Scioperi e serenate. Da Tricarico a Torino e ritorno. Un estratto del libro

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Scioperi e serenate. Da Tricarico a Torino e ritorno. Un estratto del libro

Dal dicembre 2025 è in libreria Scioperi e serenate. Da Tricarico a Torino e ritorno (Monitor edizioni, 60 pagine, 12 euro), un libro sulla storia di vita di Antonio Guastamacchia, contadino e pastore lucano, operaio a Mirafiori durante le lotte degli anni Settanta, suonatore di tamburello. Potete leggere a seguire un estratto dal volume. 

La fabbrica mi stava stretta. Non volevo stare in fabbrica, mi sembrava di stare chiuso in una prigione. Era la primavera del ’75 e mi arrivò una lettera di mio padre che mi diceva che c’era la possibilità di lavorare qui, all’Anic. L’Anic lavorava materiale chimico. Ho scelto, vado giù, così sto vicino e aiuto i miei genitori. L’Ente Riforma aveva dato un podere a mio padre: si scelse un podere vicino ai terreni che aveva lui, all’ettaro di terreni che aveva, e gli serviva soprattutto per andare a pascolare le pecore, era comodo, era vicino. Avevo detto a mio padre di non rinunciare al podere, ai terreni, perché non si sa mai. «Tienili tu, al limite falli lavorare, partecipiamo alle spese». Mia sorella se ne andò in Svizzera, l’altra era a Torino, mio fratello se ne andò in Svizzera anche lui a lavorare con i muratori. Non avevamo un trattore, si facevano ancora i lavori con il mulo, con l’asino. Erano rimasti solo mia madre e mio padre qua a Tricarico. Ho pensato di stare vicino a loro; se hanno bisogno quando ho finito di lavorare, avrò il sabato e domenica liberi, o altri giorni; non sapevo i turni com’erano qui all’Anic, quando finivo potevo pure andare in campagna. E me ne sono venuto qua. L’Anic era a Ferrandina e Pisticci, c’è un’area industriale. Proprio a Pisticci ci sono stati morti per amianto.

Arrivo qua e successe che mio padre aveva parlato con uno di Tricarico che doveva darmi una mano. Io ero convinto che dovessimo fare un incontro in ufficio per fare la domanda. Questa invece era una raccomandazione di un politico! Era pure democristiano, un senatore. L’ho scoperto dopo, una sera andammo a Ferrandina con questa persona di Tricarico: «Aspettate in macchina, vado a vedere se è in ufficio». Torna: «No, il senatore non è venuto oggi perché è rimasto a Roma». Si vede che c’era qualche consiglio, qualcosa. Quando poi sono arrivato a Tricarico, e dovevamo tornare dopo qualche giorno o settimana, ho capito che non volevo la raccomandazione e non sono più andato. Non volevo chiedere il lavoro. E mi sono iscritto all’ufficio collocamento. È tornato anche mio fratello, non so perché tornò. Abbiamo ricomprato le pecore, ci siamo rimessi a fare quello che facevamo prima di andare: il pastore, le pecore. Abbiamo comprato un trattore, abbiamo iniziato ad arare con il trattore. Eravamo sul podere della riforma e sull’ettaro e mezzo di mio padre. Abbiamo iniziato a fare i lavori e siamo rimasti qua. Io mi sono iscritto all’ufficio collocamento, anche mio fratello si è iscritto, abbiamo fatto i braccianti.

Tornando qua, ho continuato a frequentare la sezione del Pci, lavoravamo insieme con gli altri, organizzavamo gli scioperi con i braccianti, abbiamo fatto anche uno sciopero per l’Anic. Volevamo andare a lavorare all’Anic, la gente voleva il lavoro, non se ne fregava se era un lavoro che portava morte. Anziché emigrare, lavoriamo qua. Solo che bisognava farlo con più sicurezza. Perché prima non davano neanche le mascherine per l’amianto. C’era un mio amico, anche lui del Pci, della mia età, lui andava a lavora- re alla Liquichimica di Ferrandina e ha avuto problemi di tumore, tanto è vero che non c’è più.

Ho frequentato il Pci al ritorno da Torino, però io una volta ho visto, ma ero piccolo, sette o otto anni, una scheda del Psi. Con il fatto che qui c’è stato Rocco Scotellaro, molta gente votava Psi per Rocco Scotellaro. Scotellaro fece una lista civica, si chiamava Lista Aratro, non misero il simbolo del Psi quando ha vinto Scotellaro e anche dopo hanno continuato a mettere l’aratro. E so che mio padre era di quella tendenza, ma in casa non si parlava, la politica proprio non c’era. E anche questo di Tricarico che mi voleva portare dal senatore per raccomandarmi era del Psi, però il Psi con la Dc andava d’accordo, hanno fatto tanti governi assieme!

