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Quando lo scorso mese Donald Trump ha visitato il Medio Oriente, ad accompagnarlo c’erano molti imprenditori del settore tecnologico, tra cui Sam Altman e Jensen Huang, capi di OpenAI e Nvidia. Non c’era invece Tim Cook, CEO di Apple, il quale, secondo il New York Times, era stato invitato ma ha rifiutato di partecipare.
La scelta di Cook ha irritato Trump, che l’ha rimarcata nel corso di un suo discorso pubblico a Riyadh, in Arabia Saudita: «Tim Cook non è qui ma tu ci sei», ha detto riferendosi a Huang. Più tardi, in Qatar, Trump ha detto di «avere un piccolo problema con Tim Cook», in particolare riguardo ai piani di Apple di trasferire parte della sua produzione dalla Cina all’India, e non negli Stati Uniti. Pochi giorni dopo quel viaggio, Trump ha minacciato di imporre dazi del 25 per cento su tutti i prodotti Apple che non sono fatti negli Stati Uniti.
Anche se Trump è solito fare dichiarazioni forti e minacce dirette a singole aziende, storicamente Apple è stata l’eccezione. Nel corso della prima amministrazione Trump, Cook si distinse per la sua capacità di dialogo con il presidente, ottenendo un trattamento di favore per Apple. Per riuscirci, secondo il Wall Street Journal, Cook puntò su una relazione personale con Trump: «Invece di mandare direttori delle relazioni aziendali o lobbisti, Cook si rivolgeva direttamente a Trump tramite telefonate e cene». La sua strategia prevedeva anche il concentrarsi su un singolo argomento o un singolo dato, evitando che questi incontri «divagassero in troppe direzioni».
Nel 2017, ad esempio, mentre Trump stava preparando un piano di tagli fiscali, Cook disse all’allora presidente che Apple avrebbe aumentato gli investimenti negli Stati Uniti se avesse potuto rimpatriare 250 miliardi di dollari di liquidità dall’estero a un’aliquota fiscale ridotta. Più tardi, quando Trump presentò il suo piano, citò proprio la promessa fatta da Cook.
La strategia di Apple, che lunedì prossimo terrà la sua annuale conferenza per sviluppatori, la WWDC, sembrava destinata a funzionare anche questa volta. Lo scorso 2 aprile, quando Trump annunciò un discusso piano di dazi per circa 90 paesi, i mercati reagirono molto negativamente: Apple in particolare si rivelò essere una delle aziende più esposte, perdendo in borsa circa 640 miliardi di dollari in tre giorni.
La settimana successiva, però, Trump esentò dai nuovi dazi computer, telefoni e chip, precisando di averne parlato con Cook. Poi qualcosa è cambiato e Apple è finita al centro delle accuse e dei dispetti della Casa Bianca, a conferma del cambiamento improvviso nei rapporti tra i due.
– Leggi anche: Apple è in ritardo con i suoi piani per l’intelligenza artificiale
Secondo Nu Wexler, esperto di relazioni pubbliche che ha lavorato per Google e Facebook, quella tra Cook e Trump è stata per anni una «relazione speciale» che ora si sta ritorcendo contro l’azienda: «Questo ha messo Apple in una condizione di svantaggio perché ogni suo movimento, compresa una potenziale concessione da parte di Trump, è sotto scrutinio». Inoltre, al momento, è soprattutto Apple ad aver bisogno di un trattamento di favore, mentre per Trump «l’incentivo a colpire è molto più forte».
Durante il primo mandato di Trump, infatti, Apple evitò i dazi anche sottolineando come una guerra commerciale di questo tipo avrebbe favorito Samsung, un’azienda sudcoreana, nei confronti di una statunitense. Questo tipo di pressioni si accompagnò a una serie di promesse di investimenti per trasferire parte della produzione dalla Cina all’India – e agli Stati Uniti.
Sempre nel 2017, Trump disse che Cook gli aveva promesso di costruire «tre grandi e bellissimi stabilimenti» negli Stati Uniti. Nello stesso anno, anche Foxconn, l’azienda taiwanese che produce gli iPhone e molti altri dispositivi elettronici, promise a Trump di costruire uno stabilimento in Wisconsin. La struttura rimase perlopiù vuota prima di essere messa in vendita nel 2023.
