È fecondo configurare l’attualità come storia contemporanea. In merito all’irruzione presso la redazione de La Stampa di Torino di venerdì 28 novembre, lo storico contemporaneo dovrebbe studiare la reazione mediatica, e spettacolare, che si è scatenata, e chiedersi perché in modo così unanime e accorato istituzioni, politici, intellettuali e organizzazioni di questo paese hanno condannato l’evento. Qual è l’origine materiale di un discorso tanto compatto, in apparenza inscalfibile?
Il primo dicembre nelle pagine nazionali de La Stampa compare un articolo intitolato: “Stampa città aperta”. Si riportano le visite in solidarietà alla redazione e le dichiarazioni rilasciate per l’occasione. Appaiono l’editore Elkann, il presidente della regione Piemonte, un deputato del Pd, un ministro del governo; è annunciata la venuta del ministro della cultura e, forse, di Elly Schlein. Il sindaco della Città s’era già presentato in visita. Uno sguardo storico deve allora individuare le relazioni concrete fra un centro di emanazione dei discorsi e le classi dirigenti. E da qui discende una possibile mappatura delle forme del potere e della loro riproduzione simbolica.
Ecco un esempio, forse marginale eppure peculiare. Una delle prime reazioni è stata quella di Jacopo Rosatelli, assessore alle politiche sociali della Città e membro di Sinistra Ecologista, la costola di Avs a Torino. Lo stesso venerdì pomeriggio dalle colonne blu di Facebook scriveva l’assessore: “Nel giorno in cui le e i giornalisti scioperano, un vile attacco squadrista colpisce la redazione de La Stampa. Nulla può giustificare questa violenza. Solidarietà al quotidiano e a tutta la comunità professionale dell’informazione torinese”.
Durante il mandato di Rosatelli sono stati sgomberati i baraccati di piazza d’Armi e senza garantire degne soluzioni abitative. Di recente sono state create “zone a vigilanza rafforzata” per sottoporre a controlli di polizia persone potenzialmente destinate al Cpr e si è condotta una repressione sistematica di uomini senza dimora che vendono pochi oggetti in strada. Ancora, si è portata avanti una campagna di sgombero di famiglie occupanti di case Atc senza offrire soluzioni alternative e spesso lasciando in strada donne e bambini.
In merito a questa violenza urbana contro poveri e subalterni La Stampa, come tutto il giornalismo cittadino, è silente o compiacente. Per quale ragione? Come spiegare il silenzio? Lo sgombero di piazza d’Armi avvenne per permettere il sereno svolgimento di Eurovision. Accanto alle zone a vigilanza rafforzata sorgono aree interessate da interventi di speculazione immobiliare, i presìdi di polizia riguardano spesso i distretti aperti ai sogni turistici e gli isolati pronti ad accogliere la nuova linea della metropolitana. E dopo la stagione di sgomberi degli alloggi occupati è recente la notizia della possibilità di privatizzare alcune unità delle case popolari torinesi. Qui lo storico può intravedere le connessioni tra istituzioni, poteri economici e funzionari della diffusione dell’informazione.
Abbiamo in passato analizzato stile e contenuti del giornalismo torinese e di certo dovremo trovare il modo di persistere con più continuità e ostinazione. Ora ricordiamo le parole vivissime che Goffredo Fofi scriveva a proposito del quotidiano torinese. Era il 1964 e il libro – straordinario – è L’immigrazione meridionale a Torino. (redazione monitor)
Il monopolio a Torino ha costruito una sua catena d’influenza economica e politica, esercitata attraverso il controllo diretto o indiretto della vita pubblica. Questa influenza è determinante anche e specialmente all’interno della fabbrica, dove l’operaio è compresso e asservito da una politica paternalistica, e allo stesso tempo non meno oppressiva: da una parte la possibilità di arrivare al frigorifero, alla 600, alla televisione, e all’appartamento; dall’altra un progresso tecnologico che impone massacranti ritmi di lavoro e un comportamento da macchina, la impossibilità di processi di avanzamento nella qualifica al tempo stesso in cui cambia la mansione e il tipo di lavoro in conseguenza del processo tecnologico, l’impossibilità di un “rapporto tra la forza-lavoro incorporata nelle merci prodotte e l’ammontare delle paghe”.
