L’urbanistica milanese come stato d’eccezione

l’urbanistica-milanese-come-stato-d’eccezione
L’urbanistica milanese come stato d’eccezione
(disegno di adriana marineo)

Si susseguono da giorni le notizie di indagini e arresti per personaggi noti della politica e dell’imprenditoria milanese, culminate questa mattina con quelle che riguardano il sindaco Beppe Sala, indagato nell’ambito della maxi inchiesta sull’urbanistica nella capitale lombarda, per la quale già sei arresti sono stati richiesti. 

Per quanto concerne il primo cittadino, le ipotesi di reato sono di false dichiarazioni su qualità proprie o di altre persone (relativamente alla nomina del presidente della Commissione per il paesaggio del Comune, Giuseppe Marinoni) e di induzione indebita a dare o a promettere utilità (intorno al progetto del cosiddetto Pirellino, dell’architetto Stefano Boeri e dell’imprenditore Manfredi Catella, presidente del gruppo Coima).

Proprio Manfredi Catella, costruttore e principale artefice dello sviluppo del nuovo profilo urbano milanese, era tra le persone per le quali era già stato chiesto l’arresto ieri. Gli altri sono l’assessore alla rigenerazione urbana del comune di Milano Giancarlo Tancredi, l’ex presidente della commissione paesaggio, Giuseppe Marinoni, Federico Pella della J+S spa, Alessandro Scandurra, della Commissione paesaggio ma anche consulente di Coima, e Andrea Bezziccheri, della società Bluestone. 

Sulle vicende politico-giudiziarie dell’urbanistica milanese, di cui ampiamente abbiamo scritto, vi proponiamo l’ultimo articolo in ordine di tempo, scritto da Lucia Tozzi e pubblicato sul numero 14 (maggio 2025) de Lo stato delle città.

*     *     * 

La rilevanza politica delle vicende dell’urbanistica milanese – il particolare modello di turbocapitalismo immobiliare-finanziario che è stato messo in atto, le proteste prima sommesse poi sempre più incalzanti dei cittadini, le inchieste, la legge SalvaMilano e gli eventi che si susseguono da allora – è, a gran torto, molto sottovalutata.

La vera posta in gioco non è certamente quella di natura giudiziaria. Le eventuali condanne dei vari soggetti inquisiti – funzionari di diverso livello, professionisti, imprese, ma non i politici che hanno concepito e alimentato le politiche filo-immobiliari – faranno il loro corso, e forse costituiranno una spinta per mobilitare finalmente quella parte di popolazione che non riesce a leggere le ingiustizie sociali se non alla luce del discrimine tra legalità e illegalità. Tuttavia, le indagini hanno avuto una funzione importantissima: sono state il perno tra i confitti sollevati dai comitati e dai movimenti e una percezione più diffusa, a Milano e in Italia, del sostrato profondamente malsano e classista, in ultima analisi produttore di diseguaglianza, del cosiddetto Modello Milano. Scaturite da una serie di esposti presentati dagli attivisti, le inchieste dei giudici hanno contribuito a fornire le prove materiali non solo delle irregolarità di molti cantieri, ma soprattutto dell’iniquità strutturale della crescita urbana per come è oggi concepita. Un sistema modellato sulla massima valorizzazione della rendita fondiaria, che impone una trasformazione fisica non solo escludente perché orientata al lusso, ma anche slegata dalla reale necessità di crescere (esistono abbastanza edifici vuoti da soddisfare la domanda abitativa, lavorativa e per i servizi) e funzionale alla concentrazione della ricchezza nelle mani di gruppi sempre più ristretti: costruttori, ricchi proprietari, studi d’affari e consulenza, finanza immobiliare e non.

I casi di questi palazzi o grattacieli spuntati in mezzo ai cortili o sul bordo dei parchi, al posto di piccoli box o magazzini, non sono eclatanti in quanto ecomostri (alcuni lo sono, ma non è la cosa più grave), bensì perché il modo in cui sono stati prodotti è l’avanguardia di un metodo che si sta tentando di generalizzare, di estendere a tutta Italia. In poche parole, si è costruito senza lunghi iter di approvazione, aggirando l’obbligo di realizzare i servizi per il quartiere che l’arrivo di nuovi abitanti richiede, cioè raccogliendo altissimi profitti in punti pregiati della città senza pagare quella parte di tasse e standard che la legge obbliga a restituire alla città stessa, e invadendo lo spazio urbano senza sottoporsi a quelle verifiche che il processo democratico e le norme vigenti obbligano ancora (per fortuna, e direi non abbastanza) a rispettare.

