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Quello dell’archeologo è tradizionalmente un lavoro piuttosto lento, che richiede tempo, risorse e pazienza. Può capitare che una persona dedichi la propria intera carriera a un periodo storico estremamente specifico, e muoia senza aver fatto alcun particolare progresso; o che passi anni a scavare e classificare manualmente dei frammenti di ceramica estratti da un unico sito. Per cercare di rispondere a domande finora senza risposta e velocizzare quanto possibile il proprio lavoro, da qualche anno un numero crescente di archeologi ha cominciato a esplorare le potenzialità delle tecnologie basate sull’intelligenza artificiale.
Dal 2023, per esempio, esiste la “Vesuvius Challenge”, un concorso pubblico che premia chiunque riesca a trovare un modo di utilizzare le nuove tecnologie per leggere i rotoli di papiro carbonizzati dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., quella che distrusse Pompei ed Ercolano. I papiri sono accartocciati e anneriti e non possono essere srotolati senza finire sbriciolati, ma rappresentano una delle poche biblioteche del mondo antico arrivate fino a noi, benché profondamente danneggiata. Per questo da decenni si cerca un modo di leggere al loro interno senza doverli aprire: finora, gli sforzi dei partecipanti alla Vesuvius Challenge hanno permesso di leggere quattro papiri quasi nella loro interezza.
Dal 2021 a Pompei esiste il progetto RePAIR, che sta per Reconstructing the Past: Artificial Intelligence and Robotics meet Cultural Heritage. Nella pratica, un team di archeologi e informatici ha lavorato allo sviluppo di un robot dotato di bracci meccanici che scansiona migliaia di frammenti di affreschi, capisce in che ordine posizionarli e poi cerca di ricostruirli nel modo più preciso possibile, manipolandoli con estrema delicatezza per evitare di romperli.

Uno dei papiri carbonizzati rinvenuti a Ercolano (AP Photo/Salvatore Laporta)
L’utilizzo dell’intelligenza artificiale, naturalmente, non ha ancora cambiato il flusso di lavoro di gran parte degli archeologi. Gabriele Gattiglia, professore di Intelligenza Artificiale e Archeologia presso l’Università di Pisa, dice che «a seconda del campo e dell’alfabetizzazione digitale del singolo archeologo, si iniziano a vedere dei cambiamenti», ma che «una buona parte di chi ci lavora ancora tiene una certa distanza dall’uso quotidiano dell’IA».
In parte questo è dovuto al fatto che «l’archeologia è una disciplina molto conservativa», in cui tante persone sono affezionate al modo tradizionale di lavorare, più o meno lo stesso di cinquanta o sessant’anni fa. In parte c’entra anche il fatto che i risultati ottenuti da questi software hanno spesso bisogno di un intervento e una supervisione umana costanti.
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Il problema più citato è quello dei database. Dentro alla categoria di “intelligenze artificiali”, piuttosto fumosa, ci sono molti tipi di software diversi, accomunati principalmente dalla complessità dei calcoli su cui lavorano. Questi software vengono “allenati” su grandi set di dati in modo da diventare sempre più precisi: questi dati, però, per essere utili a questo fine devono essere affidabili, abbondanti e relativamente standardizzati.
Raramente gli archeologi hanno accesso a dati del genere. Le istituzioni che custodiscono collezioni di reperti archeologici – musei, università, collezionisti privati, archivi nazionali, agenzie e organizzazioni per la tutela del patrimonio – spesso non hanno le risorse per digitalizzarle. Quando lo fanno, poi, è raro che queste collezioni digitali vengano rese disponibili liberamente.
Altre volte le collezioni sono state digitalizzate senza pensare a uno specifico utilizzo per l’intelligenza artificiale, e quindi non contengono i metadati che servirebbero per “allenare” i software (e che sarebbero utili per poter paragonare i reperti esaminati ad altri). Altre volte ancora i set di dati sono incompatibili tra loro perché i ricercatori hanno usato sistemi di classificazione diversi: uno, magari, ha classificato i frammenti di ceramica in base alla funzione dell’oggetto da cui provengono, mentre un altro in base al periodo storico in cui sono stati prodotti.
