Caserta ai suoi antieroi – Capitolo VII

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Caserta ai suoi antieroi – Capitolo VII

In memoria di Roux

Per Alfredo quella domanda lanciata nel silenzio del tinello non suonava come una domanda. Erano a tavola. Tempo di feste comandate, quando tutti tornano. La testa abbassata rivolta verso il piatto di pasta e patate. Il suo piatto preferito. Il cucchiaio impugnato male. La madre sapeva che al figlio quel piatto piaceva assai. Che lo aveva riproposto ai suoi coinquilini a Torino, coi quali aveva condiviso la scelta della pasta mischiata, la variante con la provola, il lardo, il pomodoro pelato, il sedano, la carota. Era bastato un anno fuori e lontano da casa per capire che le cose che mancano veramente sono sempre quelle più semplici. Nella busta che la madre gli aveva dato prima di partire, lei gli aveva scritto una lettera sgrammaticata con la ricetta e il procedimento passo passo. Un modo della madre di dire al figlio che l’amava. Alfredo quando l’aprì scoppiò a ridere e poi a piangere.

L’esito della sua pasta e patate però non coincideva mai con quello che adesso stava gustando. Una pasta morbida, cremosa, il gusto di patate dolci che si scioglievano in bocca assieme al retrogusto della scorza di parmigiano ammorbidita dentro la pentola. Una punta di pepe nero e un bicchiere di vino rosso del contadino di Castelvenere, un tale di nome Ugo che il padre di Alfredo aveva conosciuto e di cui si fidava; che faceva il Piedirosso e il Barbera del beneventano a poco al litro. Le posate tintinnavano, gli sguardi erano rivolti verso il mangiare. A tavola, oltre a lui, la madre e il padre, anche la sorella e il fidanzato Rosario. La mozzarella e il prosciutto crudo per secondo. Il pane cafone era tagliato a fette spesse. Le zucchine alla scapece mantecavano nell’olio.

Rosario, il ragazzo della sorella, aveva portato le paste. Era un bravo ragazzo, uno studente di filosofia appassionato di letteratura. Uno che a ventiquattro anni già aveva letto tutti i classici francesi. Al padre di Alfredo piaceva quel ragazzo sveglio, che stava facendo le scuole alte, che studiava, leggeva, s’informava, s’infervorava quando parlava di politica. Alla madre di Alfredo dava certezze. Gli andava bene anche perché le discussioni, quando si accendevano, trovavano una sintesi, e poi perché per il padre di Alfredo veniva rispettato un principio cardine, che più volte il padre aveva ricordato alla figlia femmina con quel dialetto sporco che tradotto suonava più o meno così: frequenta chi è meglio di te, e se necessario rimettici le spese.

E Rosario era meglio di loro nello spirito e nella materia. Ereditava privilegi e gerarchie di valori precise. Era stato educato alla bellezza, al caos artistico, al gusto, ma non ignorava il mondo reale. Era di quel genere di persone nate nella buona sorte, che però si sentono in dovere di dare, di contribuire. Uno di quelli che non riteneva estraneo a sé nulla di ciò che era umano.

D’altro canto, il padre di Alfredo era tutto ciò che Rosario leggeva sui libri dei filosofi e sui quotidiani. Uno dei tanti oppressi alienati dal lavoro salariato doppiamente libero. La prova tangibile dell’esistenza del lavoro vivo fatto di fatica che genera ricchezza, e poi tutti a casa, in poltrona davanti al televisore a guardare Samarcanda, Maurizio Costanzo, Quelli che il calcio. Un lavoratore che aveva fatto la gavetta in mezzo alla strada: questo era il padre di Alfredo. Orfano di padre operaio morto in fabbrica, l’aveva sostituito nell’organizzazione scientifica dello sfruttamento di generazione in generazione. E, tecnicamente, dopo di lui toccava ad Alfredo.