Nel corso del primo mandato di Trump, quindi, ad Apple bastò sostanzialmente promettere di riportare alcuni posti di lavoro negli Stati Uniti, mentre spostava parte della produzione dalla Cina verso India e Vietnam. Ora non è più sufficiente.
Anche per questo, lo scorso febbraio Apple ha promesso di investire 500 miliardi di dollari negli Stati Uniti nel corso dei prossimi quattro anni per la produzione di chip e server. Visti i precedenti, però, ci sono dubbi sulla fattibilità di questo progetto, che è comunque poco soddisfacente per Trump, che vorrebbe trasferire negli Stati Uniti la produzione degli iPhone, una richiesta considerata dai più impossibile.
Il sogno di un iPhone “Made in USA” ha in realtà una lunga storia. Già nel 2011, l’allora presidente Barack Obama domandò a Steve Jobs perché Apple non producesse gli iPhone nel loro paese. La risposta di Jobs fu secca: «Quei posti di lavoro non torneranno mai». Anche lo stesso Cook si è espresso sulla questione, precisando che il motivo per cui Apple produce in Cina – come praticamente tutte le aziende del settore – non è il basso costo del lavoro quanto le competenze e le filiere industriali presenti nel paese, uniche al mondo.
La questione è al centro di un libro appena uscito negli Stati Uniti, Apple in China: The Capture of the World’s Greatest Company, scritto da Patrick McGee, giornalista del Financial Times, in cui si racconta il fitto e inestricabile legame che lega ormai Apple e Cina. Secondo McGee, sarebbe impossibile per Apple spostare la produzione al di fuori di quel paese. Innanzitutto perché i suoi dispositivi costerebbero il doppio o il triplo di quanto costano oggi, ma soprattutto perché nessun altro paese ha la capacità di produrre, assemblare e montare prodotti tanto avanzati a simili volumi.
Una delle cause di questa unicità sarebbe Apple stessa. La tesi del libro, per quanto discussa, è che Apple abbia di fatto finanziato il sistema produttivo cinese nel corso degli anni, formando personale altamente specializzato e sostenendo un tessuto di aziende che oggi rende la Cina insostituibile nel settore tecnologico, e non solo.
Il libro racconta anche di quando, nel 2016, Cook andò nella sede del Partito comunista cinese a Pechino per rassicurare il presidente cinese Xi Jinping, dicendo di voler investire 275 miliardi di dollari nel paese. «Lo chiamo il “Piano Marshall per la Cina” perché non sono riuscito a trovare alcuna spesa privata che si avvicinasse a quella di Apple», ha spiegato McGee, riferendosi al piano con cui gli Stati Uniti finanziarono il rilancio economico di alcuni paesi europei dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
Apple in China esce in un momento complicato per Apple, che sta affrontando diverse crisi su più fronti. Oltre ai dazi, infatti, l’azienda è alle prese con un caso di antitrust che riguarda soprattutto il suo App Store. Da anni, infatti, Apple trattiene il 30 per cento di ogni transazione che avviene all’interno delle app scaricate via App Store, una politica ritenuta anticompetitiva da una recente sentenza.
Un altro caso antitrust riguarda in realtà Google, che ogni anno versa ad Apple almeno dieci miliardi di dollari per essere il motore di ricerca predefinito su Safari, il browser dell’azienda. Anche in questo caso, c’è il rischio che Google venga costretta a interrompere questo tipo di accordi per favorire una maggiore concorrenza nel settore, privando Apple di un’altra importante entrata.
Poi ci sono i problemi più strutturali, legati ai cambiamenti che interessano il settore tecnologico, che sta investendo da tempo sull’intelligenza artificiale. In questo campo, infatti, Apple è in grossa difficoltà, nonostante abbia presentato ormai un anno fa Apple Intelligence, una serie di funzionalità basate sulle AI che finora ha avuto risultati molto deludenti.
Nel frattempo, sempre lo scorso mese, OpenAI ha annunciato di stare sviluppando un nuovo dispositivo pensato proprio per l’intelligenza artificiale con Jony Ive, storico designer di Apple. Nelle loro intenzioni, il nuovo prodotto dovrebbe superare lo smartphone, e quindi anche l’iPhone, il prodotto di punta di Apple.