
Enrico Pugliese ci ha lasciati la scorsa settimana. Oggi sarà ricordato alle 11:30 alla Sala della Promoteca del Campidoglio. Anche noi vogliamo ricordarlo, riproponendo questo articolo da lui pubblicato sul Manifesto esattamente trent’anni fa, nel dicembre 1995, in un periodo molto delicato, nel pieno della discussione politica su una possibile sanatoria e di una mobilitazione dai tratti chiaramente razzisti incentrata sul legame tra immigrazione e criminalità che iniziava a sfondare anche a sinistra.
Leggendolo si possono ritrovare tutte le tracce che hanno fatto di Enrico una figura radicale e autorevole, capace di coniugare attività scientifica e impegno militante senza fare sconti a nessuno. Formatosi alla scuola di Portici, sociologo inizialmente concentrato soprattutto sugli studi sul mercato del lavoro, l’agricoltura e l’emigrazione, ha poi allargato molto le attività, avviando cantieri di ricerca sulle politiche sociali, sulle trasformazioni del mondo produttivo, sull’immigrazione straniera, che ha letteralmente “scoperto”, tra i primissimi, già alla fine degli anni Settanta. Pugliese è stato negli anni Settanta tra i fondatori del Centro di coordinamento campano, con Fabrizia Ramondino e Giovanni Mottura, ha sostenuto le lotte dei disoccupati, ha contribuito ad avviare negli anni Novanta un ciclo dirompente di mobilitazione antirazzista, culminato nel 1995 nella nascita della Rete antirazzista nazionale.
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Strano paese, l’Italia. Sembra passata una vita dall’ossessione della grande stampa per la criminalità degli immigrati, mentre è passato sì e no un mese. Ora l’attenzione dei mezzi di comunicazione di massa si è spostata – e ringraziamo la Madonna – sulle difficoltà di vita degli immigrati e sull’irrazionalità di molte norme del decreto sull’immigrazione. Gli stessi giornali che ora riportano interviste sul decreto e sui suoi difetti, prima pareva non vedessero altro che prostituzione e sporcizia. Al martellare continuo sulle nefandezze di spacciatori e lenoni neri (esistenti o immaginari, poco importa) si è sostituita la pietà e la commozione per la bambina rom alla quale un qualche buon padre di famiglia ha deciso di spaccare le braccia.
Le brave persone che a Torino fiaccolavano contro la criminalità straniera saranno state finalmente contente: qualcuno ha avuto il coraggio di usare le maniere forti. Non bisogna dimenticare infatti che la bambina poco prima di essere massacrata aveva – pare – tentato un furto. C’era stata – pare – flagranza. Roba da espulsione, se straniera. Una buona lezione da piccoli insegna a vivere. O no?
Pensiero debole e maniere forti: ci voleva poco a capire che quell’insistere continuo sulla criminalità degli stranieri come se fosse l’unica questione di rilievo nelle grandi città italiane avrebbe favorito un orientamento contrario agli immigrati in quanto tali. I compagni pidiessini e gli intellettuali non-di-destra che andavano a fiaccolare avrebbero potuto fare un qualche pensiero sul come le loro iniziative avrebbero favorito un’immagine falsata e negativa degli immigrati. In quei giorni si andava determinando in Italia l’identità immigrato=criminale. Naturalmente non mancavano i distinguo basati soprattutto sulla fondamentale distinzione sociologica tra buoni e cattivi. E i fiaccolatori di Torino o gli opinionisti di Repubblica se la prendevano – per carità – solo con i secondi. Ma questi diventavano sempre di più; i buoni si riducevano a un’astrazione. Quando poi si propose di considerare crimine anche la condizione di clandestinità si raggiunse il colmo.
Questo avveniva ieri. Le cose sono cambiate con velocità impressionante. Ho ancora nelle orecchie la lettura mattutina su Rai Tre dell’articolo di Gianni Vattimo, credo sulla Stampa, con l’irritante racconto delle sue emozioni di fiaccolatore. E l’orrore di quei giorni non è certo passato. Ma devo dire – non per raccontare anch’io le mie emozioni – che avverto una nuova fiducia e una nuova speranza.
