Il porto di Napoli si espande verso est. Chi ci guadagna e chi ci perde

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Il porto di Napoli si espande verso est. Chi ci guadagna e chi ci perde
(foto di enzo morreale)

Primavera 2025. Sono le undici e mezza di una mattina qualunque e sono in un bar a San Giovanni a Teduccio, nella prima spiaggia andando dal centro verso est. Qua finisce il porto, finisce la diga foranea, lasciando liberi circa 750 metri di costa prima che finisca anche il comune di Napoli e inizi quello di Portici. Arrivarci in motorino è stato semplice. Sempre dritto lungo la linea di costa, evita di entrare in tangenziale che poi sono guai, superi le pile di container accanto al cavalcavia e iniziano le case basse e qualche capannone. Alla fine del porto ci sta una biblioteca con un giardinetto, e lì dietro un bar sulla spiaggia. No, il costume lascia perdere, meglio se non ti fai il bagno.

Come per tante altre periferie, non ha senso descrivere questo quartiere con i termini (pietistici) dell’abbandono o dell’attesa; tanto meno come zone ancora romanticamente salve, non toccate da una riqualificazione raccontata come una macchia d’olio che pian piano si espande, un quartiere dopo l’altro. Tutt’altro che fuori dai processi speculativi, qua l’estrazione di profitto è violenta, costante e fuori dai riflettori.

Stanno per concludersi dei lavori mastodontici di allargamento del porto ma in città se ne parla poco. Dal tavolino mi indicano al largo tre chiatte che depositano in mare massi con i loro bracci meccanici per rinforzare la diga foranea. Attorno ai lavori è vietata la navigazione, e in cielo ogni tanto ronza un elicottero della polizia.

Il porto di Napoli ha una superficie di circa 390 mila metri quadrati, dispone di quattordici banchine per l’attracco delle navi e si estende per circa dodici chilometri dal centro storico della città fino alla periferia orientale di San Giovanni a Teduccio. Il Pnrr ha stanziato circa 260 milioni per il potenziamento dello scalo napoletano: l’elettrificazione della banchina per le grandi navi da crociera a ovest, a est il prolungamento della diga foranea (l’intervento più oneroso che occupa più della metà dei fondi), la trasformazione della Darsena Levante a terminal container e il suo collegamento alla rete ferroviaria cargo già esistente. Il progetto di adeguamento della Darsena è stato approvato nel 2008: il terminal sarà di 230 mila metri quadrati in totale, con una banchina lunga 672 metri in grado di far attraccare due navi portacontainer di nuova generazione con capacità intorno ai 12 mila Teu. L’obiettivo è più che duplicare il volume di traffico merci fino a circa 1,4 mln di Teu l’anno, di cui 800 mila movimentati presso il nuovo terminal.

Da inizio Ottocento l’area di San Giovanni è stata destinata a stabilimenti industriali come Corradini, Cirio, la centrale termoelettrica Capuano, inducendo un’espansione del porto verso est; sono così nate la Darsena Petroli, collegata con un sistema di oleodotti alle raffinerie, e la Darsena Levante a seguito della realizzazione della centrale Enel. Dalle parole del progetto del 2008 si legge: “Gli imponenti complessi industriali, per la maggior parte petroliferi, ivi sorti hanno irrimediabilmente compromesso l’area, che nel 1998 è stata eletta dalla L. 426 ‘Sito da bonificare di preminente interesse nazionale’ (SIN). Oggi parte di quei complessi industriali sono dismessi o sottoutilizzati”.

La modifica della Darsena ha subìto rallentamenti, ma è prossima al termine: il Pnrr prevede la fine dei lavori entro gennaio 2026. Ogni giorno un numero indefinibile di camion trasporta cumuli di pietre che poi le chiatte caricano e depositano in mare. Nel frattempo sono quasi conclusi i lavori di colmata, cioè il riempimento dello spazio tra due ex moli, il dragaggio di sedimenti di una parte di fondali portuali in una vasca di colmata, sigillata e impermeabile per motivi ecologici, visto che il materiale dragato è inquinato e inquinante. 

Conateco, società controllata al cento per cento da MSC, ha ottenuto la concessione del nuovo Terminal di Levante per cinquant’anni prima ancora che il progetto fosse approvato. In cambio la società si è impegnata a investire circa 217 milioni di euro per l’allestimento operativo.

