
Bisogna sempre tenere l’ombrello aperto sotto al ponte di via Don Guanella, strada sormontata dall’Asse Perimetrale di Melito, che collega l’Asse Mediano ai quartieri dell’area nord di Napoli. Che sia un giorno soleggiato o piovoso, il lento scorrere dell’acqua sulla carreggiata si mescola al rumore delle auto in corsa. Ai lati del ponte si susseguono piccole attività commerciali: una pescheria, una macelleria, un forno e un bar. Sul ciglio della strada una palina dell’Anm indica una vecchia fermata, “Don Guanella verso Scampia”, senza riportare alcuna informazione. Tra palazzoni popolari dipinti di un giallo sbiadito, spicca una cancellata blu. Al di là, si intravede un grosso edificio, l’unico che sembra ancora curato: il centro polifunzionale dell’Opera Don Guanella. Accanto, una struttura a un piano passa quasi inosservata, se non fosse per una piccola targa sulla porta che ne rivela l’identità: “Spazio Donna WeWorld”.
Appena varcato l’ingresso, un open space dipinto dello stesso giallo dell’esterno è sede, da oltre dieci anni, di un centro di aggregazione che si impegna per la prevenzione, l’emersione e il contrasto a forme di disagio femminile e violenza di genere. Lo spazio è piccolo e confortevole: alcuni divani disposti in cerchio, un angolo caffè e tisane, una libreria, ma soprattutto il sorriso accogliente di Marianna Ferraro, operatrice storica di Spazio Donna. Capelli intrecciati d’argento e occhi color cielo, il suo aspetto trasmette immediata fiducia. “Questo spazio – spiega Marianna – è frutto dell’incontro di alcune operatrici che, più di dieci anni fa, decisero di mettere insieme professionalità diverse a supporto del territorio di Scampia. All’inizio proponevano piccole attività per famiglie a titolo volontario. Una delle operatrici venne poi a sapere che la Fondazione WeWorld aveva presentato una manifestazione d’interesse agli enti del terzo settore per aprire un centro di aggregazione per le donne nel comune di Napoli. Le operatrici pensarono quindi che potesse essere la giusta occasione per strutturare il loro operato e renderlo un lavoro vero e proprio”.
Marianna continua, poi, raccontando che in realtà furono due gli Spazi Donna a nascere, uno a Scampia e l’altro a San Lorenzo, nel centro antico. Dopo tre anni di attività, però, lo spazio di San Lorenzo dovette chiudere per difficoltà organizzative.
La maggior parte delle donne che arriva in questo centro lo fa perché sta attraversando una fase di vita particolare, che si tratti di episodi di violenza o di situazioni di profonda solitudine e disagio. “Siamo attualmente cinque operatrici – un’assistente sociale, un’educatrice, due psicologhe e una mediatrice culturale – e ognuna di noi, con il proprio ruolo all’interno del progetto, contribuisce a integrare le azioni e a costruire percorsi su misura”, prosegue Marianna. “La collana che indosso, un intreccio di fili di rame e pietre colorate, credo rappresenti l’emblema del lavoro che nel tempo abbiamo costruito. Diversi anni fa si presentò qui da noi D., una donna con un disagio personale che l’aveva portata a rinchiudersi nel suo ruolo di madre e a essere presa in cura, per un periodo, presso alcuni servizi del territorio. L’ascolto della sua storia ci ha concesso, gradualmente, di entrare nel suo mondo. Dopo un lungo percorso, D. ha scoperto di avere una grande abilità manuale, così ha ripreso in mano il disegno e ha iniziato a fare gioielli, grazie a un laboratorio che facevamo con un esperto. Adesso è un’artigiana e gestisce la sua attività. Il momento più bello è quando andiamo a comprare i suoi gioielli ai mercatini, lì puoi toccare con mano quanto l’indipendenza economica sia fondamentale per prevenire e contrastare la violenza”.
Per le operatrici di Spazio Donna, tutto comincia dall’ascolto. Un ascolto che talvolta precede l’incontro diretto con le donne, spesso inviate qui da altri servizi del territorio. “Cerco sempre di guardare la persona che ho davanti con occhi neutri – spiega Marianna –, liberi da pregiudizi, per cogliere davvero ciò che sceglie di condividere”. È nella costruzione di una relazione di fiducia che si gioca il primo passo del percorso. Al centro c’è la vulnerabilità, vista come un punto di verità da cui partire. “Anche le donne che appaiono più forti e consapevoli hanno un nucleo fragile, ed è proprio lì che cerco un contatto autentico. È da quella fragilità che inizia il lavoro insieme”. Un lavoro che, spesso, entra in risonanza con vissuti personali: “Ci sono storie che parlano anche a me. Quando riesco ad attraversare e rielaborare quelle emozioni, sento una vicinanza ancora più profonda”.
Lavorare in un settore del genere significa doversi scontrare con alcune barriere, come la mentalità di chi considera unicamente l’interesse utilitaristico dell’intervento. “Ormai fare rete va di moda ma sono poche le istituzioni capaci di farlo davvero. In diverse occasioni mi è capitato di vivere una profonda frustrazione perché vedevo alcune organizzazioni dello stesso territorio lavorare secondo una logica che ritengo tossica, per cui si tende a rinchiudere le utenti nell’ambito dei propri interventi, a causa della paura di perdere numeri. Questo è un vizio che va combattuto. Nel settore pubblico capita talvolta di lavorare secondo logiche di delega o, al contrario, in modo fortemente centralizzato. La sfida più grande oggi è riuscire a far dialogare linguaggi diversi, soprattutto quando di fronte si ha una situazione complessa, anche se i tempi delle istituzioni spesso non coincidono con quelli di chi ha bisogno di supporto”, racconta Marianna.
Tuttavia, non sono solo queste le difficoltà di chi lavora in questo settore. A volte bisogna fare i conti con i propri di limiti. “Sono anni che mi dedico a questo lavoro, le relazioni che viviamo sono profondamente attraversate dalla violenza ma sembra che solo ora ne stiamo prendendo davvero coscienza. È come se fossimo sempre in affanno, in corsa contro il tempo. A volte ho la sensazione che anche noi, operatori e operatrici, non siamo davvero preparati ad affrontarlo”.
“Mi è capitato – continua l’operatrice – di dover dire ‘questa situazione non la posso seguire’, cosa che considero uno strumento di cura verso di me ma anche verso la donna che incontro. Ci sono situazioni che non riesco ad affrontare, semplicemente perché non è il momento. La cosa più difficile è ammettere che in certi casi, alla fine, devi accettare di fermarti”, conclude Marianna distogliendo lo sguardo.
Ringrazio Marianna per il tempo che mi ha dedicato. Mi accompagna alla porta con lo stesso sorriso con cui mi aveva accolta. Appena fuori dalla struttura, sento alcune gocce d’acqua sulla spalla. Bisogna tenere sempre l’ombrello aperto sotto al ponte di Via Don Guanella. (serena dolores correro)