Napoli Est, una storia di violenza ambientale. L’introduzione del libro

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Napoli Est, una storia di violenza ambientale. L’introduzione del libro
(disegno di roberto-c.)

Dal 20 ottobre è in libreria a Napoli, e a breve in altre città d’Italia, Napoli Est. Una storia di violenza ambientale. Quella che segue è l’introduzione al volume.

Le pagine che seguono non sono che un tentativo di aiutare, chi ne senta la necessità, a orientarsi nell’area orientale di Napoli attraverso l’esplorazione di alcune problematiche ambientali e sociali. Qualora si scelga di avvicinarsi oppure ci si ritrovi a vivere in un territorio caotico e frammentato come quello dei quartieri Barra, Ponticelli e San Giovanni a Teduccio, orientarsi non è scontato. Per usare le parole di un maestro, camminare nell’area orientale è un po’ come entrare nello “sgabuzzino” della città. Ogni singolo elemento ha funzioni più o meno essenziali alla città nel suo complesso (al suo “metabolismo urbano”, direbbero gli specialisti dell’ambiente), ma la progressiva accumulazione di queste funzioni ha reso quest’area insostenibile, insalubre, marginale.

Conviene innanzitutto far capire quali strade si possono percorrere e che cosa si può osservare. Procedendo da ovest verso est ci si imbatte prima nella grande muraglia dei terminal container del retroporto, poi nella catena delle infrastrutture del petrolio e in un mosaico di aree dismesse industriali. Il primo impatto è, insomma, con le tre stratificazioni della storia economica della zona, che peraltro, come racconta Valerio Caruso nel suo contributo, non si sono mai escluse a vicenda. A questo punto si apre un ventaglio di assi viari, come via Ferrante Imparato, via Argine, via delle Repubbliche Marinare e il corso San Giovanni, oppure si può procedere in Circumvesuviana o in Linea 2 della Metro: del resto, l’area orientale è la porta d’accesso della città.

Più a nord si aprono le distese di cemento dei rioni residenziali di Ponticelli che proseguono fino al vesuviano, spezzate dai rari spazi agricoli qui raccontati da Walter Molinaro. Al centro ci sono gli splendidi casali storici di Ponticelli e Barra, troppo spesso claustrofobici ma punteggiati da preziosissimi pezzi di verde, il cui valore sprecato è ribadito da Michela Romano, tranne in rari casi come quel parco De Simone sul quale si sofferma Elisabetta Rota.

Barra e Ponticelli sono separati, oltre che dall’autostrada A3, da uno dei luoghi simbolo, a oggi, del discorso su ambiente e società nell’area orientale, ovvero l’ex campo rom e discarica di via Mastellone che è l’oggetto principale dell’intervista a Mariarosaria De Matteo e Lucia Improta, ma che permea un po’ tutti i contributi.

Più a sud, infine, il territorio di San Giovanni a Teduccio si dipana verso il litorale vesuviano. San Giovanni è in grado di far coesistere i rioni residenziali e le aree dismesse della zona interna di Pazzigno, Villa e Taverna del Ferro, con quel frammento di Miglio d’Oro e ville vesuviane che da Vigliena raggiunge Pietrarsa attraverso il corso San Giovanni e con una linea di costa che è lì ma non si vede, perché occlusa dalla ferrovia, dai petroli, dalle tante fabbriche dismesse e dalle poche ancora attive.

Camminare nell’area orientale di Napoli significa insomma attraversare un paesaggio di ingiustizia, la materializzazione di una lunga storia di decisioni che l’hanno trasformata in una zona di sacrificio. Qui l’ingiustizia ambientale non è un concetto astratto, ma la trama quotidiana che lega spazi, corpi e storie di vita. Per decenni, scelte politiche, economiche e urbanistiche hanno fatto confluire in questi quartieri ciò che altrove non trovava posto: industrie insalubri, depositi petroliferi, infrastrutture strategiche, discariche abusive, rioni di edilizia popolare. Un accumulo che ha sovraccaricato l’area di rischi ambientali, sanitari e sociali, mentre altrove se ne raccoglievano i benefici.

