Farsi scemi per non andare in guerra

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Farsi scemi per non andare in guerra
(dipinto di rosario vicidomini)

Dal numero 5 (novembre 2020) de Lo stato delle città

[le mani avanti]
Se è vero – Camus c’insegna – che l’unico problema filosofico serio è quello del suicidio, confesso, non senza difficoltà, che la vita mi ha costretto a pensarci molto presto: due volte mia madre ci ha provato, e tutte e due le volte ero presente. La prima urlando mentre una gamba era già fuori dal balcone, al quarto piano di una palazzina tirata su in fretta e furia dopo terremoti e bradisismi degli anni ottanta. L’ho dovuta strattonare dentro con tutte le forze che mi potevano concedere i miei esili dodici anni. La seconda, pochi anni dopo – rientravo fradicio da una sequenza ininterrotta di partite di calcio stradali – l’ho trovata svenuta e con la schiuma alla bocca nella vasca da bagno. Aveva preso dei medicinali per scapparsene da una situazione che ai suoi occhi non aveva altra via d’uscita. Ero un po’ più grande stavolta, l’ho presa a schiaffi per farla riprendere quel tanto che ci avrebbe consentito di trasportarla velocemente in ospedale. Tutto questo, dopo poco, sarebbe servito a dare un taglio netto a una guerra domestica, neanche tanto silente, in corso da ormai più di un decennio.

[prendere le misure]
La prima volta che entro nel Centro arrivo con un quarto d’ora di anticipo. Faccio un giro nelle sale, cammino lentamente osservando le fotografie attaccate con nastro biadesivo su rettangoli di sughero consumato ai margini. Sono quasi sempre foto di gruppo scattate durante le uscite organizzate nel corso degli anni: grigliate, musei, agriturismi, litorali. Una donna mi colpisce in particolare, fotografata guarda sempre in camera, quasi volesse penetrare col suo sguardo l’obiettivo e impressionare la pellicola con tutte le sue forze, cuoce salsicce.

C’è un solo uomo presente in sala mentre cerco di capire in che luogo dovrò lavorare da lì all’estate prossima. Si chiama Ciro, mi ignora, è intento ad abbracciare la ghisa di un termosifone. Scoprirò presto che ha passato più di metà della sua vita a disossare bestie nelle celle frigorifere dei reparti carni nei supermercati della zona. Fino a quando non ce l’ha fatta più e ha smesso, rifiutando il lavoro e la vita in un colpo solo, richiudendosi in un silenzio interrotto di rado da una voce arresa prima che flebile. La sensazione che viva in un tempo fuori di sesto lo accomuna alle altre vite che attraversano il Centro. Penso a Vittoria, che non ha saputo reggere a un matrimonio-deportazione (si è dovuta trasferire ai margini di una grande città a lei ignota) e alla nascita di due figli. La somma di questi eventi (e chi sa quali altri) l’ha coricata in una depressione che a lungo andare ha portato alla rottura del suo matrimonio. È ritornata in casa con sua madre e sua sorella e va girando sempre con due valige pronte perché, dice – mio marito potrebbe rivolermi a casa da un momento all’altro, e i miei figli m’aspettano.

[vicinanze]
Avevo sfiorato uno di questi centri pochi anni prima, dopo che per una intera estate, a ogni tornante a piombo sul mare smeraldo della Costiera andavo pensando: mi butto. La tentazione era forte quanto la disperazione, ricostruivo nel nastro di moebius dei miei pensieri la stessa prigionia che anni addietro aveva dovuto togliere il fiato a mia madre. Passo dal medico di base, gli piango le mie motivazioni e lui mi scrive una richiesta per otto incontri con la psicoterapeuta dell’unità operativa di salute mentale di zona. Lì ha sede anche uno di questi centri diurni. Durante i tempi morti della sala d’attesa mi soffermavo a osservare dal balcone le persone che ne frequentavano il cortile. Ero fragile, e quelle figure mi spaventavano, perché sentivo che sarei potuto arrivare a quello stesso camminare a vuoto nel giro di poco tempo. Più avanti avrei letto queste parole: Sono i corpi a scrivere i testi più interessanti sulla follia, sulla cultura in cui viviamo, e su di noi. Il corpo folle rifugge dal controllo, inventa stranezza, si inarca, secerne, preme, ha fame, avvolge, assale.

[il lavoro]
Dalla direttrice ricevo poche ma precise istruzioni, discorsi che ho già sentito altrove: non strafare, chiedere prima di intraprendere, la giusta distanza e simili. Mi viene consegnata una tessera magnetica. Accolgo stupito il verbo “beggiare” nel mio vocabolario, in entrata e in uscita. È la prima volta che ho un lavoro vero, con turni, colleghi, foglio firme e macchinetta del caffè in cialde. Le mie ore dovranno essere impiegate per lavorare con le immagini. Partiamo dal disegno libero e poi via via fissiamo degli obiettivi minimi: fare una piccola esposizione, dipingere il muro di una sala, inventarsi un fumetto.

