
In un crepuscolo di metà maggio un elicottero dei carabinieri gira in circolo sopra Barriera di Milano, il quartiere di Torino fra la Dora e la Stura. Volteggia l’elicottero come un insetto assordante e gli abitanti escono in strada intimoriti: migliaia di occhi s’alzano in cielo. Lungo corso Giulio Cesare sfrecciano moto blu scuro e cinque, sei auto in fila dei carabinieri. L’elicottero è sospeso sopra un palazzo e poco dopo escono dal portone carabinieri con il passamontagna e un ariete per sfondare. Un’altra pattuglia controlla i documenti accanto a un bar. Poco più a sud, sempre su corso Giulio Cesare, un drappello di agenti di polizia e guardia di finanza circonda uomini seduti al tavolini di un caffè. Le guardie hanno le gambe larghe, le mani sui fianchi o dietro la schiena e fissano chi era in strada per bere una birra, un caffè. Poliziotti in borghese dirigono il controllo dei permessi di soggiorno. Nella luce incerta della sera si vede ancora il verde dei tendoni che coprono i balconi, in strada cuoce il kebab nel fast-food turco e s’abbassano le serrande del negozio che vende schede telefoniche e offre servizi di assistenza fiscale e invio di denaro. L’elicottero non smette di ronzare assordante in cielo e il rumore grava sull’animo di chi vive qui da dannato, e braccato.
“Cento identificati, un’intera palazzina perquisita e due arresti. È il bilancio dei controlli effettuati dai carabinieri in Barriera di Milano, quartiere nella zona nord scosso dagli ultimi episodi di violenza. Dopo l’omicidio di Mamoud Diane, ucciso nella notte tra il 2 e il 3 maggio in via Monte Rosa, e gli accoltellamenti che si sono susseguiti, il prefetto Donato Cafagna aveva ordinato un giro di vite. Il blitz di mercoledì sera è solo l’inizio”. Caterina Stamin, La Stampa, pagine torinesi, 16 maggio 2025.
“Blitz” è termine così inflazionato da oscurare la sua provenienza: abbreviazione di “Blitzkrieg”, guerra lampo. Vedo immagini di un’occupazione in quartiere – soldati con i fucili automatici in grembo, ronde di polizia e carabinieri – e ricordo Gerusalemme. Alla Porta di Damasco c’era il presidio fisso dell’esercito, soldati israeliani controllavano gli snodi principali fra le vie della città vecchia. Dietro transenne sostavano due soldati, accanto alla torrefazione fra i banchi del pane e dei pomodori. Le truppe presidiavano le strade in nome della guerra al terrorismo, ma il terrorismo era una giustificazione: la guerra era contro chi viveva sotto occupazione, senza cittadinanza e diritti.
“Una coltellata alla schiena ha trafitto il cuore di Mamoud Diane, 19 anni, di origini ivoriane. Lo hanno ucciso in strada nel quartiere Barriera di Milano, a Torino. Il ragazzo era davanti a un bar all’angolo tra via Monte Rosa e corso Novara quando è scoppiata una rissa fra due gruppi di persone di origine africana, nata per debiti di droga secondo i primi riscontri. Erano almeno in venti. ‘Una decina contro altri sette – racconta un testimone – due gang si sono fronteggiate con calci, pugni, sputi, bottigliate. Due ragazzi sono caduti a terra. Uno si è alzato, l’altro si è trascinato per un centinaio di metri. A un certo punto non si è mosso più. Io credevo si rialzasse, non avevo visto il coltello’. Sono arrivate le volanti della polizia, l’esercito. ‘Invece l’ambulanza ci ha messo circa un’ora – prosegue il testimone – quel ragazzo era già morto’”. Giada Lo Porto, La Repubblica, pagine torinesi, 4 maggio 2025.
La mediocrità del giornalismo torinese deve essere vagliata nonostante la nausea che induce. Fra le idiozie, le frasi automatiche e i dati dettati dalla questura emerge a volte un elemento inconscio, una rottura nell’ordine del discorso. Se un ragazzo riceve una coltellata in Barriera di Milano, arrivano subito i soldati e le volanti blu; l’ambulanza invece ci mette un’ora.
