Cosa succede a Bagnoli? Terremoti, grandi eventi e rigenerazioni urbane

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Cosa succede a Bagnoli? Terremoti, grandi eventi e rigenerazioni urbane
(disegno di adriana marineo)

Sarà presentato questo pomeriggio a Napoli, alle ore 18:00 in viale Campi Flegrei (giardini esterno Vineapolis), il nuovo numero de Lo stato delle città (n. 14 / maggio 2025). La presentazione sarà occasione per discutere con gli abitanti di Bagnoli, con i membri dell’Assemblea popolare di Bagnoli e dei Campi Flegrei, con gli attivisti e le attiviste di Mare Libero Napoli e dell’Assise di Bagnoli, degli ultimi sviluppi riguardanti il complesso processo di “rigenerazione urbana” dell’area. 

 A seguire pubblichiamo l’articolo di Riccardo Rosa, apparso sullo stesso numero, dal titolo Giro di lune tra terra e mare.

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È il 13 aprile. Un mese è passato dalla forte scossa di terremoto (magnitudo 4.6) che ha colpito l’area flegrea, e in particolare il quartiere di Bagnoli, nella periferia occidentale di Napoli. Siamo nella caldera dei Campi Flegrei, un’area vulcanica con un diametro di quasi venti chilometri, piena di crateri e fumarole. Da duemila anni, però, l’uomo ha voluto abitarci: per la sua bellezza, per la prossimità con il mare, per le proprietà delle sue acque termali e per tante altre ragioni, meno piacevoli, che verranno fuori da questo testo. La vulcanicità di questa terra, i movimenti di gas e lo spaccamento delle rocce, la periodica salita e discesa del terreno con relativi terremoti, sono tra gli effetti indesiderati. All’inizio di questo secolo i Campi Flegrei hanno invertito il trend di subsidenza del suolo. Questo significa che il terreno ha interrotto il suo processo di abbassamento e ha iniziato a innalzarsi, come già accaduto molte volte in passato. Dal 2006 la curva di innalzamento ha cominciato a salire più velocemente, fino a una piccola impennata dal 2012. Dal 2020 i terremoti si sono fatti più forti e più frequenti, a causa della velocità con cui si sono presentati i fenomeni bradisismici. Una forte scossa a maggio 2024 ha colpito Pozzuoli mettendo fuori di casa mille e cinquecento persone, che a oggi non hanno ancora ricevuto dalle istituzioni risposte adeguate.

È domenica. Nell’isola pedonale in cui culmina la strada principale del quartiere sono radunate più di cento persone. A dieci metri di distanza, una palazzina che “fa angolo” è recintata con un nastro bianco e rosso. Il bar al piano terra è il più frequentato di Bagnoli, ma da qualche giorno una delle due saracinesche è abbassata. Il palazzo è stato dichiarato inagibile per i danni subiti dopo la scossa del 13 marzo, e una produzione a scartamento ridotto è sempre meglio della chiusura.

Le cento persone sono in cerchio. Walter, un uomo sulla trentina, parla al megafono, dà aggiornamenti ai cittadini sulle pratiche burocratiche con cui gli sfrattati possono richiedere un sostegno per gli affitti o una sistemazione in albergo; ricorda gli appuntamenti per i prossimi incontri con assessori e prefetto; invita chi non l’ha ancora fatto a iscriversi a un gruppo WhatsApp che sta fungendo da collettore e al contempo da base logistica per gestire la crisi “dal basso”.

Walter potrebbe sembrare, a sentire distrattamente le sue parole, il presidente o un assessore della municipalità, soggetti che invece non si sono quasi mai visti in giro negli ultimi trenta giorni, e a cui diversi interventi al megafono consegnano un conto salato in termini di accuse e improperi. È, invece, uno dei militanti di Iskra, laboratorio politico che da quindici anni agisce nel quartiere portando avanti lotte per la bonifica, per il lavoro, per la casa, contro lo smantellamento dei servizi di welfare, per la difesa degli spazi pubblici.

