Generazioni in corteo a Roma. Dal 1991 al 4 ottobre per Gaza

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Generazioni in corteo a Roma. Dal 1991 al 4 ottobre per Gaza

Sabato 4 ottobre. Come tanti e tante, più di un milione, ero a Roma a manifestare la mia solidarietà al popolo palestinese. Non solo alle donne e ai bambini palestinesi massacrati a Gaza dal 7 ottobre 2023. Non solo ai civili innocenti. Ero a Roma, in quell’enorme corteo, provenendo da una storia, da una genealogia di movimenti che, dai primi anni Novanta, mi ha permesso di attraversare fasi e contesti diversi, a partire dalle mobilitazioni contro la prima Guerra del Golfo nel 1991. La prima guerra in diretta televisiva, quel conflitto capitombolato nell’immaginario collettivo alla fine del Secolo Breve. Al tramonto di un periodo durante il quale le guerre accadevano soltanto in uno spazio/tempo assai lontano da noi. La guerra non ci apparteneva nel quotidiano. Quell’anno invece la guerra in Italia non è stata più fredda (quindi non dichiarata, fatta di bombe, Gladio et similia), da quando gli aviatori Bellini e Cocciolone (“pam pam gran pilota d’aviazion”, cantavano gli Onda Rossa Posse) furono abbattuti con il loro caccia Tornado dalla mortificata contraerea irachena. I due furono le pecore nere della macchina da guerra occidentale che, finalmente libera da lacci e lacciuoli della deterrenza, poteva manifestare la propria potenza militare. Prigionieri. Visi malconci su corpi sofferenti in uniforme. Carne da macello postmoderna velocemente dimenticata.

Ecco. Il 12 gennaio 1991, qualche giorno prima che Cocciolone e Bellini venissero abbattuti, residui del movimento pacifista (Comiso/euromissili), forme epigonali di una stagione ormai tramontata (Autonomia/Coordinamento antinucleare antimperialista), frattaglie di un quadro politico in via di estinzione (Democrazia proletaria) e nuove forme di movimento (centri sociali in embrione, movimento studentesco post-Pantera) dettero vita a una grande manifestazione nazionale a Roma. Contro la guerra. Per la pace. Lo stesso giorno in cui il congresso Usa autorizzava l’inizio della Tempesta nel deserto. Le stesse ore in cui in Italia moriva lo scrittore Vasco Pratolini. In quel giorno di gennaio si rimescolarono molte carte della nostra storia contemporanea. Ma ciò che ci interessa qui sono le 200 mila persone che quel giorno animarono un corteo sorprendente (per tanti motivi). Una mobilitazione che non si vedeva da più di un decennio ai tempi. Che ripropose l’attualità di un passato che non passava e non è ancora passato.

Ecco, quel corteo fu un corteo di massa. Un momento di incontro tra generazioni diverse. Quelle che ancora subivano un riflusso micidiale. E quelle che si affacciavano in un panorama politico sconosciuto. Le prime portatrici di pratiche, parole, simboli assai pesanti e (probabilmente) irripetibili, le seconde che provavano a costruire un viatico di incontro, ricomposizione, risignificazione. Nello stesso quadrante urbano di sabato 4 ottobre 2025 (San Giovanni, via Labicana, Esquilino) si verificarono scontri, tumulti tra autonomi e polizia. Inizio anni Novanta. Le schermaglie durarono fino a sera inoltrata. Ricordo, in modo fugace, i lacrimogeni lanciati dall’elicottero (rivisti anni dopo a Genova 2001). Non riuscivo a seguire quei corpi che, muovendosi insieme, dalla coda del corteo schizzavano fuori. E il fumo di auto incendiate. L’odore acre. Gli autonomi? Soltanto loro?

Sabato 4 ottobre. Uno spezzone di corteo mescolato tra gli altri. Slogan forti, eco da stadio. Tra le altre riecheggiano rime desuete (carabiniere sbirro maledetto…), inattuali. Una parte di corteo incontrata per caso. Ci siamo mescolati. Forse riconoscendo delle maniere, dei dettagli organizzativi. Degli istinti. Intorno a noi niente nostalgia. Solo ragazzi e ragazze molto glamour. Tagli di capelli, occhiali da sole, cuffie. Generazione Z, come la chiamano. Ma già mascherata. “Siamo tutte antifasciste/Siamo tutte antisioniste”, rigorosamente al femminile. Nonostante le fila rispondessero a maschi davvero ben piantati. Visi scoperti, bandiere e cori al confine tra stadio e militanza. Eppure riconosco sguardi di compagni (maschi) con cui è immediato il riconoscersi. “Si aspetta il buio?”. Si aspetta il buio. Tutt’intorno sta accadendo qualcosa di inaspettato, stupefacente. C’è troppa gente. Né gli adulti, né i più giovani vi sono abituati. E poi le guardie non ci sono, o almeno non si vedono.

