
C’è un povero cristo fuori al tribunale di Napoli che campa vendendo bloc notes, penne, accendini, manifestini di lutto per la Juventus. Ha anche qualche marca da bollo in tasca, e quando gli avvocati, che lo conoscono tutti, sono in ritardo e devono sbrigarsi perché l’ufficio chiude, le prendono da lui e gli fanno un regalo.
Il tizio avrà più di sessant’anni. La sua vita è un disastro – me l’ha raccontata venerdì in pochi minuti – e non sta nemmeno troppo bene con la testa. Ha tutta l’aria di chi non sarebbe capace di far male a una mosca, eppure la guardia giurata del tribunale, uno con gli occhiali da Rambo e pistole d’ordinanza sul fianco, gli ha dato addosso perché pretendeva di decidere il limite spaziale entro cui il tizio poteva o non poteva esercitare il suo commercio. Non parliamo del cancello del tribunale, dove finiva la giurisdizione di Rambo – che non essendo neppure capace di vincere un concorso nella penitenziaria opera per conto di quelle agenzie di mercenari, spesso controllate dal Sistema, e che quindi ha esattamente i miei diritti e quelli di chiunque altro a (non) decidere cose che riguardano la pubblica via. Parliamo della strada, per la precisione della fermata di un autobus. Eppure, nella sua testa, Rambo pensava di poter comandare. È finita a insulti alle mamme e con l’apertura di una riflessione sull’idea di limite.
Ti farò male più di un colpo di pistola
È appena quello che ti meriti
Ci provo gusto, me ne accorgo, e allora?
Non mi vergogno dei miei limiti (e lividi)
(subsonica, colpo di pistola)
Una prima definizione matematica di limite pare sia attribuibile a tale Augustin-Louis Cauchy, matematico di inizio Ottocento, e qualche decennio dopo a Heinrich Eduard Heine. Smanettando in rete mi sono reso conto che almeno due-tre degli studiosi che hanno toccato questa materia hanno avuto problemi psichiatrici. È successo a Weierstrass, tedesco, padre dell’analisi moderna (quella matematica, ovviamente): suo padre, ufficiale del governo tedesco di Boemia, lo costrinse a studiare legge a Bonn, ma lui non combinò niente e anzi si avvicinò da autodidatta alla matematica e al gruppo del Crelle’s Journal, che oggi è la più antica rivista di matematica esistente.
A un certo punto il giovane Karl se ne va a studiare a Munster (che solo per una strana coincidenza legata ai natali di un mio amico è la squadra tedesca per cui tifo), rompendo con il padre, e diventa un grande esperto di funzioni ellittiche, ma anche un alcoolizzato, sviluppando problemi psichici e nevrosi di vario tipo.
Anche Cantor, uno dei più grandi matematici della storia (per intenderci, quello che ha inventato gli insiemi), soffrì di una grave depressione, perché isolato dalla comunità scientifica. Cercò invano supporto in papa Leone XIII e forse anche per questo arrivò a identificare il suo rigorosissimo concetto di infinito assoluto con… Dio. Passò gli ultimi anni della sua vita in manicomio, ad Halle.
L’esaltazione creatrice è intimamente legata alla malinconia, sorella della depressione e figlia della mania, ma anche parente vicina della follia, dal momento che l’opera non è più sufficiente a contenere tutte le tensioni. […] Il romantico-melanconico coniuga la tristezza al quotidiano e contempla il suo dolore nella profonda solitudine del ripiegarsi su se stesso. “La malinconia è la felicità di essere triste”, scrive Victor Hugo ne Les travailleurs de la mer. Vi si fondono molto intimamente un’attitudine filosofica, la ricerca poetica e la malattia depressiva, condizioni che caratterizzano dolorosamente questi insaziabili sogni d’assoluto. (philippe brenot, le génie et la folie – traduzione mia)
È interessante come la matematica associ il limite a quest’idea di assoluto, mentre per la semantica lo stesso vocabolo indica una linea terminale o divisoria, un confine.
Qualche anno fa abbiamo pubblicato un libro curato da Miguel Angel Valdivia, che si chiama appunto Confini, dove dialogano quattro storie di quattro disegnatori, Andrea De Franco, Federica Ferarro, Mario Damiano e Adriana Marineo. I quattro interpretano il concetto in maniera ora concreta ora metafisica, interrogandoci non solo sull’idea di limite, ma anche se non soprattutto su quella dello spazio che si trova prima e dopo di questo.

Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni dei Duemila andava in onda ogni pomeriggio su Rai Uno (o forse Rai Due) un programma che si chiamava Ci vediamo in Tv, condotto da Paolo Limiti, autore televisivo (Rischiatutto), scrittore di canzoni (La voce del silenzio, Stupidi, Adagio) e regista radiofonico (Il maestro e Margherita).
Per quanto ricordi, la trasmissione era un viaggio nostalgico durante il quale si esibivano cantanti perlopiù ottuagenari, rievocando spesso le storie all’origine di brani che erano stati grandi successi anche cinquanta o sessant’anni prima. Vi partecipavano Milva, Ornella Vanoni, Mirna Doris, Angela Luce − cult una sua appassionata esibizione in L’urdema tarantella (Bovio-Tagliaferri, 1936) per la quale rivendicava, con solennità, di aver ricevuto un premio come “unica, grande, sola, vera interprete del sentimento della canzone napoletana”.
L’urdema tarantella racconta la drammatica uccisione da parte di una donna gelosa dell’amante del marito, davanti la chiesa della Madonna della Catena, che a Napoli si trova in via Santa Lucia, così chiamata in riferimento al miracolo con cui Maria salvò dalla condanna a morte tre innocenti, nella città di Palermo, spezzando le loro catene. Un’altra drammatica uccisione legata a quella chiesa fu quella dell’ammiraglio Caracciolo, che lì riposa in pace: Caracciolo fu arrestato e fatto uccidere dall’ammiraglio Nelson in persona, dopo aver combattuto contro la flotta borbonica che cercava di restaurare l’ordine dopo le sollevazioni della Repubblica Napoletana.
Si vide Caracciolo sospeso come un infame all’antenna della fregata Minerva; il suo cadavere fu gittato in mare. Il re era ad Ischia, e venne nel giorno susseguente, stabilendo la sua dimora nel vascello dell’ammiraglio Nelson. Dopo due giorni, il cadavere di Caracciolo apparve sotto il vascello, sotto gli occhi del re. Fu raccolto dai marinari che tanto l’amavano, e gli furono resi gli ultimi offici nella chiesa della Santa Lucia che era prossima alla sua abitazione. (mariano d’ayala, saggio storico sulla rivoluzione di napoli 1799, di vincenzo cuoco, e sulla vita dell’autore)
Ma in matematica, il limite – e qui spero di non deludere C., matematica e scrittrice ben più raffinata di quell’altra ahinoi, invece, più famosa e potente – serve a descrivere che cosa accade a una successione di numeri quando la variabile si avvicina sempre di più a un certo valore, senza doverlo per forza raggiungere. In parole povere, è come avvicinarmi alla felicità, senza mai poterla neppure sfiorare, ma andare sempre nella stessa direzione, in modo che sarà inequivocabile che quella costituisce il mio limite.
Troviamo sempre qualcosa, vero, Didi, per darci l’impressione di esistere?
(estragone, in: samuel beckett, aspettando godot)
a cura di riccardo rosa

