
Il tragitto da Conversano – mio paese natale – ad Aliano dura poco più di due ore. Si attraversa la bassa Murgia che sfiora la Valle d’Itria e poco prima di Taranto si svolta per raggiungere la costa jonica lucana fino a Scanzano Jonico. Da lì inizia un lento allunaggio. Non appena iniziamo a dare le spalle al mare per avventurarci verso l’interno della Basilicata, veniamo travolti da un paesaggio per noi inedito che ci sembra non abbia nulla di terrestre. I calanchi. Formazioni argillose percorse da venature che mostrano i canali prediletti dell’acqua quando scorre sui loro versanti, coperti da qualche sparuta formazione di vegetazione. Per arrivare ad Aliano si sale. Un’ascesa dopo la quale crediamo – io e i tre amici in macchina – di aver raggiunto un’altitudine ben maggiore dei quasi cinquecento metri della nostra destinazione.
La ragione del nostro viaggio è semplice: assistere e prendere parte a La luna e i calanchi, iniziativa che da quasi quindici anni anima per diversi giorni il paese lucano nella seconda metà d’agosto. Aliano è un paese di dimensioni modeste, ma organizzato in tre parti collegate dalla strada principale. La prima ospita la casa del confino di Carlo Levi e qualche altra costruzione, nella seconda c’è il municipio e la piazza dedicata al partigiano Nicola Panevino; infine, proseguendo sempre sulla via principale, si raggiunge quella che sembra essere la parte più nuova del paese che finisce a ridosso del cimitero dove si trovano le spoglie dell’autore torinese.
Mi reco a un infopoint e prendo un programma delle attività. Gli organizzatori definiscono La luna e i calanchi la festa della paesologia. Arresto la mia lettura già al sottotitolo. Cosa è la paesologia? Vado in cerca di risposte sul sito della Casa della paesologia, dove è presente un manifesto, firmato da Franco Arminio, ideatore e protagonista assoluto della “festa”. Lo stile di scrittura è lirico ma informale e cita temi enormi quali la morte, l’anima, il sacro, la comunità per poi nominare anche termini più economici quali la decrescita e il consumismo. La prima lettura del manifesto mi lascia perplesso. In particolare un passaggio cattura la mia attenzione, una specie di inno nichilista: “la paesologia è oltre la decrescita, è fuori dalla logica di costruire società e benessere, l’uomo non deve costruire niente, siamo qui nel mondo, siamo qui e non si può dire nient’altro, siamo nel tempo che passa, non c’è niente da risolvere, non c’è una meta da raggiungere”. Un inno individualista in cui il soggetto diventa una singolarità che trascende completamente la società. Siamo oltre il “ci si salva da soli”, perché non c’è niente da cui salvarsi dal momento che “non c’è niente da risolvere”.
Piantiamo le tende in un appezzamento di terra nei pressi del cimitero e torniamo in paese ad assistere ai primi incontri. È già sera e riesco solo a sentire un concerto di organetto di un artista sardo – eccezionale – e poi uno spettacolo teatrale su Gramsci. In una piazza Panevino gremita riesco a ritagliarmi solo un posto dietro un angolo dove ascolto lo spettacolo come se fosse un podcast. Si tratta di un monologo senza grandi movimenti sulla scena. Il pubblico si mostra impaziente perché chi è sulle balconate sente poco, dal momento che l’amplificazione è al livello della piazza. Arminio si fa portavoce del malcontento e a spettacolo inoltrato irrompe sulla scena interrompendo l’attore, che si ritira nelle quinte – il retro della piazza – per ritrovare la concentrazione persa, sbuffando rumorosamente nel microfono rimasto aperto per pochi secondi. Quello che era un sospetto diventa praticamente certezza: Arminio è il centro assoluto di questa festa, introduce e conclude praticamente tutti gli incontri e ha potere assoluto sulla loro dinamica.