Al di fuori, essa si esercita innanzitutto con uno strumento formidabile di formazione e controllo dell’opinione pubblica, La Stampa. Il giornale della Fiat ha infatti un’influenza determinante nella vita e nelle opinioni dei torinesi. Esso sbandiera un antifascismo sterile e di ricordi, e una politica di “riforme sociali”, propone un paternalismo “illuminato” avallato anche sul piano nazionale grazie alle firme di rispettabili nomi della cultura e dell’antifascismo italiani, e sul piano torinese, con la seconda pagina e “Lo specchio dei tempi”, indirizza l’opinione pubblica su binari ben precisi. In essa trovano posto le “inchieste” e le “denunce” interessate (il costo della vita, le case che mancano e che lo Stato dovrebbe finanziare, e così via), le cronache della Torino-bene e dei suoi eroi con le loro mensili “opere buone”, i preti e gli assi della Juventus, la cronaca delle disgrazie, degli incidenti (narrati, sempre, in stile “Cuore”), i fattacci degli immigrati (con appariscenti titoli: “calabrese ruba…”, “meridionale uccide…”, “siciliano rapisce…”) ed infine le buone azioni quotidiane.
Il tono è dato pur sempre dallo “Specchio dei tempi”. Questa rubrica epistolare, che si dice sia personalmente supervisionata dal direttore del giornale, è più una guida che uno specchio della pubblica opinione. In essa trovano posto regolarmente le recriminazioni antimeridionali, il patriottismo più vecchio (specialmente in occasione delle infinite rievocazioni risorgimentali), un’incredibile dose di richiami al “buon senso”, le piccole proteste (della vecchietta sui tranvieri scortesi, ad esempio, ma anche di Togliatti sugli chalet scomparsi dalla Valle d’Aosta o su “l’amore del prossimo”), e infine i “casi pietosi”. La soluzione miracolistica dei problemi più gravi, attraverso la sottoscrizione del “caro Specchio”, serve a contrabbandare il più vecchio dei paternalismi. Ma gli esempi più chiari sono sempre dati dalle lettere, accuratamente scelte e presentate con appropriati titoletti, che riguardano gli operai. L’esaltazione sfacciata del crumiro, condotta durante gli scioperi Fiat (e nella pagina di fronte, si trovava l’articolo di qualche noto scrittore o intellettuale di sinistra) col ricorso al patetico familiare o a quello della “libertà da difendere”; l’appoggio “fraterno” agli operai delle piccole fabbriche come ai tessili della valle di Susa, che guadagnano così poco, e che serve a ricordare agli operai Fiat la loro “condizione di privilegio”; la richiesta di un’automobile che un impiegato Fiat fa allo “Specchio” e che serve di pretesto per stimolare dozzine e dozzine di lettere che lo accuseranno di non volersi accontentare e lo inviteranno a ringraziare il cielo e Valletta del suo stato di privilegio – tutto questo mira al mantenimento di un clima di subordinazione passiva e addormentamento delle coscienze, mira alla conservazione di una Torino che si vorrebbe tranquillamente sottomessa e che non pensi da sé, ma si lasci guidare, accontentandosi di sentirsi blandita ed esaltata per il suo “buon senso”, le sue “tradizioni di civismo” e la sua “operosità”.
Per gli immigrati il discorso viene ripetuto fino alla ossessione, alla nausea: la Torino dal buon cuore che li accoglie, nonostante i loro difetti e i loro demeriti, chiede delle condizioni. Si dice insomma, e con il tono del padrone: siete sporchi e incivili, sfaticati e violenti, analfabeti e disonesti, ma noi – così bravi! – vi lasciamo venire… ma, attenzione!, c’è un patto da seguire: dovete cioè diventare come noi vi diciamo, come il bravo torinese medio, il buon operaio o impiegato che non dà fastidio, il cittadino gentilmente egoista.
Dovete “adattarvi” e adeguarvi: adattamento è una parola che si legge con estrema frequenza sulle pagine de “La Stampa” e si sente nelle relazioni e nei discorsi ufficiali sull’immigrazione, come nelle chiacchiere del tram o dell’osteria. I sociologi e gli psicologi – di fabbrica o no – ne fanno poi un uso superlativo, premurandosi tutt’al più di mascherare il concetto con il termine più intelligente di “integrazione”, ma intendendovi esattamente le stesse cose: tutta la tematica dell’immigrazione si riduce per loro, in fondo, a questo. Adattarsi vuol dire dunque inserirsi in uno stato di fatto accettandone in pieno le regole, non provocando scosse, non protestando per la propria condizione inferiore, seguendo i modelli offerti da chi comanda.