Per molti, questi attivisti sono ancora “i ragazzi di Iskra”, sebbene abbiano lasciato il liceo Labriola da tempo e sulle teste di alcuni di loro cominci a spuntare qualche capello bianco. La gente li chiama così per familiarità, avendo visto crescere il collettivo e le persone che lo compongono, e riconoscendogli una certa autorevolezza a esprimere le istanze del territorio. I giornali e i politici lo fanno invece con quel paternalismo che mira a sminuire l’altro anche quando se ne sta parlando bene: i “ragazzi” sono gli illusi sognatori come tutti in gioventù, in fondo, siamo stati (e anche su questo ci sarebbe da discutere); quelli che faranno casino fino a quando capiranno che non è così che si risolvono le cose…

Iskra e altri soggetti del quartiere hanno promosso, a inizio marzo, la formazione di un’“assemblea popolare”, un organo di rappresentanza informale nato in seno a un’occupazione della municipalità, molto partecipata dagli abitanti. In una settimana di riunioni l’assemblea ha scritto un documento molto più sensato della gran parte delle iniziative prese dai comuni di Napoli e di Pozzuoli, dalla Protezione civile e dal governo negli ultimi tre anni, un documento che metteva insieme analisi e proposte, tanto in termini di prevenzione quanto di gestione della crisi, sottolineando l’urgenza di un intervento perché la situazione sismica stava degenerando. Destino ha voluto che, pochi giorni dopo, la scossa più forte registrata da quarant’anni avesse come epicentro il quartiere, provocando danni a tantissimi edifici e lo sfollamento di più di seicento persone, senza contare quelle che, per paura o per situazioni abitative che hanno ritenuto non sicure, hanno deciso di lasciare volontariamente casa, senza ricevere alcun supporto in quanto “non ufficialmente sfollati”. Nel complesso, le risposte delle istituzioni alla crisi sono state, e continuano a essere, insufficienti. Le persone stanno provando a incidere sugli interventi attraverso cortei, presidi, iniziative pubbliche, facendo pressione sulla stampa per far sentire la propria voce e su chi amministra il territorio e il paese perché faccia qualcosa e subito.

UNA COMUNITÀ
Bagnoli è ritenuto un “quartiere operaio”, e in effetti lo è stato per oltre un secolo, dalla fine dell’Ottocento a quella del Novecento. Per un periodo molto più lungo, tuttavia, durato svariati secoli, era stato un luogo di vacanza e di cura (si è già detto del meraviglioso affaccio sul golfo di Pozzuoli e delle acque termali).

Per una serie di circostanze un po’ complesse da riassumere, la stessa struttura urbana che ha assunto il quartiere ha contribuito alla creazione di una comunità coesa (tra queste circostanze vanno ricordate una sorta di “vincolo ante-litteram” contro la cementificazione della seconda metà dell’Ottocento, che ha fatto sì che si costruissero in buona parte del quartiere palazzi alti al massimo due o tre piani; oppure la presenza di confini – naturali e artificiali – ben definiti, come la collina di San Laise, il litorale, o i binari della metropolitana e della ferrovia Cumana). A partire da inizio Novecento – e con la progressiva espansione della principale fabbrica del sud Italia, l’ex complesso siderurgico Ilva-Italsider – questa comunità ha assunto una connotazione ben precisa anche dal punto di vista politico.

Partendo da questi presupposti, l’intellighenzia cittadina ci racconta che “i bagnolesi” (come fossero un corpus unico) avrebbero ereditato una serie di caratteristiche legate alla tradizione operaia, tra cui la tendenza a lottare per i propri diritti. Non che sia una falsa retorica, ma una semplificazione che non rende onore alla complessità del reale, sì.

Si è già parlato di Iskra; c’è poi Villa Medusa, palazzina liberty occupata e sottratta a mire speculative; ci sono gruppi come l’Assise di Bagnoli, una rete di associazioni e un osservatorio sul processo di bonifica in corso; ci sono gli attivisti dell’ex Lido Pola, insieme ad altre realtà che lottano per un mare libero, gratuito e disinquinato. Ma c’è anche dell’altro: la scuola Madonna Assunta che lavora con il metodo Freinet, una serie di piccoli vuoti urbani rifunzionalizzati per l’uso sportivo e collettivo, librerie indipendenti, laboratori d’arte e di teatro. Tutto in un quartiere eterogeneo che mantiene una parte di tessuto sociale fortemente popolare.