SOLDATI NELLE STRADE
Venerdì 19 gennaio 2024 i giornali annunciano che i militari dell’operazione Strade Sicure s’apprestano a presidiare le vie di Barriera di Milano. Un’operazione volta a contrastare “spaccio, risse, furti, scippi e degrado” – scrive La Stampa. Sono annunciati quarantadue soldati in più soltanto nel quartiere. Era inverno in Barriera e i militari hanno iniziato a piantonare lo slargo di corso Palermo che dà sul mercato di piazza Foroni. L’invio dell’esercito era una mossa del governo a supporto di una circoscrizione amministrata da Fratelli d’Italia. Così il sindaco Lo Russo, afferente al Partito Democratico, ricordava in un’intervista a La Stampa: “Più controlli interforze e militari, bene, ma la stessa attenzione che oggi si rivolge a Barriera non va circoscritta”. Il sindaco non contestava il paradigma della sicurezza, chiedeva soltanto che venisse applicato anche ai quartieri governati dal suo partito.
Frammento da un taccuino di appunti, 25 gennaio 2024. “Angolo fra via Malone e via Lombardore. Vedo un ragazzo appoggiato con la schiena alla parete, si schiarisce la voce. Poco dopo, da lontano, vedo che il ragazzo è circondato da tre militari e due poliziotti. Il presidio fisso di corso Palermo può diventare mobile e pattugliare le vie interne. I militari non possono agire in alcun modo, per questo sono affiancati dalla polizia di stato. Gli uomini armati in divisa mimetica sono un corteggio spettacolare. Mi avvicino al gruppo. Il ragazzo ha sempre le spalle al muro, ma questa volta ha un militare a destra e due a sinistra, di fronte i due poliziotti. Un poliziotto basso mi osserva e mi fa cenno di circolare, circolare, un poliziotto alto si occupa del ragazzo. Lo hanno costretto a togliersi le scarpe: ne controllano la suola. Il ragazzo si lamenta perché gli hanno fatto male al braccio. Il poliziotto alto: «Ti abbiamo fatto male? Vuoi un massaggino? Vuoi un massaggino lì? Ascolta, my friends [sic]. My friends [sic]. You are a good boy, ma non ti voglio più vedere qui. Capito? Te ne devi andare da qui». Per spiegare il concetto fischia due volte e muove il polso su e giù con la mano tesa: «Vedi di andartene». Si avvicina il poliziotto basso e mi guarda: «Per favore, vada via, stiamo facendo un controllo». Ora si concentrano su di me – al nero dai del tu, al bianco dia del lei. Il poliziotto alto mi chiede il documento e, intanto, i tre militari mi circondano e mi fissano”.
L’esercito è inutile, un’operazione di propaganda visibile in una società dello spettacolo – scrivevo. Eppure lo spettacolo è materiale e il suo arbitrio agisce sui dannati fermati. Gli esclusi sono disturbati, spesso puniti, a volte reclusi: lo spettacolo non è rifrazione eterea, ma azione concreta che s’incide sui corpi.
In che senso posso definire un presidio di soldati “inutile”? Esso è inutile perché le regole d’ingaggio e le modalità di impiego non servono a contrastare lo spaccio o i fenomeni di devianza. Mi rendo conto che l’inutilità dell’esercito è un argomento valido solo se accolgo come veri gli scopi dichiarati dal governo, se adeguo la mia mente ai proclami del potere. L’esercito non presidia le strade di Barriera per contrastare lo spaccio, l’esercito è qui per realizzare un’occupazione militare del quartiere. La lotta al piccolo crimine è solo una giustificazione: bisogna invertire le cause e gli effetti. Ricorda Gerusalemme.