Ciò che Rosario leggeva sui libri il padre l’aveva vissuto sul posto di lavoro. L’uno parlava in italiano e l’altro in dialetto, con l’altro in dialetto che si sforzava di parlargli in italiano, raccontandogli del guappo del rione, che conosceva ma che teneva alla larga perché lui invece lavorava per ironia della sorte a seguito della morte del padre. Altrimenti chissà come sarebbe andata a finire. Il padre di Alfredo lo prendeva bonariamente in giro a Rosario, che almeno per una volta aveva portato due paste da condividere con la grappa alla fine del pranzo domenicale.

“Quanto ti pagano?”. Per Alfredo quella domanda era un’occasione per farsi valere. Ecco perché non suonava come una domanda qualunque. Si stava dando da fare, il ragazzo. Aspettava il riconoscimento. Aveva trovato un lavoro a Torino per pagarsi l’affitto, le spese, il fumo, le sigarette, qualche birra, i biglietti di qualche concerto. Si sentiva autonomo. Con quei soldi in tasca si sentiva diverso dagli studenti che lo circondavano. Diciottenni come lui, ma spensierati a differenza di lui, che ogni tanto si eclissava mentre quelli parlavano, parlavano, parlavano. Aveva come una rabbia che sapeva d’orgoglio, perché lui lavorava e gli altri no. Ma siccome di indole era buono, quella rabbia la conteneva, la immagazzinava da qualche parte nel suo cervello – ci voleva tempo prima di farla deflagrare. Si poteva poi permettere di comprare cose che appena un anno prima non avrebbe mai immaginato. Niente di che, ma sempre meglio di niente. Aveva un minimo accesso al consumo perché aveva trovato una pizzeria che gli dava un motorino mezzo rotto e lui faceva le consegne a casa della gente due o tre sere la settimana. A volte quattro, perché in caso di maltempo nessuno voleva lavorare e allora lo chiamavano e lui non sapeva ancora dire di no ai proprietari compaesani.

Un cazzo di freddo su quel motorino. Però così conosceva a poco a poco quella città dal fascino sinistro, con viali e controviali, il cielo basso e i palazzi austeri. Non gli dispiaceva la scoperta di una città che si svelava solo quando entravi dentro ai portoni eleganti. I clienti che gli davano le mance erano quasi tutti meridionali come lui. Gli studenti aprivano porte di appartamenti trascurati ma affascinanti, mentre lui viveva con altri due lavoratori pugliesi in una casa buia al piano terra di un palazzo fatiscente. Ogni tanto una mancia dagli studenti pure la raccoglieva, e quelli lo invitavano a partecipare a questa o quell’assemblea contro la guerra o la repressione tra una consegna e l’altra.

Quando andava a consegnare pizze in palazzi che considerava benestanti la mancia se la prendeva da sé, nascondendo ai clienti ricchi lo scontrino e aumentando il prezzo di uno o due euro. I benestanti neanche se ne accorgevano. “Quello che non mi date voi, me lo prendo”, diceva tra sé per giustificare l’esproprio. Teneva un salvadanaio, come d’abitudine. Lo stesso genere di salvadanaio rotto prima di prendere il treno notturno alla stazione di Caserta, senza guardarsi alle spalle, una sera di novembre del 2001. Coi primi soldi del lavoro di consegna pizze s’era comprato dei guanti da neve. Le mani erano spaccate dal gelo. La benzina al motorino doveva metterla lui, sebbene il mezzo non fosse di sua proprietà.

E Rosario, quel giorno, a tavola, mentre mangiavano pasta e patate, voleva sapere quanto guadagnava da quello che per Alfredo era a tutti gli effetti un lavoro – non un lavoretto –, fatto di gesti, impegno del corpo, intelligenza, capacità di riflettere, interpretare e reagire. Il cucchiaio affondava nel groviglio cremoso. Alfredo rispondeva: “Cinquanta centesimi a pizza più le mance”.

“Così poco?” – Rosario avrebbe posto la stessa domanda pure se Alfredo gli avesse risposto di guadagnarne il triplo per ogni pizza consegnata, perché Rosario sapeva. Il cottimo come retribuzione basata sui risultati e non sul tempo è un’ingiustizia.