Per stringere un legame e cominciare a conoscerci propongo di realizzare degli ex-voto dipinti, gli racconto che nelle chiese delle città di mare le tavolette votive legate ai salvataggi delle imbarcazioni travolte dalla tempesta sono tra le più numerose, porto dei libri che ne raccolgono le immagini, progettiamo anche un’uscita al Santuario della Madonna dell’Arco che ne è zeppo, ma non riusciremo a farla. In questo modo ognuno deve tirare fuori un episodio turbolento della propria vita dal quale sente di essere uscito indenne. Realizziamo le prime versioni su dei fogli di carta artigianale realizzata in un precedente laboratorio: è fatta tritando, spugnando e poi pestando le scatolette degli psicofarmaci che lì dentro abbondano. A un occhio attento non sfuggono piccoli caratteri riemersi dalle misteriose indicazioni dei bugiardini.

Patrizia divide sempre l’immagine in due, la scritta in alto chiarisce il perché: “la mia difficoltà / la mia risposta”. A sinistra mette lei o qualcuno dei suoi cari allettato, stesi da qualche malattia, a destra, in uno spazio più ampio, il suo invocare il cielo ma anche una forza che sente nascosta dentro sé stessa. Mani al cielo e i piedi ben piantati a terra.

Vittoria, la donna-valigia, evoca ancora e ancora la sua storia matrimoniale, gravidanze difficili, un esotico viaggio di nozze, definisce “un malore” quello che a ventitré anni sembra aver preso il controllo della sua vita.

E poi c’è Pino, trentacinque anni, scrive male ma fa rap, è dislessico ma inventa libri, ha una immaginazione fertile, disegna con accuratezza ma sempre con una certa dose di distacco. Mi viene descritto in una maniera che non trova nessuna corrispondenza con quanto vedo con i miei occhi. Ho l’impressione costante che gran parte degli operatori del Centro fuggano da qualsiasi tipo di contatto. Quando non di aperta derisione l’atteggiamento generale è quello di rifugiarsi in una trincea di inespugnabile formalità, un fossato nel quale confondere distanza e professionalità. La repulsione per i corpi è appena celata. Quando Gianni parla spesso sputa, è vero. Molti, agli estremi delle labbra, hanno un impasto di tabacco, cibo e saliva, anche questo è vero. Eppure, sbirciando appena dietro le singole storie, emergono chiare miseria e violenza, brodo di coltura di una inevitabile follia che altro non è che scarto di produzione di un territorio marginalizzato.

[il cerchio]
Una mattina di fine inverno arriva una giovane dottoressa. Propone, per favorire ascolto e dialogo, di metterci in cerchio. Poi, partendo da eventi minimi accaduti nel Centro – ma anche da una semplice canzone – lascia parlare i presenti, cercando di fare attenzione a che nessuno interrompa l’altro, osservando le posture, le modalità relazionali, le intolleranze, lasciando fluire il tutto senza giudicare, anzi, prestando bene ascolto e analizzando con la dovuta calma i racconti (ma anche i silenzi e le insofferenze) di ciascuno dei presenti. Gli altri operatori la guardano come se fosse anche lei da curare, boicottano in gruppo. Eppure, se una cura è possibile, non può che scaturire dal confronto aperto tra esperienze, dalla scoperta che ogni vissuto è sì così diverso da un altro, ma pure molto simile. Fatto sta che le prime volte sono l’unico seduto insieme agli altri, ma ho dalla mia che sono nuovo e posso muovermi come se la mia fosse ingenuità. Più avanti altri operatori, anche se svogliatamente, mi seguiranno, ma resterò purtroppo il solo, insieme alla dottoressa, a portare il proprio specifico vissuto nel gruppo.

[questo siamo]
Titta è variopinta, usa truccarsi con estro, palpebre spruzzate di colori diversi, rossetti acidi. E deve pescare dall’armadio le cose che indossa così come gli capitano, generando chi sa quanto involontariamente una radiosità che stride con le sue risate, tanto acute da contenere il pianto. Racconta in continuazione di suo marito e di un suo fantomatico amante che vorrebbe raggiungerla ma invece è bloccato da un brutto incidente che gli ha spaccato le gambe.

Gianni è enorme, cammina barcollando, entra ed esce dal Cerchio comandato dalle sue smanie. È lì dentro da trent’anni e dice che non ne può più dei pinnoli. Racconta che prima nel Centro cucinavano loro, era un bel momento di condivisione. Poi anche questo servizio è stato esternalizzato e adesso arrivano pasti pronti in inutili quintali di imballaggi. Spesso, più che in un luogo di cura ci si sente stretti tra il martello della carità e l’incudine degli affari.

Rosalba quando entra nel Cerchio lo fa sempre in ritardo, raramente si siede, dice che preferisce stare in piedi. Vive nelle palazzine più cupe del rione, e ne parla la lingua, solo lievemente rallentata da anni di terapie farmacologiche. Certe vocali si allungano sul finale restando sospese a mezz’aria con i suoi interlocutori. Ride e si abbatte in continuazione, come tutti.

