La politica della morte. Dopo i massacri nelle favelas di Rio de Janeiro

la-politica-della-morte.-dopo-i-massacri-nelle-favelas-di-rio-de-janeiro
La politica della morte. Dopo i massacri nelle favelas di Rio de Janeiro
(disegno di federica pagano)

Il 26 novembre di nuovo un’operazione della polizia militare a Rio de Janeiro ha provocato dei morti, questa volta nella favela del Maré; i proiettili hanno raggiunto un bambino di dodici anni che era nel cortile di una scuola, e hanno perforato i muri di una sede dell’Università Federal de Rio de Janeiro. Camila Felix che stava preparando questo pezzo per Monitor sul massacro avvenuto il mese scorso nella favela di Penha, a poca distanza dal Maré, era all’Università quando sono arrivati gli spari.

UN PRESIDIO, DUE CORTEI
Il 28 ottobre 2025 è entrato nella storia come il giorno del più grande massacro mai realizzato in Brasile; il cinico “successo dell’operazione” suona come una minaccia. Possiamo aspettarci che “la peggiore operazione di polizia a Rio sarà sempre la prossima”. Claudio Castro, il governatore dello stato di Rio de Janeiro vuole proseguire con la presunta strategia di recupero dei territori sotto il controllo dei gruppi armati usando sempre la stessa tattica delle incursioni della polizia, quella che ha consegnato l’intera città – e in particolare le favelas – nelle mani dell’incertezza e della politica della morte.

Tre giorni dopo il massacro c’è stata una manifestazione unitaria di protesta con lo slogan “Basta massacri, Claudio Castro fuori!”. Il luogo d’incontro era un campo di calcio, il Campo do Ordem, nel complesso de La Penha, nella zona nord di Rio – il quartiere dov’è avvenuto il massacro. Si sono incontrati gli abitanti dei quartieri Penha e Alemão, i parenti delle vittime, nonché organizzazioni politiche e sociali come i movimenti dei neri, organizzazioni comuniste, sindacati, organizzazioni giovanili, eccetera. La strada era piena di gente; pioveva, le persone erano schiacciate sotto gli ombrelli, vestite di bianco o con magliette a lutto. Quando la pioggia si è calmata, lentamente le persone, le moto e i furgoncini sono entrati nel campo di calcio, e lo hanno riempito finché era difficile camminare. Mi sono fatta un giro, salutando amici e compagni di lotta, e fermandomi ad ascoltare gli sconosciuti che condividevano il loro dolore, i politici e gli attivisti che pronunciavano i loro discorsi, mentre altri registravano o trasmettevano in diretta, insieme a giornalisti di testate indipendenti. L’indignazione era evidente. In fondo al campo c’era un secchio con vernice rossa diluita e magliette bianche da dipingere. Macchie rosse per una moltitudine.

Il presidio è rimasto lì per circa tre ore, poi è partita una manifestazione che si è divisa in due. Alcuni dei partecipanti si sono incamminati in corteo verso Penha, mentre un’altra parte si è avviata con i furgoni e le moto in una carovana verso il Palacio de Guanabara, la residenza del governatore dello stato di Rio nel quartiere centrale di Laranjeiras. Io mi sono avviata con il primo gruppo, e ci siamo diretti verso la piazza São Lucas, dove la settimana precedente gli abitanti avevano allineato decine di cadaveri abbandonati dai poliziotti dopo il massacro.

Mentre camminavamo per le strade gridavamo: “Claudio Castro, assassino!”, “Non è finita; deve finire; voglio la fine della Polizia Militare”, e “Marielle lo chiese, io pure lo chiedo: quanti devono morire perché questa guerra finisca?” [un riferimento a Marielle Franco, l’attivista per la casa uccisa nel 2018 a Rio, Ndr].

Dalla piazza São Lucas abbiamo continuato a camminare per l’avenida Nossa Senhora da Penha, dove molti negozi sono rimasti chiusi fin dal giorno del massacro. Siamo passati davanti alla sede del 28º Battaglione di pompieri militari, da dove alcuni pompieri osservavano attentamente la manifestazione. Una volta arrivati all’avenida Brás de Pina, almeno otto pattuglie di polizia ci aspettavano parcheggiate. Lì la manifestazione ha iniziato a disperdersi.

