Evasione impossibile. Le morti silenziose per inalazione di gas in carcere

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Evasione impossibile. Le morti silenziose per inalazione di gas in carcere
(disegno di cyop&kaf)

Un’altra bomboletta. Un altro corpo.
Non c’era più ossigeno in cella, ma ce n’era abbastanza
per bruciare un’altra vita nel silenzio dell’indifferenza.
La libertà non è sempre oltre il muro,
a volte è nascosta dietro una valvola, dentro una boccata.

Il giudice sfoglia il codice penale, il ministro pronuncia slogan in conferenza stampa, ognuno ha la sua parte nel teatro della legalità. La pena ha la sua cornice, la colpa la sua misura, l’espiazione il suo recinto. Ma appena cala il sipario pochi metri di cemento, un bagno alla turca, un tavolino inchiodato al pavimento, spazi inospitali, finestre sbarrate e ambienti privi di aerazione. In questo spazio claustrofobico, privo di aria e di orizzonti, un uomo inala gas da campeggio per non sentire più il peso della sua esistenza.

Quel gas arriva da una bomboletta acquistata tramite il “sopravvitto”, l’elenco dei prodotti ufficialmente disponibili in carcere. È lo stesso articolo che si trova accanto ai fornelli da picnic nei supermercati. Sull’etichetta una raccomandazione chiara: “Usare solo in ambienti ben ventilati” (la cella è un bozzolo di tre metri per quattro con la finestra “sigillata”). Si censura una lettera, si vieta un accendino, ma il butano industriale è autorizzato. La bomboletta è legale, viene richiesta col modello 72, un modulo con cui ogni detenuto può acquistare, a proprie spese, prodotti extra rispetto alla dotazione di base fornita dallo Stato. È un foglio semplice, da compilare a penna, con il numero di matricola, i codici degli articoli richiesti, la quantità desiderata e la firma. Una volta ordinata, la bomboletta viene custodita in armadietti chiusi a chiave, sotto il controllo degli agenti. Quando finisce, si restituisce e se ne prende un’altra. Tutto tracciato.

Eppure “tirarsi il gas”, inalare il butano per evadere non fisicamente ma mentalmente, è una pratica che tutti conoscono ma nessuno affronta, perché cambiare la sceneggiatura significherebbe ammettere che c’è un problema. L’effetto? Un blackout chimico: euforia, vertigini, battito irregolare, labbra anestetizzate, cervello in tilt. Per qualche minuto non c’è più il muro, la cella, la pena. Solo un vuoto ovattato dove la coscienza galleggia o affonda. Per alcuni è tregua, per altri fuga, per altri ancora un addio. Nessuno lo chiama con il suo nome di “evasione tossica” ma dentro c’è chi cerca pace, chi l’oblio, chi non vuole più tornare da quel viaggio. Se non si può evadere con il corpo, ci si dissolve con la chimica, e se non torni non è quasi mai suicidio, ma un “evento imprevedibile”.

Tutto questo avviene nel pieno rispetto delle norme. Il modello 72 continua a offrire bombolette. Basterebbe poco per cambiare: una circolare, una revisione del catalogo, una scelta più sensata. Le piastre elettriche? Troppo costose, troppo complicato adeguare gli impianti, dicono. Si potrebbe optare per altre bombole e fornelli, con dispositivi atti a limitarne l’uso improprio. Ma nemmeno questo si fa. Costa sicuramente meno lasciare tutto com’è, e anche le ditte che gestiscono il sopravvitto hanno il loro tornaconto. Offrire soluzioni più sicure significherebbe investire in alternative meno redditizie. E poi aumentano i prezzi, i detenuti protestano, non per capriccio, ma perché molti non hanno soldi, non ricevono pacchi, non fanno colloqui, non hanno familiari su cui contare. In carcere anche pochi centesimi fanno la differenza. E allora, per evitare il problema, si sceglie di non cambiare nulla. Del resto, già la carta igienica, lì dentro, sembra un bene di lusso: la paghi come seta, ma gratta come carta vetrata. Così, la bomboletta resta l’unica opzione disponibile, utile per cucinare o per staccare la spina, a seconda dell’umore.