Ai fondi dell’Autorità Portuale previsti per i lavori infrastrutturali nel progetto originale (provenienti da ministero delle infrastrutture e dei trasporti, fondi PON, POR e intesa istituzionale Stato-Regione) si sono aggiunti i finanziamenti Pnrr che richiedono bandi europei per assegnare le concessioni. Quindi l’accordo con Conateco potrebbe essere rivisto, ma non è difficile immaginare che il leader mondiale dello shipping sia il candidato favorito. Al momento MSC controlla il novanta per cento dei flussi portuali in città, tramite i terminalisti Soteco e Conateco; in più è in trattativa per acquisire la Ck Hutchinson di Hong Kong, cosa che porterebbe il proprietario di MSC Gianluigi Aponte a essere il primo terminalista al mondo, oltre all’armatore maggioritario. Nelle sue stesse parole in un articolo del Secolo XIX del 2017: “Comandiamo noi perché comandano i volumi. Chi li ha decide della vita o della morte di un terminal”. E ancora, dal 2022 MSC sta scommettendo sulle meganavi tra i 22 e i 24 mila Teu, le ultime delle quali ordinate ai cantieri navali cinesi a fine aprile 2025. I terminal, quindi i porti, dovranno adeguarsi per non essere tra quelli che muoiono. Così i colossi della logistica del mare allungano le mani sulla città influendo nelle decisioni di pianificazione pubblica.

In generale, i terminal portuali hanno un impatto enorme sulle aree che li ospitano e sulle loro economie, a partire da raffinerie, trasporto su gomma o rotaia, piazzali e magazzini di stoccaggio, mezzi di movimentazione dei container. Ma l’impatto è anche e soprattutto ambientale e di vivibilità, anche se non ci sono indicatori e numeri per quantificarlo: i camion nel traffico, il tanfo di carburante mentre sale il caffè, il sole che tramonta dietro pile di container, sferragliamenti vari e tonfi roboanti nel grande concerto dell’industria.

Il suolo dei porti è pubblico, ma i terminal sono gestiti in concessione da privati. I terminalisti aumentano i profitti quando aumenta il volume di merce in transito. Sono in competizione tra loro, e per attrarre maggiori volumi di merce hanno bisogno di espandere e ammodernare le aree portuali.

La logistica è un economia che crea Pil di per sé: l’infrastruttura non è solo un mezzo al servizio delle necessità del commercio, da potenziare all’aumento dei flussi; è il potenziamento dell’infrastruttura fisica a trainare l’espansione dei flussi. I margini di profitto dei terminalisti e degli armatori aumentano all’aumentare del territorio sottratto al mondo.

Un impero con queste caratteristiche ha l’innata tendenza a continuare a fagocitare spazio, ed è quel che rischia di succedere a San Giovanni, se non trova ostacoli. Nel 2023 è stato bloccato il progetto (Edison e Kuwait Petroleum) di un deposito di Gnl da 20 mila metri cubi sul Molo Vigliena, grazie all’opposizione del comitato civico di San Giovanni. Le questioni dirimenti, l’impatto ambientale e la presenza del Forte di Vigliena, un monumento nazionale di cui rimangono oggi solo alcuni resti, bene culturale per il cui restauro il comitato si batte ancora oggi.

La modifica al piano regolatore portuale, proposta nel 2012, prevedeva il tombamento anche della Darsena Petroli per allungare ulteriormente la banchina così da ospitare navi di stazza ancora maggiore. Il molo per lo scarico degli idrocarburi si sarebbe dovuto spostare più a est, così come i depositi dedicati che al momento si trovano alle sue spalle, sempre a San Giovanni a Teduccio, a ridosso dell’area SIN. Questa modifica è stata poi ritirata e per ora la Darsena Petroli è rimasta dov’era, né ci sono documenti ufficiali e accessibili che ne parlino, anche se il progetto è ricomparso sulle pagine de Il Mattino nell’agosto 2024, in cui si scriveva che l’iter procedurale per lo spostamento sarebbe già avviato. Spostare più a est la Darsena Petroli vuol dire allungare la diga foranea, allungare il porto fino ai confini della città, fagocitando quei 750 metri di litorale accessibile ai cittadini, anche se non balneabile.

San Giovanni a Teduccio e in generale la sesta municipalità sono aree cresciute intorno e negli interstizi dell’industria. Sono già le zone con la più alta incidenza di tumori, sclerosi multipla, leucemie, malattie polmonari ostruttive, nonostante siano tra quelle anagraficamente più giovani. Negli studi di Medicina Democratica, che si occupa da tempo di dare un nome alle cause dei problemi di salute a Napoli Est, è chiaro che queste patologie sono collegate alla presenza di attività produttive inquinanti: le centrali termoelettriche che si sono susseguite per tutto il corso del Novecento, l’attività portuale e i cantieri di ampliamento, il deposito di idrocarburi, le emissioni di acque non depurate, lo scarico in mare di idrocarburi o acque di lavaggio, l’infiltrazione di inquinanti dalla zona SIN mai bonificata. Le poche centinaia di metri di costa non adibite a porto non sono balneabili, ma la canicola estiva è difficile da affrontare per chi ha il mare di fronte casa e dovrebbe percorrere decine di chilometri per potersi fare un bagno. È altissimo il rischio di infezioni batteriche (come l’escherichia coli), e in generale nelle acque di tutto il litorale orientale di Napoli la concentrazione di sostanze chimiche dannose rilevate è a livelli preoccupanti (tra queste rame, mercurio, piombo). Opporsi ai vari progetti di ampliamento vuol dire opporsi anche a questo. (margherita grippiolo)

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