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La parola della settimana. Merito
(disegno di ottoeffe)

Amame e damme ‘o bene quanno nun m’o merito
tanno n’aggio bisogno,
l’aggio appreso int’e prete e nun m’o scordo.
(co’sang,
povere ‘mmano)

In epoche di scosse telluriche ed emotive mi sono ritrovato a discutere più volte il concetto di “merito”, mantra della tirannia capitalista e dogma che assume l’iniquità come effetto collaterale di una selezione fintamente naturale.

Ne ho parlato per quasi un’ora con un gruppo di adolescenti con cui sto lavorando in una scuola non lontano da casa, che l’hanno associata per lo più al mondo dello sport (“vincere con merito”, “meritare la vittoria”), a una presunta eticità (“onore al merito”, “meritare un riconoscimento”), e qualcuno addirittura a un vecchio adagio di curva, non so attraverso quali canali giuntogli alle orecchie (“chi milita, merita”).

Pochissimi tra loro, per fortuna, l’hanno associato alla scuola. Su venticinque ragazzi e ragazze, anzi, soltanto sei conoscevano l’assurdo nome dato dall’attuale governo neofascista al ministero che organizza la loro vita scolastica (ho dovuto fargli notare che il fascismo nasce come braccio armato del grande capitale, che dell’ideologia del “merito” ha bisogno come il pane).

Il latino, la Bibbia, l’Occidente. Questo è il nuovo programma scolastico 2026 (elle, 14 marzo 2025)

Scuola, passa la riforma del voto in condotta: con 6 compito di cittadinanza; con 5 si è bocciati (la stampa, 30 luglio 2025)

“A chi contesta il termine maturità, a chi lo considera superfluo, ridondante o simbolico, rispondiamo con fermezza: questa non è una questione di parole, ma di valori. Abbiamo scelto ‘maturità’ perché l’esame non misura solo ciò che si sa, ma chi si è diventati. […] Chi attacca il termine non attacca un nome, ma la centralità della formazione della persona, e noi su questo principio non arretriamo di un passo. […] Per il governo Meloni, e per il ministro Valditara, il cuore di questa riforma è proprio questo: restituire centralità alla persona, restituire dignità al valore educativo della scuola”. (ella bucalo – membro della commissione cultura del senato e responsabile del “dipartimento istruzione” di fratelli d’italia)

Per non essere troppo livoroso ho deciso di non scegliere come parola di questa settimana né “cerchio” né “botte”, e di non dare troppa importanza a un articolo pubblicato su Jacobin, organo di stampa ombra di Alleanza Verdi Sinistra e sfogatoio delle decine di accademici e intellettuali di questo tristo paese bisognosi di accreditarsi come “di sinistra”.

Vale però la pena ugualmente entrare nel merito di alcune riflessioni pubblicate in questi giorni sulla stampa nazionale a corollario dell’azione effettuata da alcuni attivisti a Torino, che si sono introdotti nella sede de La Stampa, buttando per aria un po’ di fogli e scrivendo qualche slogan sui muri.

Su Monitor abbiamo già espresso la nostra posizione (qui e qui), ma riprendo qualche passaggio a beneficio di chi fatica a leggere più di quattromila battute in un solo articolo:

Al di fuori, essa si esercita innanzitutto con uno strumento formidabile di formazione e controllo dell’opinione pubblica, La Stampa. Il giornale della Fiat ha infatti un’influenza determinante nella vita e nelle opinioni dei torinesi. Esso sbandiera un antifascismo sterile e di ricordi, e una politica di “riforme sociali”, propone un paternalismo “illuminato” avallato anche sul piano nazionale grazie alle firme di rispettabili nomi della cultura e dell’antifascismo italiani, e sul piano torinese, con la seconda pagina e “Lo specchio dei tempi”, indirizza l’opinione pubblica su binari ben precisi. In essa trovano posto le “inchieste” e le “denunce” interessate (il costo della vita, le case che mancano e che lo Stato dovrebbe finanziare, e così via), le cronache della Torino-bene e dei suoi eroi con le loro mensili “opere buone”, i preti e gli assi della Juventus, la cronaca delle disgrazie, degli incidenti (narrati, sempre, in stile “Cuore”), i fattacci degli immigrati (con appariscenti titoli: “calabrese ruba…”, “meridionale uccide…”, “siciliano rapisce…”) e infine le buone azioni quotidiane. (goffredo fofi, l’immigrazione meridionale a torino)

Solo a partire da qui è possibile riformulare le domande iniziali: che cos’è la violenza? Chi ha il potere di nominarla? Quale contesto viene assunto come sfondo neutro e quale viene patologizzato come devianza? Solo a partire da qui è possibile parlare di solidarietà senza riprodurre la postura coloniale di chi rappresenta l’altro, decide al posto dell’altro quale forma di resistenza è accettabile, prescrive all’altro la non-violenza mentre ne beneficia quotidianamente lo sfruttamento. Il punto non è di normalizzare la violenza, ma di smettere di usarla come strumento per silenziare quelle lotte anticoloniali e rivoluzionarie che dicono, in modo esplicito, che la libertà di una parte dell’umanità è inseparabile dalla trasformazione radicale dell’ordine che oggi viene difeso anche, e soprattutto, nel nome della “pace”. (miriam abu samra, la fiera dell’ipocrisia. intellettuali progressisti e non violenza)

Da manuale della Scuola Holden, si diceva, il pezzo pubblicato sulla questione da Jacobin (per i meno avvezzi, la Scuola Holden è un centro di formazione – con sede a Torino – in cui Alessandro Baricco e i suoi insegnano a giovani che sanno usare le parole a metterle al servizio delle aziende, della politica, degli interessi delle classi dirigenti, fingendosi pure soggetti liberi e pensanti). 

