Detenzioni, suicidi e rimpatri. I cittadini tunisini nelle carceri italiane

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Detenzioni, suicidi e rimpatri. I cittadini tunisini nelle carceri italiane
(disegno di cyop&kaf)

Al 31 maggio, i detenuti in Italia erano 62.722, a fronte di una capienza regolamentare di 51.285 posti, con un tasso di sovraffollamento del 134,29 per cento (4.579 posti sono tra l’altro indisponibili per inagibilità). Le condizioni disumane delle persone che vivono in detenzione sono ormai note a tutti: celle sovraffollate, mancanza di accesso regolare alle cure mediche e psicologiche, assenza di mediatori culturali. Per i detenuti stranieri, le barriere linguistiche e giuridiche aumentano l’isolamento e la vulnerabilità.

Nel 2024 sono morte duecento quarantotto persone in carcere, per suicidio, malattia, overdose, incuria o violenza. In molti casi, si tratta di morti annunciate, frutto di una sanità penitenziaria al collasso e di una gestione che disattende le norme costituzionali e internazionali in materia di diritti umani.

Tra queste morti, novantuno riguardano detenuti che si sono tolti la vita, superando il precedente picco del 2022 (ottantaquattro suicidi). Dietro queste cifre si cela una realtà di disperazione, isolamento e abbandono che colpisce le persone rinchiuse dietro le sbarre. Tra le vittime, almeno quaranta erano detenuti stranieri, dieci dei quali di origine tunisina, una comunità particolarmente vulnerabile nel sistema penitenziario italiano. Nei primi sei mesi del 2025, quattro cittadini tunisini sono morti in carcere.

Secondo dati raccolti e confermati dall’ex deputato tunisino Majdi Karbai, i quattordici tunisini morti in carcere nell’ultimo anno e mezzo erano per lo più giovani arrestati per reati minori, intrappolati in strutture sovraffollate e fatiscenti. Un caso emblematico è quello di un giovane di ventisette anni deceduto nel carcere di Piacenza, la cui morte, come tante altre, resta avvolta nel silenzio e nella mancata trasparenza, alimentando dubbi e sospetti tra i familiari.

Per gli islamici praticanti, ma anche per chi non riesce a professare la propria fede in maniera piena anche in un paese straniero (cosa tutt’altro che scontata), il suicidio è un atto assai grave, profondamente inaccettabile. Il Corano, d’altronde, come altri testi sacri, condanna apertamente l’autosottrazione della vita:

 “O voi che credete, non uccidete voi stessi. In verità, Allah è misericordioso verso di voi” (Sura An-Nisa 4:29).

“E non gettatevi con le vostre mani nella distruzione” (Sura Al-Baqara 2:195).

Se la violenza istituzionale all’interno degli istituti non risparmia nessuno, è vero che le comunità migranti sono spesso le più vulnerabili, dal momento che molti detenuti non hanno alcuna possibilità di far valere le proprie ragioni nell’unico modo possibile agli altri: quello giudiziario.

Nel 2023, nel carcere di Reggio Emilia, un detenuto tunisino è stato incappucciato, denudato e picchiato a lungo da dieci agenti penitenziari. Nonostante la presenza di immagini video inequivocabili, il processo di primo grado si è concluso a febbraio 2025 con condanne per abuso d’autorità e percosse aggravate, ma non per tortura. Le parti civili, tra cui l’associazione Yairaiha di cui chi scrive fa parte, e la Procura della Repubblica, hanno fatto ricorso in appello.

Diverso l’esito del caso San Gimignano, dove, con sentenza definitiva nel 2025, la Corte d’Appello di Firenze ha riconosciuto la tortura inflitta nel 2018 da quindici agenti a un detenuto tunisino. È una delle rare sentenze in cui la legge italiana sulla tortura, approvata nel 2017, è stata applicata in modo pieno.

Le carceri, tuttavia, non sono l’unico volto della detenzione in Italia. I Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR), di cui questo giornale si è spesso occupato (per esempio qui e qui), rappresentano una zona grigia e opaca dove i diritti fondamentali vengono sistematicamente annientati. Si tratta di luoghi disumani assimilabili a veri e propri lager amministrativi, dove le persone sono trattenute senza aver commesso reati. Le condizioni sono degradanti, con limitatissimo accesso a cure mediche, supporto legale o mediazione linguistica, in attesa del rimpatrio.