La mattina dopo decido di girare un po’ in paese, guardarmi intorno e magari parlare con qualche alianese per capire meglio il contesto in cui si svolge la festa. Che percezione hanno de La luna e i calanchi gli alianesi? Che ne pensano dei fruitori della festa? Per puro caso incontro Rocco, un alianese trasferitosi al Nord da più di quarant’anni, ma ancora molto legato al proprio paese. Assieme a lui, intento a recarsi sul luogo di lavoro per iniziare la propria giornata, c’è Giacomo, uno dei pochi dipendenti comunali di Aliano. Gli chiedo se può spiegarmi meglio la percezione che gli alianesi hanno della festa. Mi risponde senza nascondersi che la popolazione è prevalentemente anziana e, pur rallegrandosi che il paese si riempia per qualche giorno, perlopiù rimane indifferente e non prende molto parte alle iniziative messe in campo. In seguito Giacomo lamenta la natura effimera della festa che nel corso degli anni non ha lasciato segni più duraturi della sua presenza. Ma a colpirmi di più è quello che dice dopo. Riferendosi alla popolazione più giovane di Aliano e dintorni, Giacomo mi spiega che questi “fanno i servi”, ovvero i volontari per il festival.
Inizio a fare caso a un certo numero di persone con le maglie rosse con su scritto “staff”, tutte volontarie, che riempiono l’infopoint e vari luoghi di interesse. La sensazione è che tra il pubblico della festa – in maggioranza proveniente da fuori – e gli alianesi ci sia una barriera invisibile. Porosa, aperta agli scambi, ma eretta a partire dalla definizione di ruoli precisi nell’economia della scenografia che viene messa in atto nei giorni della festa. Trovo confermata questa mia impressione nelle parole di una giovane barista con cui mi fermo a parlare. Nella nostra discussione con il “noi” si riferisce ai suoi concittadini e impiega invece il “voi” per le persone che da fuori arrivano in paese per la festa. La barriera diventa meno virtuale e più reale. La nostra conversazione si chiude con una sua riflessione: «Noi [alianesi] dobbiamo offrirvi una bella esperienza a voi che venite, però se vuoi vedere davvero Aliano devi venire settimana prossima». La convinzione che questa festa possa esistere solo fuori dalla realtà, o meglio in una sospensione temporanea da essa, si rafforza.
Proprio nel pomeriggio di quello stesso giorno, tuttavia, la festa prova ad affacciarsi sulla realtà affrontando il tema di più bruciante attualità: il genocidio messo in atto dall’entità sionista a Gaza. Non riesco a trovare posto nella sala e rimango fuori ingannando il tempo con altri amici arrivati nel frattempo ad Aliano. I racconti di chi ha partecipato all’evento sono inquietanti: persone (bianche) nelle prime file si commuovono per la tragedia – declinata in termini umanitari e non politici – a Gaza. Alla fine dell’incontro mi riferiscono di un alterco tra Arminio e una persona dal pubblico. Mi raccontano che in chiusura è stato mandato un videomessaggio di una persona gazawi che però è stato fermato proprio nel momento in cui questa chiamava all’azione, invocando manifestazioni e boicottaggi. Non è chiaro se il video fosse stato tagliato precedentemente o fermato per iniziativa di Arminio. Certo l’autore ha reagito in malo modo alle proteste di chi dal pubblico faceva notare che il video si fosse arrestato proprio in quello specifico punto. Il tutto si è concluso con il poeta campano che diceva a chi protestava di vergognarsi e di non azzardarsi a dire che lui non tiene alla causa palestinese.
Mi appresto a seguire l’incontro seguente, la presentazione di un libro. Cerco informazioni sull’autore. Insegna policy analysis a Milano, alla Bocconi. Un’ora e mezza di bocconianesimo da sagra, con discorsi di mero senso comune e puro opinionismo senza uno straccio di riferimento concreto. Un’alluvione di dichiarazioni fatte con il piglio tipico dell’economista che considera i dati economici come dati naturali, ineluttabili e non come produzioni tutte umane. Non mancano anche accenni ispirati alla nauseante retorica meritocratica liberale, che condanna chi sta indietro a rimanere sempre più dietro. Il panel ruota attorno ai temi dello sviluppo locale, declinato in particolar modo per le aree interne, i cui abitanti dovrebbero aspettarsi meno servizi e stipendi minori. Il relatore, in uno slancio di fantasia degno di nota, afferma: «Magari le persone vogliono vivere in città per usufruire di servizi quali un bel ristorante o un aeroporto per andare in Indonesia!».
