
Da un paio di settimane infuria la polemica legata all’atmosfera dello stadio Maradona, che avrebbe perso, a detta di molti, il suo tipico ardore. La questione esiste, almeno in parte, e le possibili cause sono tante. Prima di tutto il costo dei biglietti che, moltiplicato per il numero di partite (in media si gioca in casa ogni sette-dieci giorni), fa sì che molte persone tra quelle più attive e rumorose, per esempio i più giovani, rimangano spesso escluse per motivi economici; c’è il fattore turisti, che sono sempre di più e che passano la partita a farsi selfie più che a tifare, ma è difficile pensare che questo possa avere una grossa incidenza; ci sono poi regole assurde come il divieto di introdurre nell’impianto persino fumogeni colorati, e c’è la progressiva trasformazione, a cui assistiamo da tempo, dell’evento calcistico in prodotto. Lo diceva un amico in questi giorni: cliente e tifoso sono due cose diverse, anche solo perché se il primo pretende di essere trascinato dalla squadra, il secondo ha come obiettivo quello di trascinare.
(credits in nota 1)
Uno dei paragoni più usati per questa trasformazione, che in effetti avviene in molti stadi, è quello con il teatro («Questa è una curva, non è un teatro!», gridano gli ultras provando a far cantare i tifosi più mosci). Non fanno eccezione i tanti commentatori sportivi locali, a cui andrebbe ricordato, senza bisogno di scomodare l’antica Grecia, che il Globe elisabettiano era tutt’altro che un posto da serate di gala; o che nei teatri popolari dove, per esempio, si portava sul palco la sceneggiata, accadeva di tutto.
Durante lo spettacolo la gente si alzava in piedi sulle poltroncine consumate. Gli avevano gridato di cantare ancora. Toglievano il cappello, a lui batteva più forte il cuore. […] Il popolo, quelli che altrimenti al teatro non ci vanno. Quando con l’ultima coltellata l’onore aveva trionfato, loro gli gridavano di colpire ancora. La punizione per il traditore, l’infame, ‘o malamente. Dopo essere stramazzato al suolo, ormai morto, il malamente si alzava. Come per una nuova energia, una nuova vita. Era quello che il pubblico chiedeva. Quello bisognava dargli. Chiedevano di colpire ancora, e al disgraziato di restare in piedi, solo per qualche minuto. Cantare. Tirare forte con quella lama. Delitto d’onore. Era una questione d’istinto. (riccardo rosa, la sfida. storia del re della sceneggiata)
Giacché siamo all’autocitazione, tanto vale menzionare che qualche anno fa, nel mezzo di una polemica durissima tra gli ultras del Napoli e il presidente De Laurentiis, scrissi un pezzo su questo tema dell’atmosfera – lo ricordavo migliore, ma così va la vita. In realtà, fin da quando avevo vent’anni, mi è capitato a volte di ascoltare la partita del Napoli in radio, alle spalle della curva, ma con una compagnia abbastanza giusta per capire che non è lo spettacolo a fare il tifoso, ma il contrario.
C’è poi un bel video in cui un ragazzino racconta di aver fatto un lungo viaggio per assistere alla partita della sua squadra (il Boca Juniors), e dichiara fiero che essere lì val bene l’aver dovuto vendere la sua Play Station, e la moto del suo papà. «E non abbiamo nemmeno il biglietto!», aggiunge. «Ma questo è il Boca: guarda!».
Ho ripensato a quella scena in settimana, durante l’ultima partita del Napoli – anche quella abbastanza noiosa. Tra i cori, i megafoni, le bandiere e le mani alzate, avevo davanti un bambino incappellato, sulle spalle del suo papà: un piccolo tifoso di due o tre anni che ha fatto sentire la sua voce molto più di una buona parte della curva in cui eravamo. Dopo un’oretta è crollato, distrutto, e avendo dato tutto quello che poteva, si è addormentato. Chissà se a teatro avrebbe resistito.