Se si trattasse di una dozzina o poco più di edifici presunti abusivi sarebbe ancora un fatto insignificante, ma questi sono solo la punta dell’iceberg di una pratica di densificazione diffusa (si parla di centinaia di situazioni analoghe), e sono l’effetto non di singole trasgressioni, ma di un meccanismo che è stato politicamente incoraggiato e alimentato a più livelli. Sono stati pensati e applicati cavilli interpretativi degni della più perversa mentalità burocratica per distorcere leggi urbanistiche chiare e comprensibili e volgerle a favore degli immobiliaristi e della rendita, chiamando questi barocchi palinsesti giuridici “semplificazioni”. Prima sono stati attribuiti eccessivi sconti sulle tasse e premi in cubatura a lavori che ristrutturassero gli edifici esistenti, invece di abbatterli e sostituirli, teoricamente per la buona ragione di limitare le nuove costruzioni e il loro insostenibile impatto ambientale e sociale sulla città. E poi si è provveduto a estendere la definizione di ristrutturazione a operazioni di abbattimento e ricostruzione di edifici anche completamente diversi, molte volte più voluminosi di quelli precedenti.

Con questi e altri strumenti si è creato quel paradiso fiscale, quello stato d’eccezione immobiliare che ha reso così facile e conveniente investire a Milano, a scapito sia dei territori concorrenti che dei cittadini milanesi che hanno perso, si calcola, almeno due miliardi di euro in mancati introiti.

Il lavoro di disvelamento operato dalle indagini, quindi, è stato ed è fondamentale per portare allo scoperto non solo e non tanto gli episodi di corruzione e truffa che pure sono emersi, quanto le dinamiche complesse e le conseguenze materiali di quella facilitazione degli interessi privati che è incarnata nell’idea e nella pratica della “rigenerazione urbana alla milanese”.

Il disagio abitativo, dall’epidemia di sfratti agli studenti con le tende, aveva già reso palpabile il lato oscuro che la neolingua delle politiche inclusive tentava di coprire. Ma fino a ora è stato abbastanza facile per la classe dirigente sostenere che si trattasse solo di esternalità negative di un processo di crescita virtuoso e insostituibile: la rigenerazione urbana, secondo la loro lettura, è lo strumento che serve per concretizzare il diritto alla città. Poi, purtroppo, l’eccesso di attrattività crea un desiderio troppo diffuso per la città rigenerata e alcuni restano fuori.

Quello che è emerso mostra invece inequivocabilmente che gli effetti erano previsti, facevano parte delle premesse: Milano doveva diventare una città Alpha, competere nella gara globale per attrarre gli investimenti più succosi, strapparli a città come Hong Kong, Londra e Singapore. Doveva costruirsi una reputazione nuova, allontanare i poveri, costruire i primi edifici di lusso per poi rimpiazzare zona per zona case popolari, servizi pubblici, spazi aperti con ambienti pittoreschi che combinassero un’immagine smart, pseudo green e dedita al consumo.

Una gigantesca sostituzione, una modifica del Dna urbano e delle vecchie regole urbanistiche e amministrative che garantivano ancora un regime moderatamente redistributivo, legato al welfare, alla manutenzione, all’accoglienza e al benessere dei cittadini. Rimuovere gli ostacoli di ordine giuridico a un nuovo modello di crescita urbana fondato sulla concentrazione della ricchezza nelle mani della finanza e del blocco immobiliare, sulla massimizzazione della rendita, è un punto cruciale dell’agenda neoliberale, come argomenta, tra gli altri, Antonio Calafati, commentando i fatti di Milano e mettendoli in relazione con un Manifesto for renewing liberalism pubblicato nel 2018 dall’Economist: “Nel Manifesto c’è in evidenza un tema che contraddistingue il paradigma neoliberale sin dalle origini, sin da quando nella Vienna degli anni successivi alla prima guerra mondiale gli economisti del Mises-Kreis iniziavano a definirlo: la pianificazione urbanistica deve essere sostituita dal mercato come dispositivo di regolazione della morfologia fisica della città”.