Dopo il Colosseo, è quasi tramonto. Si aspettava il buio, no? Mano sulla spalla. Fumogeni. Ci si traveste (chi ha abiti con cui travestirsi). Lo spezzone si compatta e cambia pelle. Dietro di noi il corteo pacifico ci abbandona. Scarta di lato prendendo una scorciatoia. Ci ritroviamo le guardie, le camionette, a rimarcare che siamo la coda del corteo di massa (déjà-vu anni Settanta?). Ormai lo spezzone da bianco e svestito è diventato nero e mascherato.

Basta davvero poco. Un gruppo si stacca. Prende una scalinata. Si mormora che la polizia stia attaccando. Questa è la scintilla, peregrina.

Dal nostro punto di vista. In pochi si sono allontanati. Si è rimasti coesi. Intorno quiete. Corteo pacifico. Tamburi. Free Palestine. Noi però in nero stavamo. Non c’era occasione. Guardie lontane. Lontanissime. Arriviamo all’incrocio. Un paio di black dressed si staccano. Martello in mano crepano i vetri antiproiettile della filiale di una banca qualsiasi. Lo fanno quasi di sorpresa per noi. Giusto qualche minuto prima, ci eravamo messi a coprire una compagna che scriveva sul muro. Al martellatore nessuno copriva le spalle. Perché il 4 ottobre 2025, come in altri momenti in piazza nella storia, tutti e tutte sentiamo lo stesso mandato. E lo rivendichiamo.

Sentirsi respinti a margine di un grande corteo ci può stare. Sentirsi gridare che non si vuole essere coinvolti in pratiche di piazza inaspettate e non concordate fa parte del confronto. D’altra parte, nel nostro paese, restiamo incapaci di fare i conti, in modo adulto, con il conflitto. Sia esso sociale, generazionale, familiare, culturale… A sinistra, più che a destra. Non a caso il 4 ottobre 2025, di sera, fascistelli di Casa Pound e affini hanno sguaiatamente messo in scena una jaquerie neofascista. Contro un bar à la page dell’Esquilino. La risposta, troppo facile, al lancio di bottiglie contro la loro sede avvenuto nel tardo pomeriggio… Ma vigliacchi erano e restano i (neo)fascisti.

Si arriva a San Giovanni. Travestiti ancora. Neri ma più visibili. Respinti dal corteo molti si spogliano. Lo spogliarello avviene in penombra. Io che, sinceramente, non mi vesto e non mi svesto. Credo che tra il fumo, il buio, la confusione non bisogna nascondersi, mimetizzarsi. Quindi via i vestiti. Non siamo a Carnevale.

Infatti. 4 ottobre. Sabato. Un giorno come gli altri. Non proprio. Un milione di persone in piazza mosse da un internazionalismo inaspettato, sorprendente. Generazioni diverse. Con il sole il corteo, gli incontri. Con il buio la contrapposizione radicale, gli scontri. Guerriglia urbana, come piace definirla all’informazione mainstream, provocata da una reazione scomposta delle forze dell’ordine piombate con idranti e manganelli su un manipolo di giovanissimi manifestanti che provavano a dare un senso al Blocchiamo tutto, dirigendosi verso Termini. Ma non è importante stabilire chi ha iniziato. Il corteo è stata la dimostrazione che, nel paese, esiste ancora un sentire radicale capace di dar vita a una mobilitazione di massa limpidamente politica e senza ambiguità. Aver paura del fuoco, del riot, stigmatizzare certe pratiche di piazza, considerare gli scontri come manifestazione di un estremismo infantile, le barricate come fardelli incombenti sulla integrità del movimento. Etichettare le donne (tante) e gli uomini protagonisti della contrapposizione con la polizia come provocatori, infiltrati, rivela la persistenza delle scorie di un passato con cui, ancora, non si riesce a fare i conti.

Il 4 ottobre 2025 è, forse, una cesura politica e storica simile a quella avvenuta il 13 gennaio 1991, quando una nuova generazione manifestò l’inevitabilità del conflitto. Della contrapposizione, che non ha altra forma in piazza se non quella dello scontro. Quella del violare il rigore metropolitano. Ma tra i facinorosi accusati di devastazione, saccheggio, oltraggio e resistenza, si sviluppa un tremore, un’energia, uno slancio che diventano parti costitutive dello stare in piazza. Prendersi dei rischi. Non sorprendersi della violenza poliziesca. Non subire. Non denunciare a posteriori soprusi. Non lamentarsi il giorno dopo. A ciascuno il suo.

E poi, diciamoci la verità. Chi non ha paura di stare negli scontri. Come si supera la paura? Non è mica un giro sull’ottovolante. Si rischia: di essere arrestati, di farsi male, di morire accidentalmente. Una paura che si supera, forse, solo se non hai nulla da perdere. Ma chi non ha nulla da perdere? (-ma)

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