GENTE CHE LAVORA
È come se d’improvviso in Italia ci si fosse resi conto di un fatto ovvio ed evidente: cioè del fatto che, innanzitutto, gli immigrati sono gente che lavora. Anzi, gente che lavora molto e guadagna poco; gente che non fa parte di eserciti della camorra (la quale dispone di ben altre truppe). Comincia a farsi strada sulla stampa e anche nel senso comune un fatto che pareva dimenticato nei mesi scorsi: cioè che le immigrate non fanno in generale le prostitute (come sembrava dall’Espresso e da Panorama), bensì semplicemente le donne, le lavoratrici, le madri di famiglia, le figlie, le scolare ecc. La stampa e il senso comune sembrano aver scoperto che quasi mai gli immigrati riescono a godere dei diritti (pochi) che le leggi dello stato stabiliscono per loro. Insomma, sembra che stia cambiando l’aria.
Lo so, sembra. E il clima delle istituzioni non è certo dei migliori: il voto del Senato (Pds compreso) sulla costituzionalità dell’articolo 7 non è certo un buon segno. Ma c’è qualcosa di meno greve nell’umore della gente. Torino avrà pure avuto le fiaccolate dei giannivattimi e le ronde dei mazzieri. Ma ha avuto anche la manifestazione del 19. E a Firenze il sindaco Primicerio è sceso in piazza non contro gli immigrati, ma per i loro diritti. Questo abominevole decreto, poi, è esso stesso pieno di contraddizioni. E di questo ha mostrato di rendersi progressivamente conto la grande stampa, compresa – anche se più tardivamente – l’Unità. La penosa difesa d’ufficio del decreto da parte del Pds e del suo giornale sta mutandosi in un dibattito più o meno pubblico sulla questione, nonostante il voto al Senato. La situazione è in movimento e la matassa è difficile da sbrogliare.
SCAMBIO TRA DIRITTI
Per capire qualcosa anche sul possibile futuro del decreto è bene forse partire dalla sua storia. Esso doveva nascere come intervento punitivo contro gli immigrati criminali, sulla base delle sollecitazioni dei fiaccolatori di Torino e loro alleati. Poi qualcosa è cominciato a muoversi nella società e nella politica. Non sappiamo la “storia nascosta” del decreto. Ma è come se a un certo punto fossero entrate in gioco una serie di pressioni, anche progressiste e solidaristiche, e come se alla fine si fosse determinata una sorta di scambio tra area dei diritti e dei principi costituzionali e area dei diritti sociali: insomma, “uno scambio tra espulsioni e regolarizzazioni”.
Non è certo una bella cosa, e d’altronde tutto questo è un po’ fantapolitica. Ma la mostruosità economico-giuridico-sociale del decreto, e la sua contraddittorietà – cioè il suo carattere “benevolo” su qualche punto (si pensi all’articolo sulla sanità) e al contempo lepenista oltre ogni limite su altri – mostra che il suo estensore – vorrei conoscere la sua faccia – ha dovuto contentare molti partiti, molti gruppi di pressione, molti umori. Ci sono poi i “si dice”, che come tutti i “si dice” vanno presi con le pinze, ma non tutti sono improbabili. Per esempio pare che la Lega sia riuscita a far cancellare un articolo relativo alla regolarizzazione dei lavoratori autonomi (questione essenziale, soprattutto nel sud). Se non è vero, c’è stata una distrazione imperdonabile del “legislatore”, il quale ha lasciato fuori una parte significativa degli interessati. Se invece è vero, si è trattato di un episodio di indubbio squallore.
SCHIZOFRENIE ANTISANATORIA
Passiamo al lato positivo. Devo riconoscere innanzitutto che non mi aspettavo una apertura sul tema della regolarizzazione. La regolarizzazione è un’operazione di buon senso necessaria anche dal punto di vista della legge e dell’ordine. E quelli che sono contrari – il partito antisanatoria – sono a mio avviso un po’ schizofrenici: da un lato tendono a raccontare un’improbabile avvenuta invasione di oltre un milione di clandestini; dall’altro sostengono che l’immigrazione clandestina è essa stessa crimine da punire, per cui non resta che la deportazione di massa. E vorrei vedere come si fa: manco la Bosnia! Tuttavia su questo aspetto la chiusura in passato era netta.
Non entro nel merito delle espulsioni e della loro incostituzionalità (oltre che ingiustizia). Il voto del Senato è un punto a svantaggio della civiltà, ma ancora ci sono la Corte costituzionale e altre istanze. Trovo ora importante la questione della regolarizzazione e delle impossibili condizioni richieste per ottenerle. Qui la contraddittorietà del decreto è sublime. In primo luogo non è chiarito quanto tempo sia stato necessario lavorare presso un padrone per aver diritto alla regolarizzazione come lavoratore dipendente. In generale, sembra difficile che, allo stato, possano regolarizzarsi la maggior parte dei lavoratori immigrati occupati al nero in attività precarie.
