
Sono trascorsi più di due anni e mezzo da quando ho visto Henda Benali e Kamel Abdellatif per la prima volta, nella loro casa di Kebili, una città della Tunisia interna. Il nostro incontro più recente risale invece a questa primavera, nella sala del Kif Kif, un locale che è anche punto di ritrovo per la sinistra araba a Roma. Rispetto a quanto percepito quella mattina del settembre 2022, Henda e Kamel mi sono sembrati stavolta più forti e agguerriti. Come se lottare per la verità sulla morte del loro primogenito li avesse in qualche modo, forse loro malgrado, costretti alla vita. Le lacrime c’erano sempre, ma non era il dolore sordo di Kebili. Era un dolore rumoroso.
Henda e Kamel avevano attraversato il paese, da Roma a Bologna, con il comitato Verità e Giustizia per Wissem Ben Abdellatif, per raccontare la storia di un giovane uomo che chi legge questo giornale conosce bene. Wissem che giocava bene a calcio. Wissem che ascoltava Bob Marley e aveva perso il lavoro. Wissem che sorrideva, con gli amici, girando video sulla barca che lo portava in Italia. Wissem che è morto, in seguito alla detenzione nel Cpr di Ponte Galeria e a una contenzione fisica durata centotré ore, quaranta all’ospedale Grassi di Ostia, poi sessantatré al San Camillo di Roma. Legato per centotré ore.
«Wissem ha detto chiaramente di aver ricevuto delle manganellate in testa nel Cpr di Ponte Galeria, e anche i suoi compagni di detenzione hanno confermato questa cosa», ha raccontato il padre durante l’incontro pubblico. Magro, provato dai problemi di salute, tremava. Ha smesso di parlare, Kamel, ma una scritta in inglese sul suo cappellino diceva per lui: “No Fear”. Niente Paura.
«Perché ucciderlo in quel modo?». Si è chiesta invece, ancora una volta “perché?”, Henda, la madre. Spera che suo figlio sia un esempio per tutte e tutti. Wissem aveva voluto denunciare la situazione sua e dei suoi compagni di detenzione, girando video nel Cpr e diffondendoli in rete. Wissem, Henda ne è sicura, ora è in Paradiso. Tradotta a braccio da un giovane tunisino, commosso anche lui, conclude: «Se fosse stata una morte normale l’avremmo accettata».
L’avvocato Romeo ha spiegato che la procura di Roma ha richiesto l’archiviazione per la denuncia per sequestro di persona contro il primario del reparto psichiatrico del San Camillo, che poi è lo stesso del Grassi di Ostia, e contro gli altri medici coinvolti nella lunga contenzione fisica di Wissem: «Sebbene avessimo chiesto di essere informati nell’eventualità di una richiesta di archiviazione, la notizia di quest’ultima è arrivata solo al momento dell’udienza preliminare, che si è tenuta ad aprile nei confronti dell’unica persona ancora indagata, l’infermiere che ha somministrato una dose di farmaci non prevista dalla scheda terapeutica di Wissem». La prossima udienza si terrà a Roma il 10 settembre: i genitori si sono costituiti parte civile, e i loro legali hanno ottenuto che venga chiamata in causa anche l’Asl Roma 3, nella cui giurisdizione si trova il reparto psichiatrico dove Wissem ha trascorso le sue ultime ore. In generale, fanno sapere ancora dal comitato, “ci si aspetta che la controparte punti a far passare la morte di Wissem, una morte di Stato, come morte naturale”. Come in altri casi si tenderà in effetti a punire solo le ultime violenze subite da Wissem, normalizzando la lunga catena di abusi che le hanno precedute.
L’ingiustizia subita dal ventiseienne di Kebili, però, non sta solo in un sovradosaggio di farmaci. Sta nella lunghissima contenzione fisica. Nella detenzione in Cpr, esperienza vicina a quella del carcere più duro e che sanziona per di più un semplice illecito amministrativo come la permanenza irregolare su un territorio nazionale. Anche queste violenze sono dettagli accidentali, effetti collaterali della grande ingiustizia di un ampio e capillare regime di frontiera basato su razza e classe. Se Wissem ha dovuto attraversare il mare, finire a Lampedusa, essere chiuso in una nave quarantena ad Augusta e poi in Cpr, è perché non ha avuto, come centinaia di migliaia di altre persone, nessuna opportunità di attraversare legalmente il Mediterraneo. Sarebbe bastato un visto turistico, una borsa lavoro, una borsa di studio, come quella che chi scrive ha ottenuto qualche anno fa, senza particolari meriti accademici peraltro, proprio per la Tunisia, proprio a ventisei anni.
La grande violenza normalizzata, che si colloca nel livello antecedente a quella individuale subita da Wissem, sta nel fatto che i visti Schengen agli africani, e in generale alle persone non bianche, siano un’eccezione. Eppure, anche se divenuto marginale nei dibattiti sulla migrazione, il muro della burocrazia e dell’esclusione dalla libertà di movimento è il più pervasivo e strutturale fondamento di questo sistema. A rafforzare questo muro ci sono le decine di barriere che impediscono le vite dei migranti: non solo quella del Mediterraneo o del deserto, non solo i lager libici e quelli europei, ma anche le interdizioni che molto spesso rendono impossibile lavorare al di fuori del bracciantato agricolo sottopagato, dello spaccio, della prostituzione. Fino al carcere, che spesso consegue a tutto questo.
Solo nel 2023, secondo i dati di Schengen Visa Statistics, settecentomila persone di varie nazionalità africane hanno perso ottanta euro, una cifra pari alla metà di uno degli ultimi stipendi di Wissem, per fare la domanda di un visto europeo che non hanno mai ottenuto. I dinieghi dei paesi europei verso le persone di nazionalità africane che chiedono il visto hanno rappresentato il 43% del totale dei visti negati in tutto il mondo. Del resto, tante persone non ci hanno nemmeno provato, a entrare legalmente, perché non avevano le migliaia di euro di fideiussione bancaria necessarie a farlo.
Sono quindi le nostre frontiere blindate, l’unica causa profonda della “migrazione irregolare”, espressione abusata da tanti governi, italiani e non solo. Fanno qualcosa di male – è il sottinteso decisivo – le persone che non si spostano “a causa” di una forza maggiore, ma perché, semplicemente, lo desiderano. Ora seguito dall’ipocrita corollario del “Piano Mattei”, l’assioma dominante ripete: “fermiamo la migrazione irregolare”, “aiutiamoli a casa loro”. Ma per chi subisce l’oppressione e la repressione non esiste un loro da “aiutare” o “salvare” che sia diverso dal “noi”. L’imperativo della frontiera, il non vi muovete che ha dilaniato il corpo di Wissem, è sempre più pressante sul corpo di chiunque, come lui, voglia migrare; e poi manifestare, occupare, protestare.
Accertare la verità sulla dinamica della sua morte, a cominciare dalla prossima udienza è quindi, come dice l’avvocato Romeo, “una prima forma di giustizia”. L’ultima è l’intero orizzonte verso cui guardare e tendere, perché, come insiste Henda, la morte di Wissem serva a impedire che casi come il suo si ripetano ancora. (giulia beatrice filpi)