ZONE ROSSE
Il 17 dicembre 2024 il ministero dell’Interno emana una direttiva che dichiara “l’importanza di individuare, con apposite ordinanze, aree urbane dove vietare la presenza di soggetti pericolosi con precedenti penali e poterne quindi disporre l’allontanamento”. Si tratta di aree urbane dove funzionano leggi speciali. Insegno a scuola e un giorno ho spiegato la legge Pica, ovvero le misure speciali contro il brigantaggio varate nel 1863. L’articolo 1 afferma: “Fino al 31 dicembre corrente anno, nelle Province infestate dal brigantaggio, e che tali saranno chiamate con Decreto Reale, i componenti comitiva, o banda armata, composta almeno di tre persone, la quale vada scorrendo le pubbliche vie o le campagne per commettere crimini o delitti, ed i loro complici, saranno giudicati dai Tribunali militari, di cui nel libro II , parte II del Codice penale militare, e con la procedura determinata dal capo III del detto libro”. Esistevano zone speciali, ovvero specifiche aree appenniniche dove valevano leggi diverse, eccezionali. Il fine era l’occupazione militare, e coloniale, del territorio.
Per rispondere alla direttiva ministeriale, la Città di Torino istituisce all’inizio del 2025 le “zone a vigilanza rafforzata”. Sono quattro aree speciali – l’area attorno alla stazione di Porta Nuova, il lungofiume della Dora, il cuore di Barriera di Milano, piazza Vittorio – dove sono intensificati i controlli di polizia. In queste zone è legittimo imporre “il divieto di stazionamento e l’allontanamento di soggetti con specifici precedenti per reati predatori, contro la persona ed inerenti agli stupefacenti, che assumano comportamenti aggressivi, minacciosi e insistentemente molesti”.
Ricostruisco la logica delle “zone a vigilanza rafforzata”. Nelle aree speciali avvengono frequenti pattugliamenti con collaborazione fra soldati e forze dell’ordine. Compito dei controlli è individuare i soggetti molesti, gli indisciplinati e i fastidiosi ed esaminare i loro documenti. Se la persona controllata ha precedenti per piccoli reati, l’autorità pubblica dispone l’allontanamento dalla zona in questione per le successive 48 ore. La violazione di questa disposizione è un’infrazione della legge e di conseguenza può scattare un provvedimento penale. L’autorità pubblica ha creato un nuovo reato: sostare in aree definite speciali dopo un’ingiunzione di allontanamento. Si tratta di uno strumento in più da applicare a discrezione contro chi è ritenuto fonte di turbamento dell’ordine pubblico. Accade lo stesso nelle scuole: si definiscono nuove regole disciplinari in modo da avere più strumenti discrezionali da impiegare contro gli studenti mal sopportati. «Non dovete controllare chi si comporta bene», diceva un graduato dei carabinieri ai soldati in presidio in Borgo Dora – era l’inizio di questa primavera.
La mente rimugina sui dati, scrutina le visioni per tentare un’astrazione. Se la sicurezza è un pretesto, qual è la causa materiale dei controlli di polizia? Il governo deve disciplinare e reprimere gli scarti, ovvero la forza lavoro – precaria, spesso senza documenti, dunque facilmente sfruttabile – che non s’adatta silente e quieta al meccanismo della riproduzione sociale. Gli atti (i controlli, le retate) e le infrastrutture (la cella in questura, il carcere, il Cpr) costruiscono un paradigma di contenimento di sfaccendati refrattari alla schiavitù.
Mentre volteggia l’elicottero sopra Barriera di Milano assisto al controllo dei documenti richiesti agli avventori del bar. Sferraglia il tram mentre siamo circondati dagli agenti, in particolare sono tenuti d’occhio tre ragazzi mentre un poliziotto in borghese dirige le operazioni di accertamento sui loro passaporti. Poco fa sedevano senza pensieri al tavolino, sorseggiavano il caffè dopo, chissà, una giornata di lavoro. I controlli paiono lunghi e meticolosi. Forse qualcosa non va? S’è fatta sera. Repentini dieci agenti si stringono in un muro blu e s’avvicina una camionetta. Oltre le schiene dei poliziotti i tre ragazzi sono caricati nella camionetta, scorre il portello e si allontanano le luci lampeggianti. Due di loro saranno gli unici arrestati di questa spettacolare esibizione dello stato. Così, per un irragionevole movimento degli eventi, due uomini finiscono forse in una struttura detentiva per il rimpatrio. I tre fermati non mi sembrano diseredati, emarginati o soggetti che lo sguardo della polizia può definire “pericolosi”; paiono piuttosto tre lavoratori impigliati per caso nella rete della sicurezza. Le esperienze concrete allentano la tenuta della teoria e alla mente non resta che tornare ai dati, alle visioni.