Come ricostruisce Caruso, questa configurazione è il risultato di una traiettoria di lunga durata: dall’espansione industriale avviata con la Legge speciale del 1904, che trasformò un’area agricola in distretto manifatturiero, alla successiva concentrazione di raffinerie, centrali e grandi fabbriche nel Novecento. Una storia segnata da eventi drammatici, come l’esplosione del deposito Agip nel 1985, e da processi strutturali come la deindustrializzazione, che hanno lasciato in eredità contaminazione diffusa e vulnerabilità sociali ed economiche.

Questa eredità si riflette ancora oggi in un paesaggio che, come mostra Giorgia Scognamiglio, è un mosaico di rischi ambientali che penetrano in modo violento nella vita quotidiana di chi ci abita. Non stupisce, allora, che i tassi di mortalità siano sensibilmente più alti che nel resto della città, come ricorda Paolo Fierro a partire dai dati epidemiologici raccolti dalla Consulta popolare. Qui la contaminazione convive con vulnerabilità sociali radicate e con forti diseguaglianze nell’accesso ai servizi, che ne amplificano gli effetti, rendendo gli abitanti più fragili, più esposti e meno capaci di difendersi. Michela Romano lo sottolinea con chiarezza: scuole, sanità, trasporti e servizi essenziali sono distribuiti in modo squilibrato, lasciando interi quartieri esclusi da opportunità e diritti di base. Ma è nei frammenti di quotidianità che l’ingiustizia descritta dai numeri si fa esperienza viva. Lo raccontano, nelle parole di Mariarosaria De Matteo e Lucia Improta, l’odore acre dei roghi tossici che costringono a tenere chiuse le finestre, l’ansia dei genitori per i figli con crisi respiratorie, e la percezione diffusa di vivere in un luogo pericoloso e trascurato.

Tutto questo non è avvenuto per caso. Le scelte che hanno fatto di Napoli Est un polo industriale, un hub energetico o una discarica urbana non sono state prese qui. Hanno radici nelle politiche industriali nazionali, nelle strategie delle multinazionali del petrolio, nei rapporti asimmetrici all’interno del comune di Napoli, dell’area metropolitana e della regione. Così i benefici, i profitti e il potere decisionale sono rimasti altrove, mentre i costi, i rischi e le malattie si concentrano qui. Le comunità locali, ieri come oggi, sono state tenute ai margini: le rare occasioni di consultazione hanno avuto valore solo simbolico, mentre le decisioni reali venivano prese altrove.

A rafforzare questa logica ha contribuito la rappresentazione di Napoli Est come una periferia degradata, uno scarto urbano che sembra naturalmente predisposto ad accogliere nuovi impianti e funzioni indesiderate. Una violenza simbolica che legittima la violenza materiale, riproducendo la logica estrattiva che condanna questi quartieri a rimanere utili agli altri e dannosi per sé stessi.

Eppure, Napoli Est non è solo spazio di subalternità. Qui le disuguaglianze vengono nominate, contestate e trasformate in fili di resistenza: comitati civici, orti urbani, pratiche di riuso, reti di solidarietà. L’intervista a De Matteo e Improta racconta la nascita di Barra R-Esiste dopo i roghi di via Mastellone; quella a Paolo Fierro la collaborazione tra medici e attivisti per smascherare i silenzi istituzionali e reclamare riconoscimento. L’orto sociale di Ponticelli o le esperienze di Remida mostrano come la cura collettiva possa restituire senso a spazi negati. Queste pratiche non cancellano il peso della storia, ma aprono immaginari diversi, ribaltando la logica dello scarto che ha segnato la storia di questi luoghi.

Insieme, i contributi compongono una mappa a più livelli dell’ingiustizia ambientale: distribuzione diseguale dei rischi, vulnerabilità sociali, esclusione dai processi decisionali, responsabilità politiche ed economiche, stigmatizzazione del territorio, fino alle pratiche di resistenza e di cura collettiva. Mettere insieme queste prospettive significa restituire complessità a un territorio che è emblema delle contraddizioni ambientali e sociali che attraversano le nostre città. Guardare Napoli Est con questa lente non significa condannarla a un destino ineluttabile, ma riconoscere la violenza che l’ha prodotta e le lotte che la attraversano. Significa spostare lo sguardo, da uno spazio da bonificare a un luogo di vita che reclama dignità, diritti e riconoscimento.

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