Quando sono tornato, ho incominciato a portare le serenate. A Tricarico c’era un’usanza: dal 17 gennaio, che è il primo giorno di Carnevale, si cominciano a portare le serenate. Inizia tutto con il Carnevale. Fino al martedì grasso si possono portare le serenate. Cara Ninella è una canzone tipicamente di Carnevale, perché tu in quelle frasi chiedi se si è ammazzato il maiale, chiedi di tirare fuori il salame. Nel periodo dopo Natale i lavori della campagna erano quasi finiti e si ammazzava il maiale, si faceva la salsiccia. Nella canzone Cara Ninella andavi a chiedere se avevano ammazzato il maiale perché volevi un po’ di salame. E si creava la festa, noi suonavamo e loro andavano a prendere il salame. Molte volte anche dove non c’era il salame noi facevamo comunque la serenata: ci accontentavamo di un piatto di spaghetti.

Tu portavi le serenate quando queste persone erano già a letto, dovevi aspettare che loro si coricavano. Arrivavi vicino alla porta con fisarmonica, cupa cupa, tamburello o zampogna e ti mettevi a suonare e cantare, a sorpresa. Magari c’era qualcuno che in mezzo a noi aveva organizzato: un parente, un compare, un amico. E abbiamo incominciato a fare queste serenate. Erano accettate le serenate, molta gente se le aspettava. C’era un amico mio, Franco Manzi, che era del Pci: lui voleva la serenata tutti gli anni e noi gli portavamo la serenata. C’era un altro amico, sempre del Pci – perché poi cercavamo di andare nelle case dove eravamo accettati dalle persone –, Pasquale Langone, lui ti ricordava: «Il 27 faccio il compleanno!». Per dire: portatemi la serenata. Andavamo a fare la serenata, poi si entrava in casa, loro preparavano da mangiare, mangiavamo, si continuava a suonare. Era una festa. Non solo la sera, la notte! Quando poi si incominciava a imparare le canzoni, partivi la sera e tornavi la mattina. La mattina, era giorno, passavi dalla piazza, suonavi davanti al bar, ti offrivano il caffè e te ne andavi a casa. Restavi senza voce. Questo lo faceva mio padre e poi ho ripreso a farlo io da quando sono tornato da Torino, prima non l’ho fatto mai.

Prima non dovevi chiedere se portare o no la serenata, ti presentavi e basta. La dispensa era sempre piena, soprattutto cercavamo di sapere chi aveva ammazzato il maiale. Io a mio padre lo sentivo anche quand’ero piccolo che lui portava le serenate. A casa nostra è venuto anche Scotellaro, perché Scotellaro era uno a cui piaceva andare con i contadini a sentire le serenate, a stare con loro, lui era uno di noi. Io a mio padre lo sentivo cantare le serenate, però non mi ha mai portato insieme. Proprio se era una festa vicino casa, allora ero lì ad ascoltare. E da lì ho cominciato a cantare anche io, ma da solo, senza farmi sentire. Poi, quando sono tornato a Tricarico, le serenate erano scemate, anche il Carnevale era scemato, quasi non c’erano più. A una certa età anche gli anziani non uscivano più. E mi sono trovato io a portare le serenate, si organizzavano dei balli nelle case.

Io ho imparato da solo a suonare il tamburello. Vedevo mio padre come lo suonava, ma non ero capace di suonarlo, poi piano piano ho imparato. Dopo la fabbrica ho cercato di imparare a suonare il tamburello, ma era difficile perché è pesante. [Prende il tamburello e accenna i battiti]. A Tricarico c’è la terzina. Tre colpi. E ho imparato con un tamburello e con la scatola delle scarpe, quella è leggera. [Suona]. E ho imparato. Ho sempre guardato mio padre, poi ho iniziato piano piano, piano piano. E poi velocissimo. [Suona il tamburello modulando diverse veloci- tà]. Quando io faccio la terzina, molti non vengono dietro. Quando ballano la pizzica, per esempio, e io mi trovo là e mi metto a suonare questa, e questa è tarantella e non è pizzica, loro non riescono a ballare, si fermano. Perché la pizzica non si balla con la terzina. La terzina non la fanno in nessun altro posto se non a Tricarico. [Mostra i colpi]. Il primo è con i polpastrelli delle dita, il secondo è con il pollice e il terzo con il dorso della mano. La terzina non esiste in altri posti. La terzina appartiene alla tarantella. Io dico sempre: noi abbiamo la tarantella, perché dobbiamo fare la pizzica? Sì, possiamo anche fare un pezzo di pizzica, come loro possono fare un pezzo di tarantella, ma i pugliesi fanno solo pizzica. La tarantella è lucana, calabrese, a Napoli la tammuriata, in Abruzzo e nel Lazio il saltarello.

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