REPRESSIONE AL PONTE CARPANINI
In Borgo Dora, lungo la riva destra del fiume, le istituzioni si impegnano da anni a contrastare e reprimere il mercato di straccivendoli, robivecchi e raccoglitori di rifiuti che esiste da più di un secolo. Nel 2019 è stata impiegata la Celere per sgomberare centinaia di mercanti, nelle stagioni successive la polizia municipale s’è impegnata a contrastare e cacciare chi ha tentato il ritorno. In questi mesi, accanto al ponte Carpanini, squadre di vigili organizzano presidi all’alba del sabato per impedire che gli straccivendoli dispongano le loro stuoie. È notevole il dispendio di energie pubbliche per una repressione che non riesce a soffocare del tutto il fenomeno, e nonostante i duri colpi inferti. Vedo le nuove insorgenze del mercato come fioriture d’una vita spontanea, espressione di un’esigenza incontenibile; l’operato della polizia e delle istituzioni m’appare come un’induzione di morte: morte artificiale, o seconda morte.
Ascolto spesso gli straccivendoli chiedere ai vigili: «Che cosa dobbiamo fare? Andare a rubare? Spacciare? Andiamo a spacciare allora!». È il meccanismo circolare del potere: più reprime, più crea condizioni di vita che giustificano la repressione.
Mi sono chiesto quale sia la catena di comando che induce i vigili, all’alba del sabato, a piantonare il marciapiede accanto alla struttura in acciaio del ponte Carpanini. Chi emana l’ordine, e perché, e secondo quali modalità? Diverse forze chiedono l’allontanamento dei lavoratori informali: l’associazione che gestisce il vicino mercato dell’antiquariato, l’ente filantropico e cattolico disturbato dalle attività autonome dei poveri. Poi immagino che sia il comando dei vigili di zona, su pressione del comune e della circoscrizione, a mandare gli agenti. Per ricostruire i passaggi formali e le ragioni peculiari di una tattica di controllo urbano ho deciso di consultare i verbali del Tavolo di osservazione per la sicurezza della circoscrizione pertinente. A questo tavolo siedono il presidente di circoscrizione, un rappresentante della prefettura, uno del comune e i referenti delle forze di polizia che agiscono sul campo.
Ho richiesto i verbali del Tavolo di osservazione per la sicurezza della Circoscrizione 7 tramite accesso civico generalizzato. La risposta è stata emanata direttamente dalla prefettura: “Al riguardo, si rileva che la documentazione richiesta è riconducibile alle previsioni di cui all’art. 5 lett. a) D.Lgs 33/2013: ‘L’accesso civico […] è rifiutato se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno degli interessi pubblici inerenti a: a) la sicurezza pubblica e l’ordine pubblico’”. La sicurezza è un allucinante spettacolo visibile e mediatico, eppure oscure e invisibili sono le origini delle sue procedure.
La sicurezza. La sicurezza è il pretesto ideologico per legittimare il controllo militare e poliziesco di aree urbane peculiari. La sicurezza è un motore pragmatico che produce atti politici territoriali e modifica il volto dei quartieri e la vita degli abitanti, ma il meccanismo di questo motore emanante, o principio primo, è invisibile, inafferrabile. La sicurezza è un incubo che abita le nostre menti e ci impedisce di immaginare la possibilità che essa possa essere smantellata, cancellata dall’orizzonte d’ogni pensiero e discorso.

SICUREZZA INTEGRATA
I tavoli di osservazione per la sicurezza delle circoscrizioni sono stati istituiti dall’articolo 4 di un protocollo del dicembre 2019: “Accordo per la sicurezza integrata e lo sviluppo della Città di Torino”. Era il tempo della giunta guidata da Appendino, il protocollo porta la firma, fra gli altri, dei rappresentanti della Città, della Regione Piemonte, dell’Ufficio Scolastico Regionale, dell’Unione Industriali, della Compagnia di San Paolo e di CGIL, CISL e UIL.