SICUREZZA PUBBLICA E IDEOLOGIA
Secondo il giornale Foro de Teresina, il saldo del massacro è stato di centoventuno morti confermati, nessuno dei quali aveva un ordine di arresto che giustificasse l’operazione. Nessuna delle persone assassinate dal braccio armato dello Stato era il vero obiettivo di quella azione, che ha avuto luogo in un paese dove la pena di morte non è prevista dalla legge. Tra i centotredici arrestati, solo venti avevano dei mandati di arresto. La Defensoría Pública non ha potuto realizzare la perizia sui cadaveri, che avrebbe permesso di distinguere tra uno scontro e un’esecuzione. Il governatore Castro ha dichiarato: “Tutto il Brasile ora ha visto che è possibile affrontare queste organizzazioni. La società ci chiede continuità: e noi gliela daremo”. Il “successo”, tuttavia, con tutta probabilità non risiede negli arresti o nel sequestro di armi, né nel “recupero del territorio”, che non è avanzato neanche di un centimetro. Come mostrano le “mappe storiche dei gruppi armati” sviluppate dal Gruppo di studio sulle nuove illegalità dell’Università Federal Fluminense e dall’organizzazione Fogo Cruzado, questa politica di sicurezza pubblica che va avanti da quasi trent’anni sta diventando sempre più letale, ma continua a fallire nel contenere l’avanzata dei gruppi armati. Una comparazione sull’area di azione di Rio de Janeiro mostra un aumento del quattrocento per cento nel territorio controllato dai gruppi armati, tra il 2008 e il 2023. Queste mappe mostrano una riorganizzazione del dominio territoriale dei gruppi armati nella regione, specialmente con l’espansione del Comando Vermelho e delle milizie.

Il “successo” si spiega quindi forse per un’altra cifra: che il sessantaquattro per cento della popolazione si è dichiarata favorevole alla mega-operazione. Così, possiamo formulare un’ipotesi: la “sicurezza pubblica” a Rio de Janeiro funziona come un’ideologia che sostiene le campagne elettorali, e con molto successo. Se studiamo il momento successivo al massacro, e le sue ripercussioni politiche, alla luce di questa ipotesi, possiamo identificare alcuni elementi e prese di posizioni diverse: il rifiuto del massacro, la rivendicazione del suo successo, e anche la strumentalizzazione dell’episodio per trattare altri temi.

In primo luogo, spicca la ripercussione relativa agli eccessi commessi. Il 3 novembre, sei giorni dopo i fatti, il gruppo del Psol nell’Assemblea legislativa dello stato di Rio ha presentato una richiesta di impeachment contro il governatore Castro. Il giorno dopo, il presidente federale Luiz Inácio Lula da Silva del Partito dei lavoratori (Pt) ha affermato che “c’è stato un massacro”, dichiarando che ci sarebbe stata un’inchiesta parallela sull’operato della polizia. Ventisette organizzazioni hanno espresso la loro indignazione in una lettera pubblica che affermava “la sicurezza pubblica non si costruisce con il sangue”.

La seconda linea di ripercussione consiste nella disputa sulle cause e il senso dell’avanzamento dei gruppi armati a Rio, e – in conseguenza – del massacro stesso. Gli alleati di Bolsonaro legano la crisi della sicurezza a Rio al presunto abbandono della città da parte del governo federale, particolarmente in relazione alla figura di Lula. In questo contesto, è importante analizzare le continue critiche alla Arguição de Descumprimento de Preceito Fundamental, un’azione giudiziaria conosciuta anche come ADPF das favelas, presentata nel 2019 dal Partito socialista (Psb) insieme a diversi movimenti neri, collettivi di madri e parenti di vittime della violenza della polizia, abitanti delle favelas e altre organizzazioni della società civile. L’obiettivo dell’ADPF 635 era diminuire la letalità della polizia nelle operazioni di sicurezza pubblica nelle favelas, ed era stata accettata parzialmente nel 2020.

Tra i risultati di tale azione c’era l’installazione di telecamere nelle uniformi degli agenti, la presenza obbligatoria delle ambulanze nei luoghi dove si realizzano le operazioni e la richiesta di maggior trasparenza e dialogo con il Ministerio Público. Tuttavia, le organizzazioni di attivisti e in difesa dei diritti umani hanno denunciato che il testo ha delle falle che permettono un’applicazione flessibile, per non dire selettiva, delle sue direttive.

