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La parola della settimana. Paternalismo
(disegno di ottoeffe)

Giovedì il consiglio comunale di Napoli ha approvato una mozione che lo impegna alla rescissione di una serie di accordi con lo stato di Israele, nonché ad aprire una discussione con le università della città affinché anche i rapporti accademici tra gli atenei napoletani e quelli israeliani vengano interrotti. La mozione è stata approvata faticosamente dopo le pressioni della Rete Napoli per la Palestina, che aveva ottenuto la convocazione di un consiglio sul genocidio in corso, salvo poi scoprire che la seduta avrebbe avuto come oggetto una generica “crisi umanitaria a Gaza”.

Ho trovato fastidioso il paternalismo con cui i giornali, ma anche le persone sui social, persino attivisti e militanti di vari gruppi, hanno commentato il discorso di G., una compagna del Centro culturale Handala Ali che ha fatto un ottimo intervento davanti al consiglio, simile alle dichiarazioni che si fanno in parlamento per spingere i membri dell’assemblea a un voto giusto. La cosa più rilevante è stata la capacità di G. di ri-bilanciare il rapporto tra la comunità cittadina – che aveva chiesto azioni concrete al Comune – e i suoi rappresentanti, a cui ha ricordato che se la città gli chiede di fare qualcosa, loro sono tenuti a (e pagati per) farlo.

E invece è stato tutto un magnificare quanto questa ragazza fosse stata grintosa, decisa, chiara, “immensa”, “fantastica” e così via, tutti scioccati probabilmente dal fatto che G. sia giovane – ma nemmeno tanto: a cinque anni Mozart aveva già scritto il Minuetto e alla stessa età Torquato Tasso scriveva perfettamente in latino –, lucida, poco emozionata, e magari anche che parlasse bene l’italiano per quanto mezza palestinese (andrebbe spiegato che G. è palestinese ma anche napoletana, che fa già politica da un bel po’ di anni, è abituata a parlare in pubblico, a scrivere, e si fa un cu…ore così in giro per l’Italia per sostenere la Resistenza del suo popolo).

Quando Macciocchi scrive il suo diario di campo, la rivolta delle nuove generazioni è in corso da mesi. Sulle bocche degli studenti sono rinate parole scomparse dal lessico del partito: rivoluzione, borghesia, proletariato. I giovani discutono della rivoluzione culturale cinese, di Che Guevara, del Vietnam, ma nel partito sono guardati con sospetto. […] I giovani rompono la burocratizzazione, le liturgie interne, i metodi antidemocratici. Se ne infischiano delle elezioni e della composizione delle liste. Per metterli in disparte si dice che sono immaturi, che devono fare esperienza. In federazione o nelle sezioni Macciocchi incontra ragazzi incuriositi da una donna che “parla come un uomo” e che rompe il vecchio schema della subordinazione femminile. Molte sezioni di periferia, annota Macciocchi, registrano in quei mesi una “secessione cinese”. Il partito si trincera dietro formule vuote – “la gioventù non è un fatto anagrafico”, “ci si trasforma restando uguali”, “rinnovamento nella continuità” –, slogan che rivelano solo una tenace resistenza al mutamento. (luca rossomando, le fragili alleanze)

Alcuni tra quelli che posso considerare dei “maestri” mi hanno insegnato tempo fa, senza proclami ma facendomelo vedere giorno per giorno, che il modo migliore per non scivolare sulla buccia di banana del paternalismo è trattare alla pari il proprio interlocutore, indipendentemente dalla sua età, la sua condizione sociale, e tutto il resto.

(credits in nota1)

Quando ero alle medie, invece, avevo letto due o tre libri di Dickens. Mi erano piaciuti molto (mi piacciono tuttora) ma sentivo che c’era qualcosa che non andava e non riuscivo a capire. Anni dopo lessi un altro libro, di Orwell, che mi fece notare che il problema del paternalismo di Dickens nei confronti dei suoi personaggi poveri e sfruttati stava nel messaggio di fondo: tutti possono crescere e migliorare, anche (oppure solo?) da soli, comprendendo errori, modificando condotte, insomma dandosi da fare per uscire dalla propria condizione senza necessariamente sovvertire l’ordine delle cose.

Ho discusso di Dickens in termini del suo “messaggio”, tenendo da parte le sue qualità letterarie. Ma ogni scrittore, soprattutto ogni romanziere, ha un “messaggio”, lo ammetta o no, e i più piccoli dettagli della sua opera ne sono influenzati. Tutta l’arte è propaganda. Né lo stesso Dickens né la maggior parte dei romanzieri vittoriani avrebbero pensato di negarlo. […] Ci viene detto che nella nostra epoca qualsiasi libro che abbia un genuino merito letterario avrà anche una tendenza più o meno “progressista”. Ciò ignora il fatto che nel corso della storia è stata infuriata una lotta tra progresso e reazione, e che i migliori libri di ogni epoca sono sempre stati scritti da diversi punti di vista, alcuni dei quali palesemente più falsi di altri. Nella misura in cui uno scrittore è un propagandista, il massimo che si può chiedere da lui è che creda sinceramente in ciò che dice, e che non sia qualcosa di incredibilmente sciocco. (george orwell, letteratura palestra di libertà)

Il paternalismo di un uomo maturo che cerca di non farsi sedurre da una giovane di lui invaghita è un topos ricorrente della musica napoletana. Una bella canzone, seppur impregnata di questo paternalismo tendente a sminuire il sentimento (femminile), è Nun t’annammura’, cantata da Natale Galletta ed Emiliana Cantone:

EC:
Dimme pecché me ne cacce,
pecché nun vuo’ chesti braccia…
Nun me chiamma’ guagliuncella io so femmena già!
[…]
NG:
No, tu nun t’e ‘a ‘nnammura’
è colpa dell’età
è solo n’attrazione che col tempo passerà… 

L’ho riascoltata qualche giorno fa mentre ero al mare e pensavo a cosa scrivere in questa rubrica. L’algoritmo a quel punto si è attivato e mi ha proposto alcuni tra i pezzi cult della musica cittadina tra gli anni Novanta e Duemila. Mentre pensavo alla rubrica, però, pensavo anche, insieme ad alcuni colleghi dottorandi e dottorande, al testo di una dura mail che abbiamo poi scritto all’Orientale lamentando che per l’ennesima volta il bonifico con i soldi della borsa di ricerca che abbiamo vinto tre anni fa fosse in grosso ritardo. Pensavo, ascoltavo e mi appisolavo, e non so se sia stato sogno o realtà, mi sono trovato davanti il rettore Tottoli in costume da bagno, che mi dava una pacca sulla spalla canticchiando una vecchia canzone di Finizio che racconta di quanto all’amore faccia bene essere poveri (spoiler: non fa bene affatto).

E chistu suonno t’o giuro m’ha fatto riflettere
ca senza sorde l’ammore cchiù bello ‘o può vivere.
Sulo ‘na sera te prego vestimmece a povere
e senza machina a per’ te porto cu me:
‘na cammenata a Mergellina ‘nzieme a te
senza nemmeno mille lire p’o cafè,
dint’o pacchetto sulamente n’ati tre
e me spartevo dint’ e vase ‘nzieme a te.
(gigi finizio, ‘na cammenata a mergellina)

a cura di riccardo rosa

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¹ Vittorio De Sica e Pierino Bilancione in: I giocatori / L’oro di Napoli, di Vittorio De Sica (1954)

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