Creare set di dati coerenti e adatti all’addestramento dei modelli di intelligenza artificiale è un’operazione laboriosa che richiede conoscenze mirate. Per cercare di colmare questa lacuna, da marzo esiste una rete europea interdisciplinare di ricercatori che collaborano per condividere le risorse e le conoscenze necessarie: si chiama MAIA, che sta per Managing Artificial Intelligence in Archaeology, e mette in contatto informatici e archeologi. Gattiglia, che ne fa parte, spiega che l’idea è quella di formare figure ibride che siano innanzitutto consapevoli delle complessità specifiche dell’archeologia, ma che capiscano abbastanza l’informatica da parlare la stessa lingua dei programmatori. «Non ci interessa sviluppare un software perfetto da un punto di vista tecnico: ci interessa sviluppare modelli che rispondano alle nostre esigenze e alle nostre domande», dice.
Un altro problema specifico è che l’archeologia studia, per sua natura, materiali spesso frammentari, incompleti e rovinati, o che richiedono molte competenze diverse per essere contestualizzati correttamente. Un modello addestrato su uno specifico set di dati, quindi, potrebbe essere inutile se messo davanti a manufatti provenienti da un sito archeologico diverso: anche gli archeologi che si occupano di siti aztechi non hanno che una vaga idea di come sia fatto un sito dell’Alto medioevo nella Francia centrale.
Emily Hammer, professoressa di Digital Humanities dell’Università della Pennsylvania, in un articolo per la rivista Nautilus ha fatto l’esempio dei templi antichi, che possono avere caratteristiche simili un po’ ovunque nel mondo ma presentano in ogni caso delle specificità che rendono difficile sviluppare conoscenze trasversali nel tempo e nello spazio.

Le rovine di un antico caravanserraglio nell’Iran centrale (Kaveh Kazemi/Getty Images)
Negli ultimi anni, nonostante le difficoltà, Hammer ha identificato un tipo specifico di sito che si presta particolarmente bene all’utilizzo dell’intelligenza artificiale. Sono i cosiddetti caravanserragli: gli antichi alberghi costruiti nei secoli lungo la via della Seta, che sono sempre stati edificati nello stesso modo, per secoli, lungo tutta la rotta commerciale. «C’è una strada che conduce a un ingresso monumentale. Al centro c’è un cortile circondato da stanze. Ci sono luoghi dove ospitare gli animali da soma che trasportavano le merci», ha spiegato Hammer. «Tutte queste caratteristiche rendono i caravanserragli più semplici da identificare per un modello rispetto ad altre strutture più rare».
Hammer ha cominciato ad addestrare il modello con cui lavora sui caravanserragli dell’Afghanistan ma l’idea è che, una volta raccolti abbastanza dati, il software riesca a setacciare centinaia di migliaia di vecchie foto e mappe create dai geografi sovietici nel secolo scorso e individuare siti che gli archeologi non hanno ancora scovato.
Questo genere di tecnica, che permette di individuare e mappare siti archeologici e reperti senza doverli scavare o toccare fisicamente, è detto remote sensing, o telerilevamento. Permette, per esempio, di analizzare immagini aeree o satellitari per identificare strutture sepolte, strade antiche o insediamenti non visibili ad altezza umana, o di utilizzare impulsi laser per trovare strutture nascoste dalla fitta vegetazione.
Negli ultimi anni è stata utilizzata con risultati molto soddisfacenti in Perù, dove ha aiutato a identificare centinaia di antichi disegni (detti geoglifi) tracciati oltre duemila anni fa nel terreno dell’altopiano desertico attorno alla città di Nazca. Gli archeologi dell’Università Khalifa di Abu Dhabi, invece, la stanno utilizzando per individuare potenziali siti nascosti nel deserto di Rub al Khali, nella penisola arabica.