Gli abitanti più anziani raccontano che, dopo la chiusura dell’acciaieria, gli operai rimasti senza lavoro, e che avevano scelto di prendere la liquidazione o il prepensionamento piuttosto che essere delocalizzati in altre aziende, erano così tanti che occupavano il loro tempo facendosi l’uno per l’altro da elettricista, falegname, idraulico, fabbro. Mettevano, in questo modo, competenze acquisite o rafforzate durante la loro esperienza in fabbrica al servizio della comunità, creando una sorta di economia circolare che funzionava perché ancora le risorse umane ed economiche da condividere erano consistenti. I veri problemi sarebbero arrivati con la generazione successiva, quella dei figli dell’ultimo ciclo di operai: nel loro caso la comunità diventava qualcosa a cui aggrapparsi mentre il quartiere si faceva via via più povero, con alti tassi di disoccupazione, tossicodipendenza e malattie (cento anni di fabbriche, fumi tossici, rifiuti speciali e tute di amianto non sono uno scherzo).

Se il centro di Napoli oggi si trasforma a una velocità spaventosa a causa del turismo, e la sua identità viene svenduta a ogni angolo di strada, questa parte di città si mantiene in qualche modo ancora un luogo autentico, perché la sua identità è assai meno “materiale” rispetto a quella iconica e commercializzabile, sotto forma di calamite e altra paccottiglia, della città-vetrina.

Non è semplicemente la tendenza a lottare e a resistere, ma qualcosa di più ampio dentro cui questa tendenza si colloca: un coacervo di relazioni, frutto di prossimità, mutuo riconoscimento, disponibilità all’aiuto che fa effetto ai tempi del turbocapitalismo, e che ha contribuito a tenere vivo un territorio assediato da un trentennio almeno di brighe e ruberie. Questo non vuol dire, naturalmente, assenza di povertà e violenza, o di abbandono nei confronti dei più deboli e dei più emarginati. Ma, piuttosto, che nel perimetro di quei confini ben definiti di cui si è parlato prima, esiste qualcosa di intangibile e collettivo capace di attutire i colpi.

DOPO L’ACCIAIO
Il polo siderurgico ex Ilva-Italsider di Bagnoli, nato a inizio Novecento ed espanso in maniera graduale fino a raddoppiare la sua superficie all’inizio degli anni Sessanta, è stato chiuso tra il 1990 e il 1992, dopo un decennio di crisi e una serie di costosissime ristrutturazioni mirate a limitare il violento impatto ambientale della fabbrica sul territorio.

Molto difficile è il bilancio del secolo d’acciaio: Bagnoli è stata decisiva nell’affermazione dell’Italia come potenza industriale e ha contribuito a portare stabilità all’economia del paese; decine di migliaia di uomini e donne hanno potuto costruirsi a loro volta un futuro dignitoso grazie al lavoro in fabbrica, si sono formati professionalmente e politicamente, acquisendo consapevolezza dei propri diritti e una coscienza di classe; nondimeno, il prezzo pagato in termini di decessi per incidenti professionali e per malattie, non soltanto contratte da chi lavorava in fabbrica ma da tutti gli abitanti del quartiere, è stato altissimo. Uno scotto che – forse, cinicamente – avrebbe potuto essere considerato un prezzo da pagare se quel “benessere” acquisito a caro prezzo avesse messo le basi per un futuro migliore per tutti. In pochi anni, invece, questo patrimonio è stato dilapidato e l’impoverimento del territorio si è manifestato con una velocità vertiginosa. 