Con quella domanda tendenziosa, Rosario stava comunque nominando la corda in casa dell’impiccato. Era la casa di una famiglia di terra di lavoro, laddove il valore dei soldi è tutto e il valore del lavoro è niente. La provincia rurale che ce l’ha fatta ad accumulare capitali a furia di far scavare le cave e costruire palazzi a tutta la manodopera a basso costo disponibile sul territorio. Quella che non era emigrata come Alfredo. Che ne poteva sapere Rosario del lavoro di consegna pizze? Quando mai aveva alzato una cardarella, lui? L’aveva letto dai libri, certo, ma non l’aveva vissuto sulla sua pelle da borghese figlio di professionisti. Non ne aveva bisogno. Lui era in casa di una famiglia tirata su con la doppia occupazione da un lato e il lavoro domestico invisibilizzato dall’altro. Io porto il pane a casa, tu il caffè a letto: così aveva detto una volta il padre di Alfredo, in dialetto stretto, alla moglie durante uno dei tanti litigi.

E Rosario, che amava dal profondo la sorella di Alfredo, che si sentiva di poter parlare così a quella gente di popolo, azzardava un giudizio sul valore che fa il lavoro. Insinuava che il figlio dell’operaio si stava facendo fottere, mentre quello vedeva in quel lavoro tutto ciò che si può avvicinare all’emancipazione quando tieni diciott’anni. Una condanna senz’appello. Aveva una sua teoria, Rosario, o meglio l’aveva studiata, a differenza di Alfredo.

“Mica è poco. Il sabato sera con le mance arrivo pure a quaranta euro”.

“Per quante ore?”.

“Non è poco per me”.

“Per quante ore?”.

“Sette, otto ore. Poi mangio pure la pizza. La fa buona. Mi alzo anche cento euro la settimana”.

“E il tuo padrone lo sai quanto guadagna?”.

“E che ne so?”.

“E un contratto? Te l’ha fatto un contratto?”.

Alfredo gli rispondeva di no con un cenno della testa rapido, incupito, senza neanche guardarlo.

“E se fai un incidente chi ti paga i danni?”.

La mamma di Alfredo, a quel punto, lo fulminava con gli occhi dal profondo della sua superstizione. La sorella in silenzio si affrettava nel cucinotto per lavare i piatti. Alfredo non rispondeva. Il padre aveva ascoltato con attenzione, guardava il figlio con supponenza, come chi giudica il costo della merce viva al mercato delle braccia. E allora giudicava il costo del suo lavoro. E sigillava così, in via definitiva, quel giudizio: “Jamme, strunz. Se ti dice che è poco, è poco”.

Alfredo non riusciva a credere che qualcuno gli potesse sbattere in faccia la svalutazione dei suoi sacrifici, che qualcuno stesse mettendo in discussione tutte quelle giornate passate a sgobbare al freddo, sotto la pioggia. Solo anni dopo lo avrebbe capito, ma non in quel momento, tra la pasta e patate e la mozzarella, a tavola, nel tinello di casa. La carta da parati rosa alle pareti. Il televisore spento. Qualche brutto dipinto appeso. Non la sentiva neanche più sua, quella casa. Le donne ascoltavano gli uomini, pronte per spegnere l’incendio, perché sapevano che la violenza era un’opzione percorribile tra le tante in quelle mura domestiche.

Alfredo allora si alzava dal tavolo, entrava in bagno con gli occhi gonfi. Non voleva dargliela vinta. Non voleva mostrare debolezza davanti al padre. Non aveva il diritto di piangere davanti a lui. Un cazzotto sul muro del bagno provocava un rumore sordo, che nessuno aveva sentito. Gliel’avrebbe fatta pagare. Lo giurava a se stesso, guardandosi fisso negli occhi gonfi di lacrime, davanti allo specchio. Gliel’avrebbe fatta pagare prima o poi. Se lo ripeteva respirando forte, ansimando, stringendo a pugno le mani spaccate dal gelo per un lavoretto di merda che nel giro di un anno l’aveva fatto uomo. (pomé)

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