Dal Cpr al carcere, chi ha ucciso Hamid Badoui?

dal-cpr-al-carcere,-chi-ha-ucciso-hamid-badoui?
Dal Cpr al carcere, chi ha ucciso Hamid Badoui?
(disegno di martina di gennaro)

All’alba del 19 maggio scorso, tra le 4:30 e le 6:09, nella cella 214 del padiglione B del carcere torinese Lorusso e Cutugno, Hamid Badoui si tolse i lacci delle scarpe e li legò al collo. In quell’istituto i lacci vengono ritirati solo ai detenuti classificati come “ad alto rischio suicidario”. Hamid non era tra loro, e quei lacci, apparentemente un dettaglio, divennero una condanna.

Passarono ventidue lunghissimi minuti prima che qualcuno aprisse la porta: ventidue minuti in cui rimase solo, avvolto da un silenzio che lo soffocava. Quando gli agenti entrarono, alle 6:31, per lui non c’era più tempo. 

Hamid aveva quarantun’anni e da quindici viveva a Torino. Era nato a Oued Zem, in Marocco, in una famiglia a cui era legatissimo. A soli quindici anni aveva lasciato la sua terra per la Spagna, accolto in una comunità per minori. Lì aveva studiato, ottenuto i documenti spagnoli e un diploma da cameriere. Con i suoi primi lavori riusciva a mandare denaro alla madre, gesto che non interruppe neppure durante i periodi difficili. Anche durante la detenzione a Fossano, nonostante le ristrettezze, continuò a inviarle parte dei piccoli guadagni ottenuti dentro il carcere. Era il suo modo di restare figlio presente, anche dietro le sbarre. Sua sorella Zahira lo ricorda con tenerezza: «Mamma era il suo punto debole, la sua gioia più grande».

In Italia Hamid continuò a lavorare in cucina, a studiare, a conservare con cura documenti e ricevute, segni concreti della sua volontà di costruirsi un futuro dignitoso. Ma le difficoltà non mancavano: i documenti scaduti, la vicinanza a persone sbagliate, la lotta con la dipendenza dal crack. Più volte chiese aiuto, affidandosi al Gruppo Abele per percorsi di cura e disintossicazione. Con Zahira parlava spesso del desiderio di tornare al Sert, curarsi e riavvicinarsi alla famiglia. «Parlavamo ogni giorno», ricorda la sorella. «Poi, all’improvviso, il suo telefono è rimasto spento. Il lunedì è arrivata la notizia che nessuno di noi avrebbe mai voluto ricevere».

Dopo più di una detenzione Hamid era stato trasferito nel Cpr di Bari e poi deportato in Albania, nel centro di Gjadër. Era rimasto lì trentatré giorni, lo aveva definito “un inferno”. «Meglio il carcere che Shengjin», aveva confidato al suo avvocato, spaventato da quella esperienza che lo aveva segnato profondamente. La decisione di un giudice romano, che ne dispose la liberazione, sollevò dubbi sulla legittimità costituzionale del trattenimento nei Cpr.

Hamid era tornato a Torino di venerdì notte, libero sulla carta, ma attanagliato dalla paura di essere nuovamente rinchiuso. Sabato 17 maggio, poco dopo le 14:00, davanti a una tabaccheria di corso Giulio Cesare, chiamò la polizia per denunciare una truffa: la Sim che aveva acquistato non funzionava. Quel gesto, nato dal desiderio di giustizia, si trasformò in un arresto per resistenza a pubblico ufficiale. Da quell’istante la sua fragile traiettoria cambiò.

Hamid trascorse oltre dieci ore in una camera di sicurezza, senza alcuna assistenza. Solo alle 3:43 del 18 maggio varcò l’ingresso del carcere torinese. Alle 4:20 un medico lo visitò per dieci minuti, troppo poco per cogliere il suo stato d’animo. Segnalò di assumere Lyrica e Rivotril, ma il rischio suicidario fu giudicato “basso”. Da quel momento si apre il primo vuoto temporale: dalle 4:30 del mattino fino alle 19:00 nessuna annotazione, nessuna osservazione, quasi quindici ore in cui Hamid rimane invisibile. Sappiamo che poco prima delle 19:00 ha trascorso circa un’ora nell’ufficio del sovrintendente, perché aveva rifiutato di condividere la cella. Poco dopo viene riaccompagnato nella 214 e si apre il secondo intervallo di silenzio: dalle 19:00 circa fino alle 4:30 del mattino successivo.

Alle 4:30 gli agenti effettuano il giro di controllo per verificare che i detenuti stiano bene. È nel letto, apparentemente dormiente. Alle 6:09 il suo corpo viene trovato legato alle sbarre del cancello della cella 214. Le chiavi sono al piano terra: trascorrono ventidue minuti prima che venga aperta. Alle 6:31, quando gli agenti entrano, è troppo tardi.

Zahira, insieme all’avvocato Luca Motta, ha presentato un esposto in procura. Denuncia omissioni, silenzi, ritardi. Ricorda che Hamid avrebbe potuto andare ai domiciliari, che l’arresto non era obbligatorio, che la sua fragilità era evidente. L’esposto parla chiaro: quattordici ore dall’arresto alla visita medica, oltre dieci in isolamento, diciassette escoriazioni sul corpo. Il medico legale ha confermato: non furono le ferite a ucciderlo, ma l’asfissia da impiccagione.

Il 27 maggio corso Palermo si riempì di persone. Fiori, cartelli, passi condivisi. Circa duecento voci unite per dire che nessuno deve morire così, nel silenzio di una cella. Hamid aveva scelto di vivere, di curarsi, di ricominciare. Ma in carcere ha trovato tutto fuorché custodia o protezione. Dopo l’autopsia, Zahira ha completato le pratiche per riportarlo in Marocco, come desiderava la madre. Un ultimo gesto d’amore, per restituirgli dignità e pace. Rimane la memoria: il suo sorriso, i suoi gesti di affetto, la sua forza fragile che chi lo ha amato custodirà sempre.

Rabi yrahmou, Hamid. Ma tensach. (luna casarotti – yairaiha ets)

Related Post