Frastornato da quest’ultima affermazione, ci metto qualche minuto prima di riprendermi. Siamo davvero sulla luna. Una luna abitata da un ceto alto-borghese lontano centinaia di migliaia di chilometri dalla realtà, tra i cui bisogni principali c’è la vacanza a Bali. Persone che vengono qui per specchiarsi negli occhi delle altre che le guardano mentre leggono in pubblico poesie. Chiuse a chiave in un idillio che priva l’archetipo del paese contadino – rappresentato da Aliano – di ogni elemento di contraddizione. La politica esce di scena. Cosa rimane? Uno sterile esercizio di estetica, che non arricchisce nessuno se non gli ego già rigonfi di una classe che ormai tifa per lo status quo, perché sazia e sistemata. Un arroccamento che non è problematico di per sé. Il problema sorge nel momento in cui la paesologia, questa “disciplina” priva di metodo, apparato scientifico o critico si avventura in analisi sociologiche o politologiche sullo stato della realtà. Il risultato sono affermazioni perentorie formate a partire da un senso comune circa la società, in cui il ceto “riflessivo” alto-borghese è dominante. Un gruppo di persone che non riesce a guardare a un palmo dal proprio esorbitante privilegio e adopera le sue categorie particolari per dispensare consigli che crede di portata generale.
Il riferimento alla luna accompagna Aliano da molto tempo, in una metafora materiale ma anche simbolica. L’argilla dei calanchi, che Carlo Levi descriveva come “piagge di aspetto maligno, come un paesaggio lunare”, ospitavano un mondo contadino che doveva apparire alieno a Levi, così lontano dall’urbana Torino e retto da equilibri e consuetudini a volte inspiegabili. In Cristo si è fermato ad Eboli l’autore spinge la società contadina “sulla luna” raccontandola come se fosse fuori dalla storia, come una civiltà altra. Levi estetizza il mondo contadino, lo racconta attraverso il mito, la leggenda e il ricorso a un registro che insiste sulla dimensione ancestrale. In questi due giorni a La luna e i calanchi davanti a me si è manifestato un nuovo isolamento di questi luoghi. Uno cercato e uno imposto. Il primo è quello della classe alto-borghese in villeggiatura sulla luna per sfuggire alle brutture della realtà, alla ricerca di un rifugio nella poesia e nella paesologia; il secondo è quello di Aliano – e dei suoi abitanti – spinto a essere nuovamente solo una scenografia e non un luogo dove la gente vive ed esprime bisogni che la politica deve prendere in carico. I giovani volontari del festival svolgono un altro ruolo fondamentale: quello di figuranti che rendono verosimile la rappresentazione e la pornografia del sud Italia che si inscena nei giorni della festa. Oggi ad Aliano si consuma la sublimazione di un marketing territoriale che vuole rivestirsi di autenticità sfruttando i visi, le pose e le braccia delle persone lucane. Il tutto sfruttando finanziamenti che derivano dall’estrazione delle fonti fossili. Una ferita viva e pulsante nel cuore del territorio lucano.
Durante l’incontro con il professore bocconiano una ragazza dal pubblico ha posto una domanda: come si risolve la contraddizione di assistere a un festival che esalta un territorio che però viene devastato dal petrolio, i cui proventi finanziano la stessa manifestazione culturale? Un circolo vizioso che scoperchia l’ipocrisia di questa classe dirigente. Il relatore ha risposto denunciando che il problema ormai è la mancata redistribuzione dei proventi ottenuti dall’estrazione delle risorse naturali e non la prevenzione dei danni ambientali, abilmente nascosti dalla classe politica ai tempi delle autorizzazioni. Una dimostrazione del pragmatismo cinico che i liberali vantano di avere per risolvere qualsiasi problema, a patto che non riguardi le disuguaglianze economiche. Al termine del suo intervento ha presentato una possibilità: «Una scelta è anche quella di non farlo, il festival». Sì, è una scelta. (marco patruno)