Claudio Castro, che inizialmente aveva elogiato la ADPF quando era stata approvata, ora la chiama “maledetta” e la accusa di rendere meno efficace l’azione della polizia durante il massacro. Secondo Pedro Venceslau, questa argomentazione è in linea con la narrativa adottata dalla destra, e particolarmente dai leader del Partido liberal, per orientare il dibattito sulla sicurezza pubblica verso una critica non solo del governo federale, ma anche del Tribunale federale supremo. Sono due i fattori decisivi per cui la ADPF 635 è stata così criticata. Da una parte, nell’ambito statale, serve come base per la richiesta di impeachment: secondo il gruppo che ha avanzato la richiesta, i protocolli che stabilisce – rispetto alla proporzionalità, alla presenza delle ambulanze, all’uso delle telecamere corporali e alla preservazione della scena dell’operazione per le perizie indipendenti – non sono stati rispettati. Dall’altro lato, nell’ambito federale, la ADPF è servita anche come base per l’apertura dell’inchiesta portata avanti dal giudice Alexandre de Moraes, che ha convocato in udienza il governatore Castro il 3 novembre, richiedendogli un rapporto sull’operazione.

Questo rapporto, elaborato dal governo dello stato di Rio, è stato mandato al Tribunale superiore federale il 17 novembre, ma presentava contraddizioni tra il numero degli arresti e il numero delle armi sequestrate. Un’altra discrepanza era sulla quantità di telecamere utilizzate durante il massacro: inizialmente il governo aveva dichiarato che tutti i poliziotti che avevano partecipato all’operazione avevano le telecamere corporali, ma nel rapporto Castro afferma che solo sessanta poliziotti civili avevano tali dispositivi; inoltre, oltre la metà di essi (trentadue) non funzionavano.

In più, l’operazione del governo federale, capeggiata da Lula e dal Partito dei lavoratori, fa parte di una strategia di lunga durata nei confronti dei candidati del Partito liberale, a cui appartiene il governatore Castro così come buona parte dei candidati bolsonaristas, sia dello stesso Partito liberale che di altri partiti di destra come i Repubblicani e Progressisti. Però, oltre a questa opposizione, la destra brasiliana da anni deve affrontare anche il Tribunale federale supremo, e in particolare proprio il giudice Alexandre de Moraes. Il punto più alto di questa tensione è stato l’assalto al Tribunale, al Parlamento nazionale e al palazzo presidenziale di Planalto a Brasilia l’8 gennaio 2023, all’indomani della vittoria di Lula. La storia prosegue convulsa dopo il recente arresto di Jair Bolsonaro.

Infine, il terzo piano comprende una posizione che considera le favelas come spazi d’eccezione. “Un drone del Comando Vermelho ha lanciato bombe durante l’operazione della polizia, eppure la sinistra insorge se io suggerisco di bombardare le barche dei trafficanti!”, ha scritto Flavio Bolsonaro, senatore e figlio dell’ex presidente. L’associazione di idee segnalata dal senatore è rivelatrice: si riferisce agli attacchi statunitensi contro le barche venezuelane. Non è la prima dichiarazione di questo tipo: suo fratello, il consigliere Carlos Bolsonaro, aveva già criticato la decisione del governo brasiliano di rifiutare, nel 2025, una proposta degli Usa perché fazioni armate come il Comando Vermelho e il PCC (Primer Comando da Capital) fossero considerate organizzazioni terroriste.

Secondo la professoressa dell’UFF Carolina Grillo, classificare tali “fazioni” come gruppi terroristi o narcoterroristi sarebbe una strategia per costruire un’alterità radicale che permette la sospensione delle leggi in alcuni spazi specifici. Sono più di tre decenni che in Brasile le politiche di sicurezza sono orientate dall’idea della crisi come forma di governo. L’alterità e la crisi sono elementi essenziali per instaurare questa modalità di azione differenziata delle forze dello Stato, come un vero e proprio stato di eccezione. Altre due studiose, Gizele Martins e Juliana Farias, sostengono invece che la militarizzazione non ha un carattere eccezionale nelle favelas e nelle comunità; è un dispositivo di disciplinamento dei corpi neri e poveri, naturalizzato dalla sua ripetizione. È una politica che si basa su una morte allargata che disorganizza la vita come conseguenza di tale violenza. Essa va oltre la morte e il lutto; si configura anche come irruzione della paura, dei coprifuoco e della imprevedibilità nella vita quotidiana degli abitanti. Così, la violenza in Brasile prevale nelle forme extralegali, tanto quando è esercitata dai gruppi armati, che quando la pratica lo stesso Stato, che trasgredisce le sue stesse determinazioni legali sull’uso della forza. La vita politica che si è articolata dopo il massacro sta mostrando che questo modo di gestire la sicurezza pubblica ha altre ragioni rispetto a quelle dichiarate. (camila felix)

Related Post