Un assaggio di libertà. La storia del Chiosco blu di Ferrara

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Un assaggio di libertà. La storia del Chiosco blu di Ferrara

Cònia, la cui falsa etimologia deriva dal cono, è una scuola che dalla montagna trae alcuni caratteri: rarefazione dell’aria, altezza panoramica, isolamento, distacco. In queste ideali condizioni si collocano lo studio e l’esercizio intorno al nodo della rappresentazione del mondo operata dall’arte in generale, nelle sue implicazioni storiche e sociali, e dall’arte come tecnica personale”. Così la Socìetas Raffaello Sanzio nata a Cesena nel 1981, presenta la Scuola Cònia diretta da Claudia Castellucci, il corso estivo triennale di Tecnica della Rappresentazione. È qui che ho incontrato Matteo, ventisette anni, che, arrivato alla terza annualità, costruiva la sua performance.

«Posso iniziare dall’esperienza a Cònia, nata in concomitanza con l’attività del Chiosco. Ho aperto il chioschetto al Lido di Spina, una frazione di Comacchio, una località balneare in provincia di Ferrara, dove mio padre ha uno stabilimento balneare. La mia estate l’ho vissuta sempre lì, con le hit italiane degli anni Ottanta della Riviera Romagnola. Il Lido di Spina non è la Romagna, però ha un po’ quella vibe, figli che mandano avanti il lavoro dei genitori, o ragazzi che hanno creato gruppo. Lavorando da sempre con mio padre, ho cominciato ad avere i miei primi guadagni, ma non mi sono mai trovato a mio agio, c’è stata una continua sensazione di distanza. Ho studiato al liceo artistico di Ferrara, però abitavo fuori dal centro e non sono mai riuscito a integrarmi, ero un po’ outsider; mentre in estate non avevo un ruolo preciso, ero conosciuto come il figlio del proprietario.

FOTOGRAFIA
«Dopo il liceo sono andato a Padova a studiare fotografia e lì ho capito che la fotografia commerciale non mi bastava, volevo di più e nel 2019 sono riuscito ad avere un contatto per lavorare a New York nei due mesi estivi. Ho sempre fatto questa altalena, fare esperienze nel mondo e tornare in provincia, uscire e ritornare… Tornato da New York, l’esperienza che mi ha fatto innamorare della fotografia è stata lavorare come assistente nel collettivo Cesura, a Pianello Val Tidone, provincia di Piacenza, fondato dagli assistenti del fotografo della Magnum Alex Majoli.

«Dopo i primi tre mesi che ero in studio a spazzare per terra, a fare un po’ lo sgargino, ho avuto la fortuna che Majoli avesse bisogno di un nuovo assistente e tutti gli altri erano già stati presi. Sono diventato il suo assistente, rimanendo con lui per tre anni. Avevo ventidue anni, era l’anno del Covid.

«Gli avevano proposto di documentare il Covid per tutta Italia, ed è stato un po’ obbligato ad accettare la mia presenza. Questo ci ha legati molto. Ho passato tre anni duri, che mi hanno aiutato a vedere il mondo in un modo completamente diverso, ad amare l’arte, a non vederla più come un hobby.

«Alex Majoli è un fotogiornalista, io gli reggevo le luci. Nelle sue foto c’è un approccio teatrale alla realtà, fa delle foto che sembrano costruite. Siamo andati in ospedali, case private, abbiamo seguito medici che andavano a fare i tamponi. Abbiamo attraversato molte delle dinamiche del Covid, dai cimiteri ai corpi che venivano bruciati nella bergamasca. Tutte le dinamiche possibili di questa pandemia, avendo come soggetto medici e pazienti.

«Dopo tre anni col mio maestro, ho deciso di dedicare il mio tempo alla fotografia e sono tornato a vivere a Ferrara dai miei, perché avevo comunque bisogno di denaro, non avevo più soldi. Non venivo pagato per l’assistentato, quindi lavoravo d’estate.