Un’altra delle false retoriche di cui è oggetto Bagnoli è quella dell’“immobilismo”, la narrazione per cui nei trent’anni passati dalla chiusura della fabbrica a oggi nulla è stato fatto in termini di bonifica e rigenerazione del territorio. Ma è troppo comodo descriverla così. Il bilancio, al contrario, è quello di un costante ed efficace lavorìo di dilapidamento di risorse pubbliche (novecento milioni di euro circa) in bonifiche non fatte o fatte male, costruzione di pochissime opere diventate cattedrali nel deserto o andate in rovina, carotaggi, studi, consulenze per centinaia di professionisti che hanno fatto percorrere al processo di riqualificazione strade contorte per tornare sempre al punto di partenza.

Dal 2017 il Sito di interesse nazionale Bagnoli-Coroglio è gestito da un commissario straordinario, che lavora per applicare il Praru, programma per la bonifica e rigenerazione urbana. Quel commissariamento è stato molto contestato fin da subito, perché toglieva agli organi di rappresentanza cittadini le proprie prerogative in termini di scelte urbanistiche. Due anni di dura lotta degli abitanti del quartiere hanno portato a una modifica dell’articolo 33 del cosiddetto Sblocca Italia, ma è stata una vittoria a metà; di fatto, anche da quando il sindaco Manfredi è stato nominato commissario per Bagnoli, le decisioni vengono prese in una cabina di regia in cui a decidere sono il capo del governo, un paio di ministri e solo dopo il sindaco, sotto il ricatto economico dell’elargizione dei fondi.

QUALE PARTECIPAZIONE?
Durante un recente incontro semi-pubblico alla Porta del Parco, Walter, lo stesso attivista che abbiamo lasciato in piazza a denunciare la latitanza delle istituzioni sulla crisi bradisismica, spiegava con chiarezza ai sub-commissari per la bonifica la posizione dell’assemblea: «Se fino a qualche anno fa potevamo accontentarci del Praru, perché recepiva le richieste della cittadinanza di un parco verde, di una spiaggia libera e gratuita, di un mare disinquinato, oggi che avete cambiato tutto rimangono solo le cose peggiori di quel piano, inaccettabile per gli abitanti del quartiere».

Al momento dell’approvazione di quel piano, sul sito di Napoli Monitor era uscito un articolo che metteva in guardia proprio su questo rischio. Il progetto, senza alcun reale finanziamento, blindava una serie di scelte discutibili (su tutte il porto turistico a ridosso di Nisida, presupposto per l’assalto finale all’isola che si appresta a diventare un resort per ricchi proprietari di yatch), lasciando grande incertezza su quelle più rispettose della volontà dei cittadini – vale la pena ricordare che i napoletani si erano espressi con tredicimila firme per una delibera di iniziativa popolare che prevedeva “due chilometri di spiaggia libera sul litorale che va da Nisida a Pozzuoli”.

A meno di dieci anni di distanza, e dopo il finanziamento dell’intera operazione con un miliardo e duecento milioni di euro, l’ente commissariale ha, invece: eliminato dal piano lo smantellamento di una colmata a mare fatta di cemento e scorie dello stabilimento, che resterà lì dov’è, vanificando il ripristino della morfologia della costa (aprendo la possibilità a future speculazioni edilizie a ridosso del litorale); smantellato l’idea di un parco verde così com’era stata elaborata fin dagli anni Novanta; anticipato a mezzo stampa la possibile costruzione di opere edilizie inutili, come un centro congressi, a solo beneficio di investitori privati.

Da circa tre anni, l’ente commissariale ha preso l’abitudine di convocare una cinquantina di cittadini per illustrargli i dettagli dell’avanzamento del piano. Queste riunioni avvengono ogni sei mesi, e a essere convocati sono solo i fortunati presenti in una mailing list, rigorosamente appartenenti ad associazioni, così che se un bagnolese “non associato” volesse avere notizie su quanto sta succedendo non ne avrebbe il diritto. Per un po’ di tempo l’ente ha millantato queste iniziative come un processo partecipativo, ma dopo i ripetuti attacchi degli abitanti che denunciavano questa pratica come l’antitesi della partecipazione, il direttore amministrativo dell’ente ha dovuto ammettere che “un commissariamento è per sua essenza qualcosa di lontanissimo dalle dinamiche di coinvolgimento dei cittadini”. Le riunioni, in effetti, vanno così: il direttore o uno dei sub-commissari illustra con una relazione gli avanzamenti; i cittadini prendono la parola ricordando tutte le cose che non tornano; gli amministratori incassano e, in alcuni casi, danno qualche risposta; volano parole grosse, accuse, qualche volta insulti; il tempo finisce e si torna tutti a casa, scontenti, in attesa della prossima pagliacciata. Peraltro, il commissario designato dal governo, il sindaco Manfredi, non si è mai degnato di partecipare a una di queste riunioni.