Si dice che le regolarizzazioni non devono incentivare il lavoro nero. Ma è proprio questo il punto: solo permettendo al lavoratore occupato al nero di regolarizzarsi gli si concede anche la possibilità di difendere i propri diritti sul lavoro. E qui entra l’altra questione veramente irritante, quella del risparmio. La penalità finanziaria prevista riguarda tutti, anche quelli con un lavoro stabile. L’ineffabile “legislatore” deve aver subìto pressioni diverse. Per esempio è entrato in campo il partito del risparmio. Non so quali malaccorti consiglieri hanno suggerito di far spendere ai datori di lavoro quelle cifre per regolarizzare i propri dipendenti. Sei mesi di contributi arretrati sono davvero un’enormità. Una punitività del genere, in un’occasione volta peraltro a fare emergere il lavoro nero, non si era davvero mai vista.
Non sono storie quelle che si raccontano su datori di lavoro che licenziano i loro dipendenti per non regolarizzarli. Idea davvero disumana è stata quella di far pagar caro un doveroso atto di civiltà qual è quello di ufficializzare rapporti di lavoro già al nero. L’idea di imporre un costo finanziario così grave non è stata solo crudele: è stata anche stupida. In questo modo l’Inps non incasserà i soldi degli immigrati e dei loro datori di lavoro, giacché rischia di esserci lo sciopero dei padroni che impedirà le regolarizzazioni. A volte però questi sono brave persone (o delle brave famiglie nel caso delle colf) che non hanno potuto in passato regolarizzare la posizione dei propri dipendenti a causa della chiusura delle norme finora vigenti. Insomma, il furbacchione che molto voleva far avere all’Inps rischia di non fargli avere nulla. E poi, proprio sugli immigrati bisognava andare a risparmiare? Si è trattato, secondo me, di una miscela di rigorismo, crudeltà e scarsa conoscenza del problema espressa trasversalmente da gentiluomini di varia fede.
Queste cose le sanno bene gli immigrati che si stanno mobilitando dappertutto in Italia. Essi capiscono come il decreto funzionerà (e ovviamente che implicazioni avrà per la loro vita) ben più di chi lo ha stilato. Dai tempi della legge Martelli non si vedevano tante mobilitazioni con contenuti concreti e con grande scambio di informazioni. Dopo gli anni della crisi dell’associazionismo, si vedono di nuovo insieme immigrati di varie nazionalità discutere all’interno dei loro gruppi e con gli altri. Le sedi sindacali vedono assemblee affollate di immigrati e personale competente (volontari, avvocati).
OBIETTIVI PRIORITARI
Insomma, si è venuto formando un movimento con l’obiettivo che il decreto faccia il minor male possibile. Ora, affinché questo obiettivo venga in qualche modo raggiunto, credo che ci si debba mobilitare secondo due direzioni prioritarie. La prima riguarda i criteri di attuazione del decreto nel periodo in cui resterà in vigore, quindi già da oggi. A questo proposito c’è molto da fare e molto si sta facendo. Bisogna controllare che non vengano date interpretazioni restrittive sia per quel che riguarda le regolarizzazioni che per quel che riguarda i ricongiungimenti familiari o le forme di assunzione dei lavoratori.
L’altra direzione è la mobilitazione contro il decreto così come è ora affinché lo si possa cambiare con pochi e mirati emendamenti. La messa in luce delle incongruenze e della estrema selettività del decreto deve servire a questo scopo. Il decreto decadrà molto probabilmente, a prescindere dalle mobilitazioni, per i motivi tradizionali per cui i decreti, almeno quelli importanti, spesso decadono. Bisogna però evitare che esso venga reiterato nella sua forma originaria. Bisogna approfittare di questo periodo di parziale rinsavimento dell’opinione pubblica e di forte impegno dei gruppi di pressione in materia di immigrazione perché quel mostro che è ora il decreto diventi qualcosa di più organico. Bisogna innanzitutto che l’obiettivo della regolarizzazione non venga vanificato, come ora, da norme e vincoli che lo rendono impraticabile.
Per quel che riguarda gli immigrati il clima è leggermente migliorato nelle ultime settimane. Essi non godono più tanto di pessima stampa. Non sappiamo quanto questo nuovo clima possa durare. Tuttavia questa mi sembra una buona occasione per darsi da fare.