Con una scaltrezza non da poco Alberto Manconi riesce, nello stesso articolo: ad attaccare strumentalmente il governo Meloni come farebbe un esponente del Pd o di Avs; a indignarsi per la rottura dell’equilibrio liberaldemocratico per cui la libertà di stampa è sacra (tanto più che quel giorno i giornalisti erano “in sciopero per poter svolgere seriamente la propria professione”); a rimestare altra fuffa inutile, ma a essere al contempo precisissimo sui punti sostanziali di questa vicenda, che sono il vero bersaglio del suo discorso: l’azione dei militanti torinesi è “un errore”, “non utile”, “inefficace” e “non intelligente” (avrebbe oscurato il fine settimana di scioperi e indirettamente il fatto che in Palestina non ci sia ancora nessuna pace); chi l’ha compiuta ha fatto “di tutt’erba un fascio” e creato un pretesto per una condanna da destra delle altre posizioni di sinistra, quelle più democratiche e accettabili (vedi Francesca Albanese); l’imam di San Salvario Mohamed Shahin sarebbe in via di deportazione perché avrebbe “contestualizzato in modo discutibile il 7 ottobre”; dulcis in fundo, La Stampa non è certo “il peggior quotidiano nel modo di trattare il genocidio in Palestina”. Una rappresentazione plastica della lotta di classe (da quale lato e contro chi, lo potrete capire da soli), da studiare e ricordare. 

“Antisemitismo” e “genocidio”: il peso delle parole dopo il 7 ottobre
Abusare di determinati termini confonde la Storia e rischia di cancellare le vere responsabilità morali e politiche

(la stampa, 30 agosto 2025)

Sdoganare l’antisemitismo, l’altro disastro di Netanyahu
(la stampa, 25 settembre 2025)

Sul patto tra Aska e Comune non si superi la linea rossa
Dopo l’assalto a La Stampa condanne in tempi brevi per gli squadristi
(vittorio barosio e giancarlo caselli, la stampa, 7 dicembre 2025)

L’attacco contro la redazione de La Stampa a Torino non è solo un atto vile: è una ferita alla democrazia e un colpo gravissimo alla stessa causa palestinese. […] Colpire un giornale – con volti coperti, fumogeni, minacce, devastazioni – ripropone forme di squadrismo che la storia d’Italia ha già sconfitto e ricacciato indietro. E nessuna lotta davvero “giusta” può consentire di farsi inquinare da una violenza fine a se stessa. […] Tanto più perché La Stampa è uno dei pochi quotidiani italiani che, con continuità, ha dato spazio a voci palestinesi, documentando il “genocidio a bassa intensità” a Gaza, il terrorismo dei coloni israeliani e le torture in carcere dei prigionieri palestinesi. (rula jebreal, la stampa, 3 dicembre 2025

La differenza tra i due avvenimenti è l’esistenza dello Stato di Israele. Uno Stato che, aggredito, risponde. Come tutti gli Stati. Che fortuna insperata per gli antisemiti di tutto il mondo! Gli ebrei uccidono. È un’occasione, forse, per ripulire la cattiva coscienza ereditata dai testimoni di uno dei più grandi massacri della Storia, se non altro per numero di morti, e i mezzi adottati per liquidarli, quelli degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale, sotto lo sguardo indifferente dell’umanità. Ed ecco che manifestazioni oceaniche riempiono le strade delle grandi città di tutto il mondo. Sono manifestazioni che superano per ampiezza quelle contro la guerra del Vietnam a suo tempo. Con una palese differenza: all’epoca la gente gridava “pace in Vietnam!”. Dalla bocca di coloro che oggi solidarizzano con Gaza, invece, la parola “pace” è scomparsa. A rappresentare il Male, il Male da combattere, non è più il governo, ma tutto Israele. […] I nuovi antisemiti di fatto stanno ritorcendo la Shoah, che i negazionisti non sono riusciti a far vacillare, contro gli ebrei stessi. Gli ebrei che, in questo periodo, stanno “genocidiando” un altro popolo. Questo verbo non esisteva nei dizionari, ma è stato inventato proprio in occasione della guerra di Gaza. (marek halter, la stampa, 26 novembre 2025)

Qualche anno fa, ispirati da Aristotele ed Hegel, avevamo una rubrica su Monitor che metteva in evidenza lo squallore di ciò “che ci meritiamo” (i giornali che ci meritiamo; i politici che ci meritiamo; i partigiani che ci meritiamo, e così via). Ci ho ripensato giovedì a proposito dei telegiornali, imbattutomi con g. in un servizio del Tg2 che nel dar conto dell’ennesima strage israeliana a Gaza, dove con la scusa di ammazzare un militare di Hamas sono stati uccisi cinquanta civili, di cui sette bambini, si leggeva il massacro come conseguenza di un attacco di miliziani palestinesi a una pattuglia dell’esercito sionista, che avrebbe provocato il ferimento – fonte: l’esercito stesso – di cinque soldati.

(credits in nota 1)

Sarebbe bello, Joey, anche solo a volte, sapere cosa diavolo abbiamo fatto di male.

a cura di riccardo rosa

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¹ Robert De Niro, Dennis Leary, Anne Heche, Dustin Hoffman in: Sesso e potere, di Barry Levinson (1997)

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