Lavoro sociale e autosfruttamento. Intervista a una lavoratrice di Apriti Sesamo a Roma

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Lavoro sociale e autosfruttamento. Intervista a una lavoratrice di Apriti Sesamo a Roma
(disegno di elena mistrello)

Qualche anno fa, in una concitata assemblea di lavoratori sociali, qualcuno suggeriva ai presenti di guardare al sociale come un laboratorio dove il sistema neoliberale sperimenta processi di sfruttamento, e di auto-sfruttamento, che nel tempo, a macchia d’olio, si consolidano in altri settori del mercato del lavoro. In questo settore, a fronte della crescita del fatturato e dell’organico dell’impresa sociale, si mantiene una struttura apparentemente orizzontale, che attraverso la permanenza delle figure dei soci lavoratori diffonde un’idea di cooperativa come famiglia, funzionale in realtà alla cancellazione dei diritti residuali sanciti dal contratto collettivo nazionale. In questo scenario si colloca la storia che vogliamo raccontare.

L’Apriti Sesamo, accreditata al servizio di inclusione scolastica di Roma Capitale, nel 2023 vantava un fatturato di circa quattro milioni e un organico di centosettanta persone tra soci e dipendenti; ma nell’ottobre 2024 ratificava nell’assemblea tagli sugli stipendi per i soci: 85 euro lordi sulla retribuzione lorda, sulla quattordicesima, sui permessi retribuiti, le ferie, la malattia, e inoltre formazione pagata al cinquanta per cento, con una riduzione dello stipendio, per ogni lavoratore, tra i duecento e i trecento euro al mese.

L’8 aprile 2025, Apriti Sesamo invia una email ai lavoratori non soci, dove a seguito di motivazioni legate alla pandemia, li convoca per discutere sull’applicazione dei tagli. Il 22 aprile, i dipendenti vengono chiamati in un’assemblea, alla presenza dei sindacati confederali (Cgil, Cisl, Uil), dove i dirigenti della cooperativa illustrano il quadro economico e chiedono di fare sacrifici facendo leva sul solito schema familistico. La cooperativa informa poi i dipendenti sulla decisione di indire un referendum, il 23, 24 e 28 aprile, per “decidere” se accettare o meno i tagli.

Ai sindacati di base (Usb e Cub) viene preclusa la possibilità di partecipare, negando di fatto una discussione sulla vicenda. Il 21 aprile l’Usb, il sindacato della lavoratrice che intervistiamo, e la Cub, proclamano lo stato di agitazione e inviano due lettere di diffida: una il 30 aprile e l’altra il 5 maggio, contro l’applicazione dei tagli ai loro iscritti. Il 30 aprile vengono pubblicati i risultati del referendum: su 99 aventi diritto, il sì prevale di 62 voti, mentre il no si ferma a 14. Mentre sono 23 le persone che si astengono. I tagli partono dal primo maggio, ma i lavoratori li vedranno applicati in busta paga solo a luglio, poiché lo stipendio viene erogato abitualmente con due mesi di ritardo. Il 12 maggio, i consiglieri dell’assemblea capitolina, Antonio De Santis e Flavia De Gregorio, chiedono la convocazione urgente della commissione scuola di Roma Capitale, per analizzare la situazione della cooperativa Apriti Sesamo. Un passaggio importante, quest’ultimo, visto che secondo la legge 104/92, il Comune è titolare del servizio di assistenza scolastica che supporta i ragazzi con disabilità nelle scuole di ogni ordine e grado.

A partire dall’anno scolastico 2022-23, l’erogazione del servizio avviene tramite il sistema dell’accreditamento. Al momento in cui intervistiamo la lavoratrice, i dipendenti Apriti Sesamo attendono risposte ufficiali dal comune di Roma Capitale.

Che è successo l’8 aprile?

«Quel giorno ricevo una mail in cui vengo convocata dalla cooperativa insieme ai miei colleghi, dipendenti non soci, per parlare di un piano di tagli che sarebbe stato approvato qualora i dipendenti avessero votato sì. Leggo la mail e penso: parlerò con i sindacati di base. È una questione collettiva e non ho pensato di agire da sola, non ho nemmeno risposto alla mail. Il risultato è stato che il sindacato ha dichiarato lo stato di agitazione dei suoi iscritti. Sono andata all’assemblea con questa consapevolezza. Ma soprattutto non ero preoccupata perché ho pensato: ti pare che una persona va a votare per il taglio del proprio stipendio? Ho avuto fiducia nelle persone e come sempre ho sbagliato.

Quando hai capito che la situazione avrebbe preso una brutta piega?