«Torno a lavorare per mio padre, torno a farmi l’estate a Lido di Spina, però con una visione diversa dopo la pandemia. Inizio a fare dei ritratti tutte le sere, quando tornavo da lavoro, nel bar sotto casa. Il secondo anno faccio ancora un sacco di foto, le unisco alle altre e iniziano a dirmi qualcosa, anche se non riuscivo a capire cosa. Mi attraevano, ma non riuscivo a dargli un nome: questa espressione è tristezza o felicità? È gioia? Rispecchiavano esattamente la situazione che c’era in provincia d’estate. Volevo farci un libro, ma mi sono detto, perché invece di un libro fotografico inaccessibile, difficile da mostrare alle persone, non provo a cambiare quella realtà lì? La Scuola Cònia mi ha aiutato a viverla come una performance: e così ho pensato al Chiosco.

CHIOSCO
«A cento metri dal mare mio padre aveva un chiosco per vendere gelati e bottigliette d’acqua, un servizio del suo stabilimento. Gli ho detto “ti ripago i settemila euro che tu fai in una stagione, e noi facciamo quello che vogliamo”. Ero sicuro di quello che stavo facendo, sapevo che poteva funzionare: avevo il problema, avevo la soluzione, e non vedevo nessuna interferenza nel mezzo.

«Ho aperto il chioschetto blu. Volevo un pugno nell’occhio, tra questa sabbia pastello e questo cielo, queste piadine. Vado a Parigi e cerco quel colore perché ero andato in fissa, volevo quel colore lì perché non è un blu casuale, un blu che ha fatto anche una certa storia nell’arte. Ho iniziato a sperimentare con tutto quello che ruotava intorno a questo chiosco. I miei clienti non erano clienti, erano ospiti, cercavo di mantenere un rispetto e un concetto di casa, più che di servizio. Il nome Chiosco blu era per essere riconosciuto su Instagram, era semplice.

«Poi ogni anno gli davo un nome diverso. Il primo anno si chiamava La cabina di Despina, lì c’era il gioco delle due spine, e anche un racconto delle Città invisibili di Calvino, che parla di una città tra deserto e mare, un porto costantemente influenzato da altre culture.

«La tematica portata avanti nel primo anno era concentrata sull’accogliere chiunque fosse perso, perché era un po’ anche la mia storia: mi ero perso in questa provincia e ho voluto ricreare questa casetta, per sentirmi libero di esprimere quello che volevo, per creare collettività, creare gruppo, anche attraverso le feste.

«Il primo gesto per convincere i ragazzi a venire è stato fare le feste di lunedì, il giorno della settimana che tutti odiano. Chiamavo i dj, o persone che avevano il sogno di fare il dj, ma la piccola provincia non gli dava la possibilità di fare. Un amico tornato da Londra è caduto in depressione, faceva fatica a ripartire e cercava costantemente delle fughe, tra alcool, droga, eccetera. Un giorno gli ho detto, facciamo una cosa, domani facciamo una festa e te sei il dj, ti do anche cinquanta euro. Ha iniziato a farlo, è diventato il resident…

«I primi lunedì sono venute venti persone, poi cinquanta, poi cento, pian piano siamo arrivati a Ferragosto che sono arrivate settecento persone, e lì ho conquistato l’amore e la fiducia, perché rompevo un po’ gli schemi… La festa di Ferragosto l’abbiamo fatta fino alle nove del mattino, era palesemente illegale, però l’abbiamo organizzata bene, non era un rave, non c’era politica, non c’era niente in mezzo, c’erano semplicemente dei giovani che volevano divertirsi, ascoltare della musica buona, bella, ricercata. C’era il dj che veniva lì per fare il dj, e cambia tutto quando quello che fai si slega dal guadagno.

«Il Lido di Spina ha una spiaggia lunghissima. C’è lo stabilimento di mio padre che fa ristorante, piadine, eccetera, poi c’è tutta la distesa di ombrelloni che si fermano a duecento metri dal mare; in questi duecento metri lui ha altri cinquanta metri di concessione e qui era collocato il chioschetto, a cento metri dal mare. Ero sotto lo stabilimento balneare, però questa distanza fisica mi creava libertà nella gestione delle cose; non comunicavamo, se facevamo una festa contemporaneamente, non si sentiva neanche.

