distribuzione. I modelli linguistici cinesi sono open source, a differenza di quelli di Google o OpenAI. Ciò significa che chiunque può scaricarne una versione e modificarla come preferisce, favorendo la diffusione del software. In appena un anno sono stati creati più di centomila modelli derivati da Qwen, il modello sviluppato da Alibaba, ad esempio.

L’open source garantisce anche l’abbattimento dei prezzi, proprio mentre le aziende statunitensi puntano sempre di più su modelli potenti a pagamento. Secondo il co-fondatore di Latenode, un servizio che permette di creare e personalizzare AI da usare in ambito lavorativo, DeepSeek ha prestazioni simili agli altri LLM ma «costa 17 volte di meno» ed è quindi particolarmente diffuso in alcuni mercati, come quello sudamericano.

Nonostante tutto questo, le aziende statunitensi conservano un vantaggio notevole, visto che AWS, Microsoft Azure e Google Cloud, da sole, controllano circa il 60 per cento del mercato globale del cloud e quindi hanno un peso notevole nel settore dei data center, i centri di elaborazione dati su cui si basano i servizi di AI.

Un ulteriore vantaggio per la Cina riguarda il personale specializzato, ovvero gli esperti di intelligenza artificiale che sono molto ricercati da tutte le aziende tecnologiche. Secondo Huang la Cina ha a disposizione circa la metà dei migliori ricercatori del settore, i quali hanno difficoltà a trovare lavoro negli Stati Uniti a causa delle leggi sempre più limitanti per i lavoratori stranieri. Molti dei migliori ricercatori cinesi vorrebbero lavorare per le aziende della Silicon Valley ma sono molto incentivati (o costretti) a rimanere in Cina.

La Cina non è nuova a investimenti massicci in grado di trasformare profondamente le sue industrie. Negli ultimi anni, infatti, molte aziende tecnologiche cinesi hanno cominciato a produrre auto e veicoli elettrici, spesso sfruttando forti incentivi statali. I progressi compiuti dai settori cinesi dell’intelligenza artificiale e dell’automotive sono visibili in alcuni sistemi di guida autonoma sviluppati negli ultimi anni in Cina, che ormai sono in grado di competere con Waymo, il servizio di robotaxi di Google.

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