«Il giorno dopo aver ricevuto la mail sono andata a parlare con le poche colleghe che lavorano con me a scuola, pensando che fossimo tutte d’accordo. In particolare una ragazza mi dice: “Non abbiamo altra scelta, io con loro mi trovo bene, ci lavoro da anni, perché dobbiamo votare no? Sono sacrifici che dobbiamo fare tutti quanti!”. Quando anche le altre colleghe mi hanno detto che avrebbero votato sì, mi è salita una rabbia incredibile. Ho dormito male e ho provato a immaginare quello che i miei colleghi avrebbero potuto dire e quello che avrei potuto rispondere. Iniziavo a pensare che saremmo stati una minoranza. In assemblea c’erano una cinquantina di persone, tutte silenti, pendevano dalle labbra del presidente della cooperativa, ascoltavano, annuivano. Avevano già accettato i tagli. Io e una collega che la pensava come me, ci siamo messe in fondo alla sala. Allora una delle lavoratrici storiche della cooperativa si è messa dietro di noi per vedere se stavamo registrando la riunione. Quando ho chiesto il microfono, ho detto una cosa molto semplice: “Come alcuni di voi sapranno è stato dichiarato lo stato di agitazione dei dipendenti iscritti a Usb. Noi non siamo d’accordo rispetto ai tagli e faremo tutto quello che è in nostro potere per impedire che venga applicata una cosa del genere”. Mi tolgono il microfono dalle mani e vengo attaccata da una lavoratrice per una questione personale: tempo prima mi ero confidata con una collega della scuola, dicendo che volevo cambiare lavoro e questa è andata a raccontarlo alla cooperativa. Lei mi ha urlato in faccia e io mi sono un po’ spaventata. Ero sola, non avevo il mio sindacato di riferimento, erano tutti palesemente contrari a quello che stavo dicendo. Ho iniziato a tremare, non ho vissuto bene l’aggressione, me ne sono andata via. Sono tornata a casa e sono rimasta per tutto il fine settimana a letto, non sono riuscita a studiare, non ho visto nessuno. Mi sentivo l’ansia, il mal di stomaco, non riuscivo a dormire al pensiero di tornare al lavoro. A scuola non mi sono esposta.

Che significa per te lavorare nel sociale?

«Quando inizi sei contenta perché pensi di stare facendo qualcosa di utile. Nel momento in cui ti rendi conto che vai a lavorare per il benessere altrui, ma che il tuo benessere è messo da parte, questo ti lascia svuotato. E quella motivazione che avevi nello svegliarti la mattina viene meno. Per citare Freire, l’educazione deve servire alle persone per liberarsi dalla loro condizione di oppressi. Ma nel momento in cui tu stesso sei oppresso dal sistema, c’è un meccanismo che si inceppa. Lavorare nel sociale ti sfinisce: sai che vieni sfruttato fino all’osso, che vieni pagato poco, che il tuo lavoro è invisibile. E quello che ti viene a mancare è l’umanità. Parlando di scuola, quest’anno, non ho avuto una parola di conforto da parte di nessuna insegnante. Colleghe che fanno un lavoro assimilabile al mio, ma lavorano quattro ore al giorno. Tu sei vista come quella che deve lavorare otto ore al giorno. C’è qualcosa che non funziona. E il prezzo di tutto questo lo pagano non gli imprenditori sociali, ma le persone fragili e quelle che lavorano.

Che idea ti sei fatta dei sindacati?

«I sindacati confederali rappresentano il fallimento dei sindacati. Hanno una struttura profondamente gerarchica, sono lì a parlare in rappresentanza dei lavoratori, ma hanno mai parlato con i lavoratori? Se, come in questo caso, difendi datori di lavoro che avallano il taglio allo stipendio di chi svolge un lavoro povero, significa che non stai facendo il tuo lavoro. Io mi chiedo come fanno a potersi definire sindacato. Hanno fortemente voluto il sistema dell’accreditamento. Il contratto collettivo nazionale l’anno scorso lo hanno firmato loro.

Come ti senti a essere una lavoratrice sospesa?

«Ho un rapporto ambivalente: c’è una parte di me che vive i tre mesi di disoccupazione quasi come una liberazione dal lavoro, e dall’idea di essere sfruttata. Nonostante a livello economico sia molto duro sopravvivere, visto che pago l’affitto e vivo in una città molto cara, in qualche modo lo percepisco come un tempo per liberarmi dalle pressioni, quasi come se preferissi percepire un reddito più basso piuttosto che sentirmi sfruttata. Avere tre mesi di libertà è un pensiero che mi aiuta ad arrivare viva a giugno. Trovo assurda la questione del part-time ciclico verticale, perché i colleghi e le colleghe che hanno dovuto firmare un contratto a tempo indeterminato, per quei tre mesi non hanno accesso alla disoccupazione, quindi devono continuare a lavorare nei centri estivi in cui vengono sfruttati di più rispetto alle scuole, perché ti pagano cinque euro l’ora. E soprattutto il lavoro di educatore è usurante, anche noi come i docenti dovremmo avere dei mesi per riprenderci. Viviamo in un ambiente lavorativo talmente precario e ingiusto, che sono arrivata a considerare la disoccupazione come una manna dal cielo. Io non firmerò mai un contratto a tempo indeterminato con una cooperativa. Non lo farò mai, e questo mi aiuta a percepire questo lavoro come temporaneo, perché non lo puoi fare tutta la vita». (giuseppe mammana)

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