Per uno strano capriccio, la (s)fortuna ha voluto che parallelamente all’avvio – con trent’anni di ritardo – delle operazioni di bonifica e rigenerazione, il territorio fosse protagonista dell’escalation bradisismica di cui si è parlato. Nell’ultima “riunione informativa” è emersa in tutta la sua forza la preoccupazione, da parte degli abitanti, rispetto al tema delle edificazioni all’interno dell’ex area industriale: se un decreto governativo impone, infatti, lo stop alla costruzione di nuove volumetrie in un’area definita “ristretta” all’interno della zona rossa, è cosa curiosa come quest’area non copra la superficie del Sin, per cui il decreto di fatto non elimina la possibilità di costruire case, centri congressi, palazzetti per i concerti e tutte le altre opzioni attualmente in campo nell’area dell’ex fabbrica. Gli amministratori dell’ente hanno infine parlato di una “rimodulazione” delle volumetrie, facendo riferimento forse alla riduzione delle strutture a uso abitativo a beneficio di quelle destinate ai servizi. Sarebbe – ma anche su questo le informazioni ufficiali sono inesistenti – una scelta incomprensibile: da un lato si sostiene che in un territorio con questa forte configurazione vulcanica è pericoloso costruire, dall’altro si implica che costruire un centro commerciale o un ristorante è “un po’ meno pericoloso”; da un lato si evacuano le scuole a causa dell’emergere inaspettato di gas Co2, dall’altro non si mette in conto che fenomeni del genere possano presentarsi tra mesi o anni, rendendo pericolosa ogni tipo di struttura. Non è dato sapere, inoltre, dove andrebbero a finire i soldi stanziati e “avanzati”, qualora si scegliesse di trasformare le cubature residenziali in commerciali, facendo quindi una bonifica meno impegnativa e costosa.

UN LAVORO COLLETTIVO
Di solito, come detto, le “riunioni informative” si svolgono alla presenza di persone che a differenti livelli si mantengono informate rispetto a quanto sta accadendo: membri di associazioni o di gruppi di base, reti di abitanti – come quelli del borgo Coroglio – e delegati di ciò che resta dei partiti politici. Nell’ultima occasione, fuori alla Porta del Parco (una delle poche cose fatte in questi anni nel Sin, non a caso una edificazione con uffici, sale riunioni e un auditorium) si sono presentati una ventina di cittadini dell’assemblea popolare, che hanno preteso di essere presenti senza dover delegare nessuno.

Una delle cose più interessanti dell’assemblea è stata, in effetti, la modalità con cui si è riusciti a coinvolgere, partendo dalla preoccupazione rispetto all’attività sismica, abitanti che difficilmente prima d’ora si erano attivati in termini politici. Si è già detto del documento costruito insieme durante l’occupazione della municipalità; in seguito, donne e uomini giovani e meno giovani hanno trovato la voglia e la forza di “andare oltre”, di partecipare a cortei, intervenire in assemblee, stare in prima linea anche quando si è arrivati allo scontro con le forze dell’ordine.

Alessia, una di queste donne, spiega: «È come se, di fronte alla paura, in tanti avessimo capito che non si poteva delegare anche questa cosa a chi fa politica attiva, a chi protesta e prova a difendere i propri diritti ogni giorno. Dovevamo essere tutti presenti, ed è stato anche un modo per elaborare la perdita della casa, o continuare a vivere in un appartamento pieno di crepe».