Negli ultimi anni, l’Italia ha siglato con la Tunisia un accordo di cooperazione che prevede due voli charter settimanali di rimpatrio. Ogni volo può trasportare da venti a quaranta persone, ciascuna accompagnata da agenti di scorta. Si tratta di operazioni silenziose, spesso eseguite all’alba, senza un’adeguata informazione giuridica e in assenza di un effettivo diritto alla difesa. Nel 2023, il sessantasei per cento dei voli di rimpatrio (settanta su centosei) sono stati destinati alla Tunisia, per un totale di 2.006 cittadini tunisini deportati, su un totale di 2.506 persone rimpatriate.

Dal canto suo, la Tunisia promuove quella che definisce “politica di ritorno volontario”, ma la realtà è più sfumata. Secondo il Ministero dell’Interno tunisino e secondo fonti stampa, 3.400 migranti irregolari sono stati rimpatriati volontariamente nel 2025. Numerose Ong denunciano tuttavia che molti di questi rimpatri avvengono sotto pressione, senza un vero consenso informato né assistenza giuridica, e con la minaccia di detenzione per chi rifiuta il ritorno.

Emblematico, in questo contesto, è il caso di Wissem Ben Abdel Latif, giovane tunisino di ventisei anni morto il 28 novembre 2021 dopo essere stato legato mani e piedi per oltre cento ore in un letto dell’ospedale San Camillo di Roma, dove era stato ricoverato per disagio psichico dopo un periodo nel Cpr di Ponte Galeria.

Wissem era arrivato a Lampedusa a ottobre, con il sogno di raggiungere lo zio in Francia. Durante la sua detenzione, aveva iniziato a manifestare segnali evidenti di sofferenza mentale, ignorati dalle autorità. Nonostante una sentenza del giudice di pace che il 24 novembre aveva disposto la revoca del trattenimento, Wissem non fu mai informato della sua liberazione. Morì pochi giorni dopo, sedato e immobilizzato, senza che nessuno lo assistesse o tutelasse. La sua morte è una ferita aperta che chiama in causa l’intero sistema di gestione della detenzione migrante in Italia.

La totale assenza dello stato tunisino in queste vicende aggrava ulteriormente il quadro: né il ministero degli esteri né le rappresentanze consolari si costituiscono parte civile, né offrono assistenza concreta ai familiari delle vittime. È lasciato alle associazioni e ai comitati di lotta il compito di affiancare le famiglie, portare avanti battaglie legali e tenere viva la memoria delle persone uccise dal silenzio e dall’abbandono; chi sopravvive, intanto, dopo essere partito con il sogno di aiutare i propri familiari in patria, non di rado è costretto a tornare al proprio paese sopportando un fardello di vergogna e senso di colpa.

La realtà dei rimpatri è quindi fortemente legata alle tragedie delle morti in mare, dei suicidi in carcere, delle torture nei centri di detenzione amministrativa, seguendo il filo rosso di una politica che punta alla rimozione del problema e all’invisibilità delle sue vittime. Ma ogni deportazione lascia una traccia nei corpi, nelle memorie, nelle storie spezzate.

Queste morti, infatti, non sono inevitabili: sono il prodotto di scelte politiche, di inazione, di un sistema che criminalizza la povertà e la provenienza. Chi si toglie la vita, spesso non lo fa per scelta, ma per disperazione e invisibilità. Chi muore per incuria o per le botte, è vittima di uno Stato che ha smesso di guardare ai diritti come fondamento della giustizia.

El haqq ma ydi’s and Rabbi
Man yadus ala karamat ghayrih, sa ya thur yawman bi qadarih

حلمة كانت في بالي، والواقع صحان ي نحاول نطي ر بجناحي، لكن الريح كسرتني  نعيش في دنيا قاسية، والفرحة نسيتن ي

Un sogno era nella mia mente, ma la realtà mi ha svegliato.
Cerco di volare con le mie ali, ma il vento mi ha spezzato.
Vivo in un mondo duro, e la felicità mi ha dimenticato.
Balti  “7elma” (حلمة Sogno)

(luna casarotti – yairaiha ets)

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