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Questa settimana la Banca d’Inghilterra e il Fondo Monetario Internazionale si sono aggiunte al numero di istituzioni e testate giornalistiche che hanno espresso preoccupazioni per la formazione di una bolla nel settore tecnologico e in particolare in quello delle intelligenze artificiali (AI).
Il rischio, secondo alcuni, è che il peso assunto dalle AI nell’economia statunitense si basi su fattori temporanei e investimenti rischiosi. Negli ultimi due anni infatti le aziende tecnologiche hanno fatto enormi investimenti per lo sviluppo di data center, arrivando a trainare di fatto parte dell’economia statunitense. Qualora questo entusiasmo per le AI dovesse ridursi, il valore di molte aziende potrebbe calare drasticamente, portando con sé una parte di crescita economica degli Stati Uniti.
Il confronto più comune è quello con la “bolla delle dot-com” della fine degli anni Novanta, quando le prime aziende operanti nel web raggiunsero valutazioni altissime per poi collassare, causando una recessione. Secondo il report della Banca d’Inghilterra, alcune aziende che si occupano di AI avrebbero valutazioni «paragonabili» a quel picco. Uno studio di MacroStrategy Partnership, società che si occupa di ricerche di mercato, ha calcolato che la bolla delle AI sarebbe addirittura 17 volte più grande della bolla delle dot-com e otto volte quella dei mutui sub-prime, che causarono la crisi finanziaria del 2008.
La direttrice del Fondo Monetario Internazionale Kristalina Georgieva ha sottolineato quanto la crescita registrata dalle aziende tecnologiche negli ultimi anni si sia basata sull’«ottimismo sulle capacità delle AI di migliorare la produttività»: un punto su cui però non tutti concordano.
Il settore delle AI è impegnato da ormai tre anni in grandi investimenti per una tecnologia che non riesce ancora a generare entrate in grado di sostenerli. Lo scorso agosto Sam Altman, capo di OpenAI, l’azienda che sviluppa ChatGPT, aveva ammesso il rischio di una bolla e definito gli investitori del settore «sovraeccitati», pur continuando a sostenere l’enorme potenziale delle AI. La scorsa settimana anche Jeff Bezos, fondatore di Amazon, ha detto che le AI hanno creato una bolla: non di tipo finanziario, che «sono solo dannose», ma di tipo industriale, in cui cioè le aspettative del mercato sono lontane dalla realtà ma il cui risultato finale potrà comunque essere utile (per esempio la costruzione di nuovi data center).
A suscitare i sospetti di alcuni economisti sono però proprio gli enormi investimenti per la costruzione di nuovi data center, le grosse strutture per l’elaborazione dei dati che servono a far funzionare software di intelligenza artificiale sempre più complessi. Lo scorso gennaio, OpenAI ha presentato un piano di investimenti da 500 miliardi di dollari per la costruzione di nuovi centri di elaborazione d’ultima generazione e anche Meta ha intenzione di spendere centinaia di miliardi di dollari in questo modo. Molte altre aziende in tutto il mondo contano di fare lo stesso, seppur in scala ridotta.
Alla base di questi sforzi ci sono due promesse ed entrambe sono tutte da dimostrare.
La prima è che l’utilizzo delle AI diventerà sempre più comune e diffuso, rendendo fondamentale un’infrastruttura in grado di soddisfare una domanda destinata ad aumentare. A tal proposito, Altman ha dichiarato che OpenAI prevede di raggiungere i 10 gigawatt di capacità di calcolo per soddisfare la crescente domanda di ChatGPT e altri servizi. Si tratta di una potenza pari a quella di 10 reattori nucleari, per generare la quale sarebbero necessari circa 100 miliardi di dollari di investimenti.
La seconda promessa è che la diffusione e il miglioramento progressivo di questa tecnologia avranno un notevole impatto nella produttività delle persone, garantendo una crescita economica in grado di giustificare questi sforzi. Il CEO della banca di investimenti JPMorgan ha detto che gli investimenti fatti nelle AI dalla sua società, per un totale di due miliardi di dollari, sono già stati ripagati, grazie anche a un taglio del personale che ha contribuito a diminuire i costi.
Un altro fattore di rischio per alcuni osservatori è il ruolo di Nvidia, la società statunitense produttrice di microprocessori, in questa presunta bolla. L’azienda ha infatti una sorta di monopolio delle GPU (o unità di elaborazione grafica), processori molto potenti e necessari per il funzionamento delle AI. Ogni investimento in data center, quindi, finisce per essere un acquisto di migliaia di GPU di Nvidia, tanto che l’azienda ha registrato una crescita continua nel corso degli ultimi due anni, arrivando a una capitalizzazione di mercato di 4500 miliardi di dollari.
A far discutere sono le decine di accordi che Nvidia sta tessendo con altre aziende del settore, come OpenAI, xAI e Oracle, che hanno ricevuto soldi da Nvidia per costruire nuovi data center, per i quali avranno bisogno delle GPU di Nvidia, in un sistema definito da Bloomberg «circolare», che viene visto come un altro segnale di una possibile bolla.
Secondo il Financial Times, le AI sono ormai presentate come una «cura miracolosa» per l’economia, in grado di generare una crescita senza precedenti e di aprire a una rivoluzione tecnologica in cui gli Stati Uniti vogliono avere un ruolo centrale.
Alcuni studi hanno cercato di calcolare il probabile contributo futuro della tecnologia nel Pil degli Stati Uniti, arrivando a risultati significativi ma non proporzionati agli investimenti in corso. Uno studio della Wharton School of the University of Pennsylvania ha calcolato che il contributo delle AI alla crescita del Pil statunitense potrebbe raggiungere lo 0,2 per cento annuo nel corso degli anni Trenta, per poi stabilizzarsi. L’economista Daron Acemoglu del Massachusetts Institute of Technology, premio Nobel per l’Economia nel 2024, ha previsto invece un aumento della produttività «non irrilevante ma modesto», di circa lo 0,7 per cento del Pil, nei prossimi dieci anni.
Altri studi, invece, come quello condotto dalla University of Chicago, non hanno riscontrato «alcun impatto significativo» sulla produttività da parte delle AI. Secondo uno studio della Harvard Business Review queste tecnologie avrebbero addirittura un impatto negativo a causa dello stravolgimento dei processi lavorativi preesistenti.
Nonostante le incertezze, gli investimenti in questo campo hanno raggiunto un volume tale da trainare l’economia statunitense e oggi sono responsabili del 40 per cento della crescita registrata dal Pil statunitense. Le dieci aziende più grandi degli Stati Uniti, perlopiù appartenenti al settore tecnologico, rappresentano circa il 40 per cento del valore totale dello S&P 500, l’indice delle 500 aziende quotate più grandi del paese.