Alessia fa parte della delegazione che nelle ultime settimane ha incontrato, uno dopo l’altro, svariati ministri, il sindaco, il prefetto, e due o tre assessori comunali. A ognuno di questi soggetti l’assemblea popolare ha da far notare qualcosa: al Comune, per esempio, l’insufficienza delle misure di supporto agli abitanti; al governo, lo stanziamento di una cifra ridicola per mettere in sicurezza gli edifici e avviare opere di miglioramento sismico, finalizzate a impedire lo svuotamento del quartiere. «È già accaduto in passato a Pozzuoli», spiega Marina, maestra in pensione. «Con le crisi bradisismiche del ’70 e dell’82 parte del paese fu svuotata per permettere la costruzione di insediamenti periferici come Monterusciello e il Rione Toiano. Uno degli obiettivi, oggi, è lasciare campo libero alla speculazione che potrebbe seguire la cosiddetta “rigenerazione urbana”».

Pochi giorni dopo aver incontrato il prefetto e il ministro Musumeci, una parte di quella delegazione di abitanti si è ritrovata in una casa di via Ovidio, nel centro del quartiere, una casa anch’essa piena di crepe, che la coppia che vi abita da anni è prossima a lasciare. Intanto, i quadri sono stati staccati dai muri e appoggiati per terra. Ce n’è uno di cyop&kaf, una foto che ritrae un Maradona molto giovane, una locandina della fiera eno-gastronomica autorganizzata di Milano, che il caso vuole si chiami “La Terra Trema”. Fortuna, Laura, Alessia, Lamberto e altri raccontano all’intervistatore l’esperienza dell’assemblea, ma anche il denso susseguirsi di eventi dell’ultimo mese di cui – lo dice Fortuna in dialetto – «forse non abbiamo capito niente manco noi».

Per essere il più fedele possibile alle loro parole, ho scelto di riportare alcuni estratti di quell’ora di confronto senza aggiungere filtri, facendo una sintesi e un montaggio che spero non alteri troppo le loro idee e il loro stato d’animo. Per evitare il rischio di romanticizzare il dramma (come è accaduto di frequente in questo mese tra reportage televisivi e una mezza dozzina di interviste alla scrittrice famosa che abita nel quartiere e che ne parla come del socialismo realizzato in terra, ma che non si è mai vista in piazza), ho deciso di non tracciare alcun profilo degli intervistati, né di attribuirgli questa o quella dichiarazione. Mi è sembrato il modo più appropriato per rendere la loro sostanza di soggetto collettivo, qualificandoli semplicemente per quello che sono: abitanti del quartiere.

«(La scossa del 13 marzo, nda) è stata come una bomba. E in tutta la mia storia di flegrea, ne ho sentite! So dirti la magnitudo e la profondità appena la sento. Ma di quella notte non ho percezione. Ho avuto la sensazione del vuoto d’aria, ho sentito la terra che veniva meno […] e il letto che non si fermava».

«Ieri per la prima volta ci siamo fermati, abbiamo pranzato insieme. Quella pizza è stata la cosa più bella… è come se si fosse formata una unione, una serenità che… è come si nun fosse succieso niente. Ognuno di noi porta la sua storia e in quel momento si è parlato di cose … non so spiegarlo… come ci stiamo muovendo, i punti che ci devono stare, le cose da chiedere… Era un’unione… ci rapportiamo, ci ascoltiamo, andiamo qua, andiamo là, senza che uno dice: tu hai sbagliato, quello ha fatto questo, quella quest’altro».

«Buttarmi nell’assemblea mi ha aiutato a superare la paura. Se fossimo rimasti soli saremmo più spaventati, avremmo preso decisioni avventate».

«La notte della scossa sono stata a viale Campi Flegrei, c’erano tante persone. Volevo stare vicina a casa e anche non lontana da casa dei miei. Poi sono andata a preparare il famoso “borsoncino” che da un po’ di tempo teniamo vicino alla porta, pronti a scappare».