I’m only sleeping è solo su un primo livello di lettura un inno alla nota pigrizia di John Lennon, e un attacco alla frenesia del consumismo dei Sessanta – “Tutti sembrano pensare che sono pigro | Non importa | Io penso che sono pazzi loro | Correre ovunque a quella velocità | Finché non trovano qualcosa di cui non c’è bisogno”. In realtà, il pezzo è la traccia numero tre di Revolver, album scritto dai Beatles sotto la totale influenza dell’Lsd, tra amplificatori appesi a una corda, registrazioni riprodotte al contrario e volumi-guida come il Libro Tibetano dei Morti di Timothy Leary. Centrale in quel libro è un passaggio, poi citato in Tomorrow never know, in cui si consiglia di “credere nel proprio cervello”, “fidarsi dei propri compagni” e, davanti ai dubbi, spegnere la testa galleggiando verso la valle.
I quattro Beatles avevano in quel periodo una certa esigenza di spegnerla, la testa, dopo il disastroso tour dell’estate del ’65, durante il quale folle urlanti e in delirio anodino avevano reso frustrante ogni esibizione musicale. Un ultimo tentativo era stato fatto sei mesi dopo, ma dopo le tappe invernali la band aveva comunque deciso di scrivere un disco (Revolver, appunto) che non avrebbe potuto essere riprodotto dal vivo. A fargli cambiare idea non erano servite, evidentemente, le serate di Glasgow, Liverpool e Newcastle. In teatro.
Non a tutti sta bene come Macciardi ha deciso di iniziare il suo mandato al Teatro San Carlo di Napoli. Qualcuno, in più di un’occasione, avrebbe usato questa frase: “Sono entrata da padrona, mica posso uscire da cameriera”. […] Il riferimento è alla minaccia di “spoil system” che […] l’ex sovrintendente del Comunale di Bologna avrebbe paventato. Un’operazione che potrebbe cambiare i ruoli di molte figure finite nella nostra inchiesta, e che in questi anni hanno goduto di compensi alti, spesso considerati poco regolari anche dal ministero dell’economia. Le storture sono anche di ordine “figliettistico”: l’attuale direttore artistico delle Officine Vigliena, per esempio, è il figlio della Direttrice Generale Spedaliere. E per alcune delle persone coinvolte c’è ora aria di “pensionamento anticipato”. (riccardo canaletti, mowmag.com)
a cura di riccardo rosa
Post Scriptum: mi sono chiesto in questi mesi se ai protagonisti del poco edificante “San Carlo-Gate” sia noto questo intervento di Eduardo De Filippo che raccontava, nella sua ultima apparizione pubblica, la dedizione, il sacrificio, la sofferenza necessari per questa nobile arte.
«Così si fa il teatro», concludeva lapidario. «E così ho fatto».
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¹ Il Napoli segna due gol (Pià, Scarlato) al Foggia nei minuti di recupero e passa dall’1-2 al 3-2 in centoventi secondi. In quel campionato di Serie C1 2004-2005 la squadra allenata da Reja fece registrare una serie di record emblematici per raccontare il supporto dell’allora stadio San Paolo, sempre gremito nonostante la categoria, e decisivo con il proprio tifo nell’ottenere risultati negli ultimi minuti di gioco. In sette occasioni su diciassette il San Paolo superò i 40.000 spettatori, con una media stagionale di 37.000 presenti (di cui 19.000 abbonati); dodici delle diciassette vittorie furono ottenute in casa, dove il Napoli fu sconfitto una sola volta; due record, in particolare, furono registrati per la storia dei campionati di terza serie, che difficilmente verranno superati in futuro: 14 punti ottenuti grazie a gol segnati negli ultimi cinque minuti di gioco più recupero; 63.000 spettatori presenti allo stadio (in occasione del play-off di andata contro l’Avellino).

