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C’è perplessità intorno a Perplexity

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Di tutte le aziende che si occupano di intelligenza artificiale, Perplexity AI è forse la più strana. In poco più di due anni di attività ha raggiunto una valutazione di 14 miliardi di dollari, grazie a finanziamenti ricevuti da Jeff Bezos e Nvidia, tra gli altri, diventando una delle più note del settore. Eppure i numeri sembrano raccontare un’altra storia: Perplexity rimane un servizio minore e sempre più isolato, in un contesto occupato da aziende molto più grandi, come Google, Meta, Microsoft e OpenAI. E non è chiaro quanto possa resistere in queste condizioni.

Perplexity è stata tra le prime aziende a imporsi nel settore delle intelligenze artificiali generative nei mesi immediatamente successivi al lancio di ChatGPT, con una proposta che all’epoca era piuttosto innovativa. Il suo prodotto principale, infatti, è un ibrido tra un chatbot e un motore di ricerca tradizionale, detto anche «motore di ricerca conversazionale», in grado di rispondere a domande e generare risposte attingendo dal web.

L’azienda fu la prima a identificare questa formula, superando il modello imposto da Google e dagli altri motori di ricerca alla fine degli anni Novanta. Grazie alle AI generative, infatti, gli utenti potevano porre domande e ricevere risposte articolate, con fonti e citazioni. «È quasi come se Wikipedia e ChatGPT avessero avuto un figlio», disse Aravind Srinivas, amministratore delegato dell’azienda.

Col tempo, però, l’offerta di Perplexity è diventata più simile a quella dei concorrenti, che nel frattempo si sono adeguati e hanno reso i loro chatbot in grado di consultare il web. OpenAI ha lanciato da qualche mese ChatGPT Search, mentre Google ha da poco presentato AI Mode, un servizio con cui punta a cambiare radicalmente il nostro rapporto con il motore di ricerca.

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Quello che è successo a Perplexity è un processo economico detto commoditizzazione, nel quale un prodotto che inizialmente ha un valore riconoscibile agli occhi dei consumatori diventa sempre più generico e comune. In questi casi, il vantaggio iniziale ottenuto dall’azienda svanisce, l’offerta di alternative aumenta e i consumatori finiscono per preferire il prodotto più conveniente. Questo processo viene anche detto «trappola della banalizzazione», o commodity trap.

Il clima attorno a Perplexity rischia quindi di cambiare. Anche l’ultimo investimento ricevuto, pari a 500 milioni di dollari, racconta solo metà della storia: Perplexity puntava a raccoglierne il doppio, ma non ci è riuscita. Questo potrebbe dimostrare che gli investitori hanno ridotto le aspettative nei confronti dell’azienda, visti i cambiamenti avvenuti nel settore delle AI nell’ultimo anno.

Anche per questo, l’azienda sta cercando di distinguersi e di trovare un modello di business sostenibile. Sei mesi fa Perplexity ha iniziato a vendere pubblicità sul suo sito, ma nel 2024 aveva fatturato 34 milioni di dollari (a fronte di 65 milioni di uscite).

Lo scorso marzo l’azienda ha anche fatto un’offerta per comprare TikTok U.S., la divisione americana del social network, e fonderla con Perplexity. Nei piani dell’azienda, il 50% della proprietà di questa nuova società sarebbe andato al governo americano. L’offerta ha fatto discutere ma non ha avuto seguito: molti analisti hanno anzi espresso dubbi sulla possibilità che un’azienda piccola come Perplexity possa acquisire uno dei mercati principali di uno dei più grandi social network del mondo.

Lo scorso febbraio Perplexity ha annunciato che sta lavorando a un browser, Comet, fondato sulle intelligenze artificiali generative. La scelta è in realtà in linea con una tendenza in corso per cui le aziende sviluppatrici dei chatbot stanno investendo sia nella ricerca nel web che nei browser, ovvero i software con cui si naviga su internet.

Come ha scritto il giornalista tecnologico Casey Newton, infatti, «la ricerca e i browser sono due lati della stessa medaglia», e le aziende vogliono controllarli entrambi. Non è un caso che anche OpenAI stia lavorando a un browser, mentre Google può già contare su Chrome e Microsoft su Edge.

Affrontare la competizione di Google nel campo dei browser non è ovviamente un compito facile, ma a peggiorare le cose per Perplexity c’è anche il fatto di non avere un modello linguistico (o LLM) proprietario. Se Google ha sviluppato Gemini e Meta può contare su Llama, infatti, Perplexity si è sempre basata su tecnologie altrui, pagando aziende concorrenti per usare i loro modelli. Inizialmente, questo le ha permesso di usare modelli diversi a seconda dei casi, ma oggi rischia di rendere Perplexity ancora meno unica, e più sostituibile.

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In tutto questo, l’azienda deve anche gestire una serie di problemi legali, legati soprattutto alle accuse di violazione del diritto d’autore. Lo scorso anno Forbes e Wired accusarono Perplexity di rubare i loro contenuti, riscrivendoli e riassumendoli, anche nei casi in cui le era stato vietato l’accesso.

Servizi come Perplexity e ChatGPT, infatti, ma anche i normali motori di ricerca, funzionano grazie a dei crawler, un tipo di bot che naviga su internet e può accedere alle informazioni in modo automatico. Ciascun sviluppatore di un sito web, però, può compilare un file chiamato “robots.txt”, che contiene tutti i crawler a cui l’accesso è vietato.

Per anni questo file è bastato a gestire i rapporti di potere nel web, richiedendo semplicemente ad alcuni crawler di non accedere a determinati siti. Con l’ascesa delle AI generative, però, è anche aumentato il numero di aziende che, pur di ottenere informazioni, aggirano questo tipo di richiesta. Secondo quanto riportato da Wired, Perplexity avrebbe continuato l’attività di crawling sul loro sito per alcuni mesi, anche dopo questo esplicito divieto.

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