«La prima serata non c’era ancora niente, poi ho costruito tutto io, insieme a dei ragazzi che mi davano una mano. Il dj era stanco, ma volevamo continuare a ballare. Ho chiesto, c’è qualche dj? Uno ha alzato la mano e ha detto, è una chiavetta con la musica, non la porto mai con me, ma stasera… Questo ragazzo ha suonato, e ha spaccato. Adesso è diventato dj art-techno, suona spesso ad Amsterdam, viene da Palermo. Non so perché da Palermo fosse finito qui, ma questo è un po’ il concetto di viandante che intendevo, sono arrivate persone da ovunque. Anche dei dj da Londra. Perché lavoro come fotografo per un collettivo in Inghilterra, e in tre anni di lavoro non mi hanno mai pagato. Quando ho aperto il chiosco gli ho detto, voi non mi avete mai pagato, venite, io non vi pago. Quindi ho fatto suonare gratis dei dj che non sarebbero mai venuti a Ferrara.

«Poi facevo delle esposizioni con le mie foto. La cosa bella della spiaggia è che puoi piantare un palo in tre secondi. Creare e modificare lo spazio come vuoi. Avevo fatto tutta una serie di fotografie che delimitavano lo spazio per danzare, c’erano vari allestimenti, sperimentavo anche con le stampe, poi con le tende. Cercavo delle scenografie. Poi ho comprato delle lampade di carta che sono diventate simboliche, richiamando un po’ la casa. Contemporaneamente facevo la Scuola Cònia che mi aiutava a pensarla, la casa.

CASA
«Quando parlavo con mio padre, mi diceva di smetterla di fare le feste. Succede nei paesi, provano a farti vedere problemi che non esistono; soprattutto se hai una buona idea, non ne sono contenti, provano invidia. Non trovi mai quello che ti dà una pacca sulle spalle e dice, cazzo, fai una cosa fantastica!

«Poi pian pianino ho trovato le mie energie, chiamavo un sassofonista e lo facevo suonare col dj. Tutta sperimentazione che poi veniva da Claudia Castellucci. Ho usato molti concetti della Scuola Cònia, come la Teoria dello sfondo, o la Teoria dello spazio e altri approfondimenti sull’arte e la rappresentazione fatti lì, per applicarli nel mio chioschetto.

«Il secondo anno, ancora più carichi, siamo arrivati con il budget dell’anno precedente. Avevo preso dei divani in Marocco con un mio amico, e lì abbiamo raccolto un sacco di idee. Questi grandi divani marocchini, come materassi, fatti tappezzare tutti blu, li avevo messi all’unico grande tavolo che c’era, dov’eri obbligato a socializzare con altra gente, e sono successe cose fantastiche: la nonnina col bambino e i due ragazzi magari un po’ burini, una coppia che litiga e tutti a provare a risolvere il problema… Mi piaceva giocare con questa realtà nuova, con queste persone che si sentivano a loro agio. Avevo trovato delle diapositive di vecchi quadri e li ho messi a disposizione; durante le serate si creavano collettivi di gente che suonava, un vero spazio di creazione, di libertà. Abbiamo fatto una festa anche con i collettivi di Bologna e sono venute mille persone. All’alba avevo tutta la spiaggia piena di gente, con ragazzi che ballavano anche in mare, bellissimo! E lì sono iniziati ad arrivare anche problemi legati al Comune, alla legalità…

«Non ti ho detto che il primo anno i club e le discoteche che suonano musica commerciale mi avevano già mandato i controlli, chiamando i carabinieri: “c’è un chioschetto blu in riva al mare, andate a vedere”. Una discoteca storica di Ferrara aveva paura di un’attività aperta da un anno. Io e mia sorella di diciannove anni, che mi ha aiutato a ritinteggiare di blu un chioschetto di tre metri per tre, e questi qua ci mandano i carabinieri.