Patrizia era apprendista parrucchiera, poi un diverbio col capo e una rottura col fidanzato l’hanno trascinata in un abisso durato tre anni. Adesso che faticosamente ne sta uscendo ha un sorriso benevolo che contagia. Ha ancora paura di riprendere il lavoro. Le suggerisco di ripartire dal luogo nel quale si trova: potrebbe riprendere la mano tagliando i capelli agli altri frequentatori del Centro.

Un ragazzo giovanissimo – scopro che ha venticinque anni – siede sempre con noi, si chiama Marco, non parla mai, fissa un imprecisato punto dello spazio, di tanto in tanto scuote la testa. Con il passare delle settimane una sopraggiunta familiarità sembra però smuovere qualcosa. Comincia a raccontare di quando lavorava in un supermercato come scaffalista, per sessanta euro a settimana, tredici ore al giorno; della sua convivenza con lo zio: dividono lo spazio esiguo di una casa che gli prosciuga più della metà di una pensione ridicola, senza neanche il privilegio dell’acqua calda.

Pino, il rapper, a sua volta racconta che da adolescente ha lavorato due anni in un’officina, prendeva ventimila lire a settimana. Ha scoperto solo anni dopo che i soldi al meccanico li dava sua madre.

Sasà è un ex rapinatore. Ha l’occhio dilatato dalle terapie, vigile in apparenza. Altalena il corpo sulla sedia. Di norma è silenzioso, poi ha vomitato il suo racconto in una volta sola: «Mia madre aveva dodici figli, sei con un marito e sei con mio padre. Lui è morto quando ero piccolissimo, mi avrebbe messo in riga, invece nell’ottanta, quando avevo dieci anni, andavo a vedere i contrabbandieri come scaricavano gli scafi pieni di sigarette, mi affascinavano. Dopo poco con gli amici del quartiere ho cominciato con gli stereo, poi gli scippi, i furti e le rapine. Era una sfida con me stesso, se non ci riuscivo mi dicevo: ma che cazzo, neanche una rapina sai fare? Non sei buono a niente! Eravamo cani da caccia, annusavamo le situazioni migliori soppesando in un attimo rischi e guadagni. Per me era un vero e proprio lavoro. Però non rapinavamo mai i pensionati, solo supermercati, pompe di benzina, tabaccai. Non facevamo male a nessuno, prendevamo i soldi dove c’erano i soldi. Sapessi come mi dispiaceva se in un supermercato c’era una donna incinta! Spesso assaltavamo i caselli dell’autostrada, uno per uno prendevamo i soldi da tutti, e poi scappavamo con le auto truccate, la polizia provava a inseguirci, ma andavamo troppo veloce».

«Poi mi hanno arrestato, in totale mi sono fatto venti anni di carcere. La maggior parte di quelli della mia banda sono morti. Una volta un amico mi chiese di accompagnarlo a rapinare un benzinaio sul Viale. Lo uccisero, menomale che non andai, altrimenti non sarei qui adesso. Ah, se ci fosse stato mio padre!».

Oscilla ancora mentre conclude dicendo che adesso, però, è una brava persona.

Marco aggiunge che quando uno non è servito dai genitori è normale che va a finire su una brutta strada.

«Perché tuo padre non ti viene a trovare?», chiede Rosalba.

Marco dice che non lo vede da otto anni, cioè da quando frequenta il Centro, è agli arresti domiciliari a cento metri da casa sua.

Rosalba lo interrompe rivolgendosi al resto del Cerchio: «Teneva quella bella mamma questo ragazzo! Se si stavano più attenti in quella stanza non si sarebbe buttata giù. Eccola (indica una foto), arrostiva le salsicce, ma che bella femmina, e che stile, guarda là quant’è bella (lo ripete più volte)».

Solo ora dai fili intravedo una trama. E mi viene da pensare che forse già sapeva che non ce l’avrebbe fatta. Per questo cercava di impressionarsi nella pellicola guardando fisso in camera. Come a lasciar traccia di sé, anche fuori dal corpo tatuato di suo figlio Marco, che fa finta di niente e salta una voragine di silenzio continuando: «Ho rischiato la galera, avevo iniziato a fare casini, ma mia mamma stava al San Gennaro in Tso, mio padre carcerato, e il giudice me la fece buona. La polizia mi picchiava un giorno sì e uno no per farmi capire che dovevo smettere, così mi sono calmato. Ma guarda che è brutto eh, un padre che non ti segue, non ci sta lavoro, non sai più quello che devi fare, e per non sbagliare – mi avrebbero messo a vendere la droga o a fare rapine – mi sono messo in mano ai medici».

Più o meno, penso, come farsi scemi per non andare in guerra.

[epilogo]
Parlo con la direttrice dell’idea di far riprendere il lavoro a Patrizia, penso che sarebbe una buona occasione per lei e un momento utile e divertente per tutti gli altri. Eppure, non senza astio, mi viene chiesto di non illudere gli utenti con promesse che non possiamo mantenere, che ci sono norme igieniche da rispettare, che avrei dovuto chiedere prima a lei, che, insomma, la cosa non s’ha da fare. (-rc)

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