Alcuni geoglifi a Nazca, in Perù (AP Photo/Martin Mejia)
«Con queste nuove tecnologie possiamo conoscere il passato dell’umanità senza neanche smuovere il suolo. Individuiamo i siti, li mappiamo, li interpretiamo, estraiamo i dati e ce ne andiamo senza lasciare traccia», ha spiegato Jesse Casana, direttore dello Spatial Archaeometry Lab dell’Università di Dartmouth. «Questo è il mio modo preferito di fare archeologia oggi».
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Un’altra funzione per cui viene adoperata sempre più spesso l’intelligenza artificiale è il riconoscimento dei materiali archeologici poco definiti, come monete passate per le mani di migliaia di persone e quindi ormai consumate, oppure frammenti di vasellame.
«È un processo che tradizionalmente viene fatto a mano, allenandosi a riconoscere i tipi diversi di ceramica o confrontandosi con cataloghi perlopiù cartacei, che vanno consultati per confrontare i pezzi illustrati in passato con quelli che si hanno in mano», spiega Gattiglia. Con il giusto database, però, è un lavoro che si può far fare, almeno in parte, alle reti neurali convoluzionali, un tipo di modello progettato specificamente per analizzare e classificare dati visivi come immagini e video: per capirci, è lo stesso tipo di tecnologia utilizzato per il riconoscimento facciale.
Infine, un certo numero di ricercatori sta cercando di impiegare l’intelligenza artificiale per decifrare antiche lingue non ancora del tutto note.
Un gruppo dell’Università di Nottingham, per esempio, in collaborazione con Google DeepMind ha sviluppato Aeneas, un modello linguistico che cerca di integrare e comprendere la provenienza geografica delle epigrafi, le antiche iscrizioni latine. Studiare le epigrafi è particolarmente impegnativo perché spesso nelle scritte mancano lettere, parole o intere sezioni, ma anche perché le lingue cambiano nel tempo: a questo scopo, Aeneas è stato addestrato sui tre database di epigrafia latina più grandi al mondo, per un totale di oltre 176mila epigrafi datate tra il settimo secolo a.C. e l’ottavo secolo d.C. Il modello comprende tre reti neurali: una serve a restaurare il testo mancante, una a prevedere la provenienza del testo e una a stimarne l’età. I risultati sono sorprendentemente accurati.
Un altro gruppo di ricercatori sta lavorando a un modello di traduzione automatica che permetta di tradurre dei testi cuneiformi risalenti all’impero accadico – un regno mesopotamico esistito nella seconda metà del terzo millennio a.C. – in inglese: i risultati sono già eccellenti per quanto riguarda le frasi di breve e media lunghezza. Un altro gruppo ancora sta lavorando alla traduzione di alcune porzioni dell’epopea di Gilgamesh rimaste incomprensibili fino a oggi. E in Sudamerica c’è un antropologo e programmatore che ha sviluppato un software per cercare di decifrare almeno in parte i quipo, un sistema di cordicelle colorate annodate attorno a una corda più spessa usato per migliaia di anni dalle civiltà andine per comunicare, e oggi quasi del tutto incomprensibile.
Soprattutto a livello europeo chi revisiona i progetti di ricerca degli archeologi sempre più spesso premia le proposte che includono l’utilizzo di queste tecnologie. «Fino a un paio d’anni fa se inserivi nel tuo progetto qualcosa che aveva a che fare con l’IA tendenzialmente venivi guardato con sospetto: i revisori ti dicevano “questa cosa non si può fare, è troppo difficile, come farete?”, o quantomeno ci chiedevano un prototipo per dimostrare anticipatamente che quello che veniva dichiarato era possibile», ricorda Gattiglia. «Oggi la tendenza si è completamente invertita, e l’IA viene vista come un modo per risolvere dei problemi altrimenti di difficile risoluzione o che richiederebbero moltissimo tempo».
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