«Io me ne fregavo, mi hanno mandato i carabinieri il primo anno alla fine della stagione e ho pagato la multa. Il secondo anno ho cominciato ad avere un po’ di paranoie, poi ho fatto due feste e mi sono detto, ne pago dieci di multe. Però ad agosto c’era davvero tanta gente, e i problemi potevano diventare molto più grossi; non avevo buttafuori, avevo gente che pagavo trenta euro con la maglia della security, trovata magari al mercatino dell’usato. Stavo iniziando a spaventarmi un po’ di quella realtà lì e quando ho provato a rendere questa cosa legale e a cercare un modo per far sì che diventasse un lavoro, ho capito che era una cosa campata in aria, fluttuante, temporanea, non poteva essere nient’altro. È stato un assaggio di speranza, un assaggio di libertà.

«A volte i clienti dello stabilimento di mio padre chiamavano i carabinieri. Io non volevo fare il ribelle, volevo che quella cosa funzionasse perché era casa mia, quindi mi adattavo. Avevamo tutte le casse rivolte al mare, e andavo su al bar di mio padre per sentire se effettivamente davo fastidio, perché se do fastidio è giusto che chiudo, però, se non do fastidio c’è un problema, stiamo parlando di repressione.

«Il secondo anno, dopo questa grande festa, anche mio padre ha iniziato a mettersi contro questa attività, aumentando l’affitto. Non riuscivo a capire cosa stesse succedendo, perché funzionava tutto perfettamente, però man mano che cresceva, sempre più parassiti arrivavano e volevano soldi: un fornitore faceva il furbo e mio padre aumentava l’affitto, poi ci mandavano delle multe… C’è stato un gran litigio.

«Ho mollato, perché non capivo più niente. Mi dicevano non puoi fare niente, ma se hai un po’ di coraggio, lo puoi fare. Cosa vuol dire? Si può lavorare così? Ho iniziato ad avere quest’ansia, questa difficoltà anche a organizzarmi, perché se chiamavo un collettivo da Milano e poi non suonavano, che figura ci facevo con i clienti. Non riuscivo a proteggere la mia casa e quindi, citando la mia performance di domani qui a Scuola Cònia, questa casa l’ho indossata e me ne sono andato in Francia con l’idea di potermi vestire ancora di queste pareti e recuperare quello che ho raccolto in questo chiosco.

FUOCO
«Per rendere questa cosa simbolica ho deciso di dargli fuoco alla fine dell’anno, a settembre. È stato un rituale, ero contento. Non era un addio, gli dava un valore temporaneo, dava un valore al mio rapporto con la città di Ferrara. Ho provato a fare qualcosa per questa città ma ho capito che non era la mia lotta. Se la tengano la palude riqualificata, adesso se la riprenderanno, non lo so.

«L’atto più rispettoso che potevo fare era di bruciare questa casa, un atto di purificazione. Volevo liberarla, questo è il primo motivo. Un altro motivo per il quale l’ho bruciata è stato che mio padre voleva darla in gestione, con una leggerezza… senza riconoscere tutto il mio lavoro. Non potevo permettere che il mio chiosco blu fosse gestito da altri, perché è stata casa mia. Questo mi ha dato la rabbia per bruciarlo, ero obbligato, non potevo fare altro, potevo solo bruciarlo. Non potevo farlo abitare a qualcun altro.

«Si è bruciato anche il rapporto con mio padre e con tutta la mia famiglia. Sono stato da settembre a novembre a Ferrara, e poi sono fuggito, non riuscivo più a reggere tutto quello che mi stava intorno, lo sentivo soffocante, stavo iniziando a prendere brutte abitudini. Dopo che ho bruciato la casa, tutto intorno a me ha iniziato a bruciare, dalla relazione familiare, alle relazioni con gli amici, alle relazioni amorose, tutto si è fatto terra bruciata e una sera ho preso un volo e sono andato in Francia.

«Quest’anno ho ricominciato un’altra vita e sono tornato viandante come quando ho costruito il chiosco. Sto cercando un’altra realtà che mi accolga. È la prima volta che torno in Italia dopo mesi che sono fuori, sono tornato per la Scuola Cònia, perché fa parte di questo percorso, e lo chiuderò con questa performance, che rappresenta un po’ il mio esodo da questa casa». (daniele balzano)

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