Un fiore del male. Storia di burocrazia e oppressione a Torino

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Un fiore del male. Storia di burocrazia e oppressione a Torino
(disegno di ottoeffe)

Chiamatemi Selma. È un nome di fantasia, voi mi capite. Il mio nome vero è un altro e vi dico come si pronuncia. Come? Apri la tua bocca e muovi la dentiera superiore e inferiore, sbattendo i denti, e poi apri un sorriso: senti il vero nome mio. Un nome di origine latina, periodo di colonizzazione, quando i bianchi sprofondavano nel mondo nuovo a sfruttare, rubare e distruggere l’America latina. Proprio la mia origine biologica è il Brasile, ma il mio nome proviene da questo mischio di rivolta oggi chiamato libertà. Dove devo stare? Non sceglie il Brasile dove sono nata e ho vissuto per trentatré anni, non sceglie l’Italia dove vivo ormai da vent’anni. Sono libera perché scelgo io.

Ogni tanto scrivo articoli per Napoli Monitor, o faccio da autonoma dei piccoli video documentari su momenti di rivolta nella città dove vivo, Torino. L’ultima mia mossa nel movimento per la strada a Torino è stata nella manifestazione pro Palestina, che ormai è diventata una sfilata da borghesi per farsi vedere in abiti firmati, spronando la democrazia fallita sopra la pelle di un popolo sotto le macerie. Questo mio documentario video della manifestazione dove ballavo sotto la pioggia di  lacrimogeni aveva un titolo: “La polizia di stato umiliata da una corrente umana”. C’è una canzone, un pagode del poeta Bizerra da Silva, brasiliano, che dice in una strofa: “Se Leonardo dà venti, perché io non posso darne due?”. Pausa; mi giro una sigaretta.

In venticinque fogli protocollati dalla “Questura di Torino e il prefetto della provincia di Torino” appare il mio nome per venti volte. A proposito: Torino è una metropoli, ma il prefetto vive ancora nell’era dell’Augusta Taurinorum. Ventunesimo secolo, ottobre 2025, Torino. Ancora oggi la grande fetta della popolazione immigratoria appartenente a questo territorio vive lo sconforto della discriminazione che arriva direttamente dallo stato.

Nei fogli protocollati in meno di ventiquattro ore il prefetto di Torino mi ha espulso per ben due volte e il questore ha preso parte al festino della colonizzazione e ha sequestrato il mio passaporto e mi ha obbligato a firmare in questura. Non convalidata la misura di espulsione richiesta dal prefetto di Torino, il giudice di pace ritiene che io appartengo a questa città. Non convalidata la misura di sequestro di passaporto e obbligo di firma richiesta dal questore, il giudice di pace ritiene che sono libera.

A chi rivolgere queste frasi aperte, chi ha interesse di leggere o sapere della vita di un altro, cosa passa una persona con il timbro da stranieri, che ormai vive da decadi in un paese? Chi decide per noi? Quando la libertà appartiene a un popolo libero, un paese democratico? La burocrazia di stato gioca e fa affari con il braccio di forza contro individui che ritiene avere le caratteristiche biologiche diverse. Le caratteristiche diverse? La troglodita non sono io.

Ma andiamo con ordine, ecco la mia storia di espulsa due volte in pochi giorni. Sono da vent’anni in Italia, con una figlia cittadina italiana nata nella metropoli di Torino, con un permesso di assistenza a minore, aspetto il rinnovo del permesso di soggiorno da ormai due anni, quando mia figlia ancora era minorenne. Oggi maggiorenne, questo permesso mi offre la possibilità di convertirlo in permesso subordinato, o anche come permesso di disoccupazione. Entrambe le domande collegate, abbandonate e smarrite nella questura di Torino dove allegano mancanza di passaporto. Ridoridete anche voi che leggete queste righe.

Questo martedì 21 ottobre mi sono recata alla questura di Torino situata presso Porta Susa, covo della polizia di stato. Una volta, non tanto tempo fa, gli uffici per gli immigrati erano situati in corso Verona, un luogo indegno dove ci trattenevano in un cortile abbandonato sotto sole e tempesta mentre la sala d’attesa rimaneva vuota e senza la possibilità di usare il bagno, un flagellamento e umiliazione totale.

Oggi non cambia, con due bagni chimici davanti all’ingresso di entrata, già si osserva la merda che è. Dentro l’ufficio dove ogni singola persona va a ritirare, rinnovare un documento per convalidare  obblighi e diritti da cittadini in questa penisola naufragata, si trova un labirinto di Cnosso. Tra persone di varia età ed etnia si trovano anziani con stampelle, bambini, neonati e in questo miserabile labirinto siamo divisi in sala d’attesa e il riscaldamento è spento e nel freddo gelido si è costretti ad aspettare.

Questo martedì mi sono diretta al riscaldamento e ho girato la valvola termostatica, in dieci minuti si sentiva l’eco delle voci in sala d’attesa a dire grazie. Un paio di minuti dopo passava l’ispettore a sussurrare al vento: che caldo. Gli infami esistono e stanno vicini, per questo dobbiamo decidere da che parte stare. Quando è toccato a me di andare dall’attendente questurino di statura corporea elevata, siamo sempre a martedì, mi è stato detto: «Porta domani la ricevuta della seconda richiesta di permesso di soggiorno subordinato, che annulliamo la pratica della prima richiesta che è aperta».