La sicurezza è “integrata” – leggo nel protocollo – perché prevede una “collaborazione tra amministrazioni centrali, istituzioni locali […] società civile” e forze dell’ordine. Le premesse sono in questo senso illuminanti: in nome del principio di “sussidiarietà” si ritiene necessario delineare una “strategia di intervento complessiva che mette la città e i cittadini al centro delle politiche di sicurezza”. La “sicurezza” infatti è un “bene primario dei cittadini […] per la cui efficace realizzazione si rende necessario il concorso di diversi soggetti, tutti funzionali, in una governance multilivello”. Il documento propone d’incentivare “un processo di partecipazione alla gestione della sicurezza […] nel quadro di una sicurezza sempre più integrata e partecipata”. In sostanza non può essere soltanto l’operato della polizia a “rimuovere le cause profonde di devianza e di degrado”, ma deve esistere “il coinvolgimento” della cittadinanza attiva attraverso i patti di collaborazione e, in modo più generale, la partecipazione intrisa di valori civici. Il “contenimento dei fattori criminogeni” è il punto di confluenza dove possono incontrarsi poliziotti, amministratori, sindacati confederali, fondazioni bancarie, scuole e, immancabilmente, gli “enti del terzo settore di comprovata esperienza ed [sic] attivi sul territorio”.
Il protocollo stipulava l’ampliamento dei sistemi di videosorveglianza per il controllo “pubblico e privato” del territorio, un più intenso scambio informativo tra polizia locale e polizia di stato, la detrazione fiscale per gli esercizi commerciali e condominî dotati di telecamere in strada, il rafforzamento dell’illuminazione pubblica, una rinnovata sinergia fra enti amministrativi e realtà territoriali per la prevenzione delle occupazioni. Il patto aveva durata di due anni, molte soluzioni erano soltanto proclami, tuttavia permangono ancora i tavoli di sicurezza delle circoscrizioni e i presupposti ideologici di quell’approccio. In un’intervista del 30 maggio 2025 per le pagine torinesi del Corriere della Sera, il prefetto Cafagna annuncia la nascita di un osservatorio sulle periferie: “L’obiettivo, su indicazione ministeriale, è ideare e organizzare nuove iniziative concrete e coordinate fra i diversi enti coinvolti, per affrontare tutte le problematiche. L’11 giugno saranno presenti Regione, Città, associazioni sindacali e di volontariato, fondazioni bancarie e rappresentanti della scuola e dell’autorità giudiziaria”. Il giornalista chiede da dove si debba partire. E il prefetto: lotta al degrado, implementazione di illuminazione pubblica e videosorveglianza.
So che nell’area metropolitana di Torino ci sono enti del terzo settore coinvolti attivamente in pratiche di repressione e controllo del territorio: esistono associazioni direttamente responsabili degli sgomberi dei campi informali, un centro d’accoglienza cattolico ha collaborato all’esilio di centinaia di straccivendoli, una cooperativa sociale è disposta a montare telecamere di videosorveglianza attorno al perimetro del proprio locale, numerosi soggetti hanno accettato finanziamenti europei in nome del miglioramento della sicurezza percepita, una fondazione di comunità impedisce alle persone senza casa di dormire nel parco pubblico che controlla. La sicurezza non si risolve soltanto nell’operato violento e razzista delle forze dell’ordine, ma è un dispositivo che coinvolge anche le iniziative dolci, e democratiche, delle aggregazioni progressiste diffuse a diversi livelli operativi nella società civile. Se il governo del territorio mostra una capillare attitudine a escludere e discriminare, questo è l’esito di un esercizio integrato che coinvolge tanto i soggetti apertamente razzisti quanto le forze benevolenti e paternalistiche.
In un regime di sicurezza integrata la critica deve analizzare e smontare tutti gli elementi che lo compongono. Per questo l’antifascismo declinato come denuncia dei partiti di destra non è più sufficiente. Chiedo a chi incontro in strada, ai compagni di viaggio, quanto sia allucinante il delirio spettacolare cui assistiamo, e se ci sono delle formule per sfatarlo. Domando a chi legge se è possibile risvegliarsi da questo incubo della sicurezza; e se esiste una forza frenante, e collettiva. La disperazione ha in dono un residuo di energie? (francesco migliaccio)