La conferma che non si trattava di incidenti, eccezioni, ma della prima fase di un progetto politico più ampio, mirato a erodere quelle leggi urbanistiche che ancora impongono a livello nazionale dei processi di controllo democratico sulla trasformazione spaziale, è leggibile nelle reazioni scomposte alle indagini. Media, politici, costruttori e funzionari milanesi hanno immediatamente lanciato una ricattatoria campagna d’allarme per il rischio di una paralisi dei cantieri, degli investimenti e dell’economia in generale. Nello stesso tempo hanno elaborato, insieme alla presunta controparte governativa, una legge (la famigerata SalvaMilano) che non condonava gli eventuali abusi, ma si poneva come “interpretazione autentica” del complesso di leggi urbanistiche e edilizie in vigore. Era un modo per negare ogni accusa di irregolarità e soprattutto per portare a termine con velocità insperata un colpo pazzesco: si sarebbe potuto estendere a tutta Italia la rigenerazione alla milanese, legalizzando questa forma di ingiustizia sociale e spaziale per l’intera cittadinanza.

Per fortuna questa soluzione era talmente insostenibile da destare, finalmente, l’attenzione di costituzionalisti e urbanisti, attivisti, giornalisti e politici anche al di fuori di Milano. Ma se la possibilità di fare approvare la legge SalvaMilano si è fortunatamente assottigliata, l’essenza dei suoi contenuti rischia di passare attraverso una vera e propria riforma urbanistica – la legge sulla Rigenerazione urbana – e una modifica al Testo Unico sull’edilizia. Una larga fetta del mondo professionale legato all’immobiliare, così come i sindaci e gli amministratori del resto d’Italia (anche per bocca del loro rappresentante Anci, Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli) hanno dato il loro appoggio alla Salva Milano, mostrando di condividerne lo spirito e la sostanza.

Non è difficile immaginare i motivi per cui una classe politica come quella che ci ritroviamo – sia a destra che a sinistra appiattita sull’orizzonte neoliberale – veda di buon occhio la fine della pianificazione pubblica e la dissoluzione delle ultime responsabilità della pubblica amministrazione. Più inspiegabile invece è la scarsa attenzione che la questione riceve nel mondo dell’attivismo, dei movimenti, persino quelli per la casa.

Dovrebbe essere ormai evidente che, se il capitale finanziario impiega così tanta energia per cambiare le leggi che ostacolano la propria libertà di azione nell’appropriarsi delle città, allora difenderle è essenziale. Di sicuro non è sufficiente per trasformare una situazione che precipita verso la guerra e forme di diseguaglianza radicale, ma è un passaggio indispensabile per chi cerca di invertire i processi di distruzione climatica e territoriale, di mercificazione della cultura e del lavoro sociale. Se si cancellano i vincoli che ancora impongono alla trasformazione del territorio una funzione orientata all’interesse pubblico, l’impatto della rigenerazione sulle classi svantaggiate sarà sempre più violento. Gli sfratti, le espulsioni, la dissoluzione della dimensione pubblica e gratuita degli spazi aumenterà, mentre si ridurranno le condizioni anche fisiche per lottare ed esprimere il dissenso.

La Milano di questi giorni sta assistendo incredula a due nuovi risvolti della crisi urbanistica: il primo è la svendita dello stadio di San Siro alle due società Milan e Inter, che il sindaco sta conducendo come una furia a dispetto del clima di sfiducia politica e di cinque anni di opposizione da parte di comitati e attivisti. Il secondo è la lacrimosa protesta delle centinaia di famiglie coinvolte nell’acquisto degli appartamenti di lusso o semi-lusso bloccati dalle inchieste giudiziarie, che invocano l’approvazione della legge SalvaMilano per salvare i loro improvvidi investimenti. Due figure, quella del potere autoritario che persegue il progetto del capitale fino al suicidio, e quella dell’interesse proprietario che non vede altro all’infuori di sé, che lavorano in combutta per richiudere in fretta la finestra di conflitto, critica, ragionevolezza che si è aperta contro la rigenerazione urbana.

Le forze che tramano per il ritorno al business as usual, alla cura dell’immagine, a quell’ottimismo crudele che ci distrae mentre chi comanda lavora indisturbato alla nostra rovina, sono molte: i grandi eventi come giubilei, olimpiadi, giù giù fino alle biennali, i saloni, i festival e le città della cultura; la ruota del criceto dell’economia turistica; i fondi che ci stanno spogliando del welfare, dello spazio vitale, delle risorse e delle leggi che ci tutelano; gli intellettuali venduti alla guerra e allo squallore delle loro miserabili quote di prestigio; l’esercito della comunicazione, che non sopporta l’emersione nelle coscienze del piano materiale e si adopera per offuscare la vista e contaminare il linguaggio appena un lembo del velo si solleva. Non lasciamoglielo fare.

Related Post