«Mentre stavo correndo sono caduta a terra, mi è venuta una crisi epilettica. Mio marito e le persone per strada mi hanno aiutata. Ci è voluto un poco per riprendermi, mi hanno dato acqua e zucchero, una coperta e così mi sono messa a camminare verso il “58” (un parco residenziale, all’omonimo civico), dove si diceva che era caduto un palazzo. Stava con me mia nipote di quattordici anni. Mio marito e mia figlia non hanno voluto muoversi».

«La gente si era radunata fuori all’ex base Nato, ma questa volta ce n’era il doppio. Insieme a un centinaio di persone ci siamo messi a spingere il cancello per farlo aprire, perché i guardiani non ne volevano sapere. È stato brutto perché quelli stavano lavorando, ma noi avevamo bisogno di un posto, non potevamo stare per strada. Così lo abbiamo aperto con la forza e siamo entrati. Molti di noi siamo rimasti nei viali, dentro a un casotto che stava aperto abbiamo fatto mettere anziani e mamme coi bambini».

«Una volta dentro abbiamo protestato per far mettere il tendone della Protezione civile, dove per due o tre giorni c’è stata tanta gente. Io ci sono stata quattro notti. Ma ci stavano solo i tavolini e le sedie. Abbiamo dormito sul pavimento, sui materassini portati da noi o addirittura a terra».

«Io al tendone sulla Nato ci sono andata il giorno dopo, alcune persone mi sembravano sofferenti e gli ho detto: “Voi non potete stare qua, venite a farvi una doccia a casa mia, provate a rilassarvi un attimo, vi faccio delle lavatrici, lavate la biancheria”».

«Io sono un geologo, mi sono trovato in prima linea per la mia professione. Da ragazzo avevo fatto politica col Pci. Io sono di Catanzaro, città con molti fascisti, non era facile. In questi giorni ho partecipato all’assemblea popolare, mi sembrava utile dare elementi, precisazioni, finché poi tutti mi hanno cominciato a dire: “Quando parliamo con questo o con quello tu ci devi stare, ci puoi dare le indicazioni utili, i dettagli scientifici, eccetera”».

«Ho cominciato a frequentare il tendone per aiutare. Poi ho capito che potevo essere utile all’assemblea anche in altro modo e ora sono una delle più attive. Questo mi ha aiutato a superare la paura. La notte della scossa viale Campi Flegrei era pieno di gente ma c’era un silenzio irreale».

«La gente sta andando via dal quartiere. L’assenza delle istituzioni fa più paura della scossa. Il contributo all’affitto è insufficiente e ora ci cacceranno pure dagli alberghi».

«Io ero in un buco, stavo nel mio mondo. Non uscivo, ero sempre sola. Devo ringraziare tutti quanti, mi hanno fatto riscoprire la me di una volta, quella che non esisteva più. Quando passavo davanti a Villa Medusa, dicevo: “Com’è bello, vorrei proprio entrare, stare in mezzo a tutta questa gente”, però non tenevo mai il coraggio, anche se poi alla fine questo è il mio mondo, dove la gente parla, uno dice la sua, con un bicchiere di vino, ci si ascolta. Questo nella vita non succede, la gente non è così».

«Sto imparando tanto. Provo a metterci il mio pezzetto, ma è una cosa che sul lavoro per esempio non trovi mai, e nemmeno nella riunione di condominio. Questa cosa mi ha stupito, che ognuno ci mette una cosa e si impara, insieme si migliora. Una cosa negativa? L’assenza di puntualità (ride). Se ti dicono alle undici non ti presentare mai prima di mezzogiorno!».

«Quando mi hanno detto di stare nella delegazione per parlare col ministro ho detto: “Secondo me hanno sbagliato persona!”. Io non so parlare, non so le cose tecniche… Però se devo dire una cosa, tra tante persone presenti, quelli guardavano sempre a me e Maria. Io tengo la quinta elementare, e quelli guardavano a me! In noi vedevano “il popolino”, per loro era assurdo che davanti al ministro avevano portato a me. E invece il gruppo ha pensato che nella mia ignoranza io potevo portare la parola di Bagnoli».

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