E gli psichiatri? Parlano, ma nessuno li ascolta. Già nel 2019, la Rivista di Psichiatria denunciava l’inadeguatezza dello Stato nel contrastare l’abuso di bombolette in carcere, spesso legato ad atti autolesivi o suicidi. Le morti per inalazione non vengono sempre classificate come suicidi: restano escluse dalle statistiche ufficiali, senza indagini né responsabilità attribuite. Questa contraddizione è grave e preoccupante. Secondo la medicina legale, l’inalazione volontaria di gas con esito fatale è a tutti gli effetti un suicidio, rientrando nella categoria delle asfissie chimiche volontarie. In questi casi, il protocollo medico-legale prevede accertamenti rigorosi: autopsia completa, analisi tossicologiche, ricostruzione della dinamica e valutazione del contesto psicologico. In carcere tutto questo dovrebbe essere obbligatorio, poiché la privazione della libertà impone allo Stato una responsabilità sulla vita e sull’incolumità del detenuto. Tuttavia, l’amministrazione penitenziaria adotta un approccio incerto: se manca una prova esplicita dell’intento suicidario, il decesso viene spesso classificato come “evento accidentale” o “causa da accertare”. Lo stesso gesto, inalare gas con un sacchetto di nylon, può essere interpretato come uso improprio per alterare lo stato di coscienza e non necessariamente come suicidio. Questo porta a sottovalutare il gesto, a non attivare protocolli di prevenzione e a ignorare il contesto psichiatrico.

Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, nella sua relazione del 15 dicembre 2024, ha evidenziato come diversi decessi in carcere per inalazione di gas siano stati classificati come “cause da accertare” proprio per questa ambiguità interpretativa. Il risultato è che alcune morti restano fuori dal conteggio ufficiale, rendendo più opaca l’analisi del fenomeno. Ma sebbene la morte per inalazione sia formalmente un suicidio, la responsabilità non può ricadere esclusivamente sul detenuto. Lo Stato, fornendo nelle celle bombole di gas butano (prodotto potenzialmente letale) e non adottando protocolli sanitari e di prevenzione adeguati, contribuisce a creare le condizioni che favoriscono queste tragedie. Inoltre il suicidio in carcere non è mai un atto isolato o imprevedibile, ma spesso il risultato di un sistema che non interviene efficacemente. Gli esperti lo dicono con chiarezza: non basta autorizzare un prodotto, quando potenzialmente letale. Serve una valutazione clinica costante, multidisciplinare, attenta al percorso psichico della persona, non solo momentaneo. Serve sapere chi lo richiede, perché e in che condizione psicologica. Serve uno sguardo clinico. Ma manca.

La storia di Fabio Romagnoli lo dimostra. Aveva già tentato varie volte il suicidio. Era affetto da disturbi psichiatrici documentati. La sua fragilità era nota. Gli fu tolta la bomboletta, poi riconsegnata dopo una valutazione che non ha saputo o potuto cogliere il disegno più ampio. Così il suo gesto, per il sistema “imprevedibile”, si è compiuto: eppure lo Stato distribuisce gas butano in celle prive di ventilazione, senza protocolli sanitari adeguati, con medici insufficienti. Vietato negli ospedali, sconsigliato nelle case, il butano diventa compatibile con l’ambiente carcerario. Gesto imprevedibile, dicono. 

In questo contesto la salute mentale è secondaria e la dignità uno slogan. Dopo ogni tragedia si invocano ispezioni, si esprimono cordogli, poi si archivia tutto e si continua a morire in silenzio: per un colpo di gas, un cappio improvvisato, una psicosi lasciata marcire, un abbandono medico travestito da fatalità. Tutti vedono ma nessuno ascolta, al massimo si verbalizza. Eppure in Italia si può morire così, inalando gas in un luogo dove già respirare è difficile, un prodotto pensato per l’escursionismo e divenuto parte dell’arredo carcerario, un veicolo di fuga, non verso un prato o una montagna, ma verso l’oblio. Una fragranza sintetica che non sa di libertà, ma la imita, come un profumo contraffatto. Perché anche l’aria dietro le sbarre può avere il sapore della burocrazia. (luna casarotti – yairaiha ets)

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