Mercoledì 22 ottobre arrivo alle otto del mattino e senza battere ciglio l’ispettore mi invita a entrare direttamente. Mi dirigo dall’attendente questurino di statura corporea elevata, senza una identificazione.  Mi viene comunicato: «Il tuo permesso è sospeso»; sequestrano il mio passaporto valido fino al 2028, la mia carta d’identità valida fino al 2028 e il mio codice fiscale valido. E mi mandano, tra un labirinto e l’altro, al cortile dove si fanno le impronte. Sono nel corridoio e appare una placca dorata con la scritta “ufficio immigrazione”, una foto di una donna di origine africana appesa al muro, mentre nel fondo del corridoio vedo la fotografia di un bambino con una mitragliatrice lucida.

Mi comunicano quattro misure: due di rigetto del rinnovo del permesso di soggiorno, una espulsione richiesta dal prefetto con accompagnamento al confine verso l’aeroporto di Bologna e infine la convocazione a un’udienza in direttissima con il giudice di pace dove il mio destino sarebbe quello di non salutare mia figlia e neanche prendere i miei averi, la macchinetta moca. Andarsene e basta.

Dalle otto del mattino, senza poter comunicare con nessuno, con due sbirri affiancati a controllare se usavo il telefono. Centomila poliziotti non saranno in grado di dominare il mio cervello, figuriamoci un questore e un pinco pallino di prefetto. Mi sono recata al bagno con due giovani poliziotti che assieme non facevano la mia età e io ho solo cinquantatré anni vissutissimi metà nella strada di Torino. Un fiore del male.

Nel bagno si infligge la loro legge. Gli sbirri vanno fino alla porta del bagno, io dentro chiudo la porta e mi spoglio, lo sbirro spacca la porta e mi guarda: già avevo inviato dei messaggi. Arriva la sbirra che mi vede svestita, mentre mi alzavo dopo una lunga pisciata. Arrivano i miei due avvocati per la direttissima. La giudice di pace è in udienza online, in videochiamata. Non convalidata la misura di espulsione richiesta dal prefetto di Torino. Gli avvocati vanno via per primi mentre aspetto che mi restituiscano il passaporto. Appaiono un paio di fogli nelle mani dello sbirro smisurato senza una identificazione, mi chiede di firmare, firma, firma questo, questo altro, questo, c’è anche questo, questo ancora. Io non firmo niente. Comunicano che il questore mi obbliga a firmare dal lunedì al venerdì, o il lunedì e il venerdì, non si capisce, e mi sequestra il passaporto. «Deve venire domani a firmare, giovedì». Loro ci sono o ci fanno? Nel dubbio lascio voi lettori a concludere, perché io ho le idee ben precise. Va bene, vi do una indicazione: comincia con “I”.

Giovedì presto vado allo studio del mio avvocato e ricevo il comunicato di non convalida della misura del questore di Torino: il sequestro di passaporto e l’obbligo di firma sono respinti. Vado in questura a ritirare il passaporto. Mentre parlo con gli sbirri pali di luce presso l’entrata della questura, arriva in fretta un uomo di statura un metro e cinquanta a chiedere: «Che fai qua?». Il mio pensiero è chi ti conosce, ma in silenzio rimango; lui si volge a domandare allo sbirro Palo Di Luce Due cosa facevo lì. Palo Di Luce Due chiede all’uomo di statura un metro e cinquanta se mi conosce. Intanto muove la testa verso il basso e l’alto come un segno di croce. Amen! Arriva Palo Di Luce Uno a dire che potevo entrare, dopo avere letto tutto un documento privato.

Sono nel corridoio dell’ufficio immigrazione, percepisco la loro fantasia e il tempo sprecato con soldi pubblici. Arrivano in meno di dieci minuti tre sbirri della digos, quelli che sono noti nella strada, entrano e vanno verso il cortile. Con le idee chiare esco in un cortile pieno di sbirri, oltrepasso il cortile e li lascio alle spalle. Questo tutto in prima mattinata. Nel pomeriggio, l’avvocato comunica che posso andare a ritirare il passaporto e ritorno in quel luogo indegno. Due nuovi pali di luce, gli sbirri: «Spostati, stai dietro alla sbarra». Una sbarra di ferro che rimane sul marciapiede a dividere il cimento del concreto e il vento dell’area. Una sbarra di ferro che sta lì, a produrre una barriera architettonica e niente di più.

Io rimango in strada, in strada non si può stare, sul marciapiede neanche, e si perdono dieci minuti a discutere: la loro concezione di libertà. Vedo il cancello del portone del cortile aperto: entro. Mi vengono dietro con mitragliatrici in mano gli sbirri Palo Uno e Palo Due e mi riempiono di pugni e spintoni. Urlo: «Ispettore!». Il portone è aperto e appare il poliziotto che mi ha accompagnato all’uscita mercoledì: «Lascia stare», dice, mentre Palo Uno e Palo Due mi lasciano. Entro nell’ufficio immigrazione per la seconda volta nella stessa giornata.

Fogli vari compaiono: firma, questo, questo ancora e questo, c’è anche questo. Io non firmo niente. Ancora il prefetto di Torino mi espelle e il questore di Torino mi sequestra il passaporto e mi  obbliga a firmare. E ancora non si sa de dal lunedì al venerdì, o lunedì e venerdì. Oggi è venerdì, sto ad aspettare la nuova sentenza del giudice di pace, intanto cambio l’arredo di casa e i gatti giocano sul nuovo divano.

Per non annoiarmi, vi lascio la mia ricetta del pane: venticinque grammi di lievito, due cucchiai di zucchero, un pizzico di sale, cento grammi di semi di zucca, cento grammi di semi di sesamo, quattrocento grammi di farina zero, cento grammi di farina di grano saraceno, trecento millilitri d’acqua della fontana di Torino. Siete tutti buongustai? Anche io. Alla prossima, ci si vede in strada. Buona lotta gente ribelle. (selma arnaldo)

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