Maranza di tutto il mondo, unitevi! Note sul libro di Houria Bouteldja

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Maranza di tutto il mondo, unitevi! Note sul libro di Houria Bouteldja

Quando chiedo alla commessa di Libraccio se abbiano in negozio il nuovo libro di Tommaso Sarti – Pisciare sulla metropoli. (T)rap, Islam e criminalizzazione dei maranza (DeriveApprodi, 2025) – lei litiga con il monitor perché è convinta che ci sia. «Devo averlo confuso con un altro», mi fa, scusandosi. La guardo comprensivo: non è così usuale che nello stesso mese vengano pubblicati due libri sui maranza, anche io mi sarei confuso. L’altro libro che ho in mente è La periferia vi guarda con odio. Come nasce la fobia dei maranza di Gabriel Seroussi (Agenzia X, 2025). Eppure, non è a questo che stava pensando lei: «L’ho confuso con quello dal titolo tradotto malissimo». La guardo confuso. Sebbene la sua non sia proprio una gran pubblicità, è questo tipo di frasi che suscita l’interesse di alcuni lettori. Vado a vederlo al piano di sotto: Maranza di tutto il mondo, unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie (DeriveApprodi, 2024). Il titolo originale è Beaufs et barbares. Le pari du nous di Houria Bouteldja (La Fabrique éditions, 2023), uscito in Francia due anni fa. Copertina stile La haine ma a colori, autrice franco-algerina militante e nota editoriale dal titolo: Perché maranza. Lo compro.

Nella nota editoriale si spiega che la parola “maranza” traduce contemporaneamente “beaufs”, termine ai limiti dell’intraducibilità con cui generalizzando possiamo intendere il proletariato bianco, e “barbares”, che per Bouteldja sono i proletari indigeni, ovvero i nativi dei territori colonizzati, oggi immigrati, regolari e non, in Francia e negli altri paesi europei. Questa scelta la trovo coraggiosa. Sulla seconda parte della frase invece, con quell’invito a unirsi accompagnato da un altisonante punto esclamativo, sono d’accordo con la libraia: quantomeno discutibile.

La prima volta che ho sentito il termine “maranza” era tre anni fa. Chi lo pronunciava alludeva a una serie di video che circolavano su TikTok in cui dei ragazzini molto giovani ostentavano azioni provocatorie e violente. I video provenivano soprattutto dal nord Italia. Maranza però non è un neologismo. La parola si trova già in una canzone di Jovanotti (Il capo della banda, 1988), che in un’intervista di quell’anno rivendicava di essere lui stesso un “maranza”, attribuendo al termine questa definizione: “è quello che si impunta”. Se prima la parola era utilizzata solo da una nicchia di persone del milanese con un’accezione più o meno positiva, dal 2022 il termine è diventato di uso comune con una connotazione fortemente negativa proprio a seguito di quei video. Difficilmente oggi Jovanotti rivendicherebbe di essere un maranza, come faceva sul finire degli anni Ottanta. Il termine oscilla tra una connotazione criminale, pericolosa, e una più burlesca, quasi comica, ma pur sempre denigratoria.

LIBERTÉ MA NON PER TUTTI
Ponendosi da una prospettiva diversa rispetto ai tradizionali libri di storia, Bouteldja rilegge la periodizzazione storica convenzionale in chiave razziale. La razza, parola ripudiata dal dibattito pubblico odierno, diventa qui il motore silente che aziona la macchina della Storia. Sin dall’antichità, gli schiavi erano innanzitutto un soggetto razzializzato. La Modernità, che convenzionalmente comincia con la scoperta dell’America nel 1492, ha inizio con il genocidio di un popolo: gli indigeni americani, rei di incarnare una razza fino a quel momento sconosciuta e di abitare terre piene di risorse predabili. Data l’enorme quantità di ricchezza di cui disporre, c’era bisogno di identificare chi potesse beneficiarne e chi no; per questo, negli anni a seguire, nascono gli stati moderni. Inghilterra, Olanda, Francia – ma dal 1776 anche Stati Uniti – si contendono ripetutamente l’egemonia su queste ricchezze. Con lo stato moderno l’individuo rinuncia a una parte della sua identità per identificarsi con lo stato a cui appartiene; in cambio, egli pretende che, all’interno di esso, gli siano riconosciuti una serie di diritti e di privilegi: l’istruzione, la libertà di parola, il voto; ma anche l’accesso a una parte delle ricchezze provenienti dagli stati colonizzati. Solo all’interno dello stato, perché lo stato moderno è intrinsecamente razzista e costitutivamente selettivo.

È evidente allora come la Rivoluzione francese costituisca sì una liberazione, ma solo per qualcuno. La schiavitù, abolita dalla Convenzione montagnarda nel 1794, ritorna già nel 1802; la colonizzazione in Africa è al suo apice durante il diciannovesimo secolo, e la Francia ne è una dei grandi protagonisti: Liberté, Égalité Fraternité per qualcuno, non per tutti. Gli stati moderni europei hanno però dei fratelli, figli della stessa grande madre: la razza europoide. Per questo, se non è importante quello che spetta al cittadino di un’altra razza, è però molto importante che le pretese di un cittadino di uno stato fratello siano accontentate. Qui l’autrice riprende Gramsci, che aveva teorizzato l’esistenza dello “stato integrale”, ma si spinge oltre, introducendo il concetto di “stato razziale integrale”. In questi stati, le rivendicazioni politiche esistono, non sono represse, ma sono chiuse nel recinto della razza. La lotta di classe si riduce a un conflitto tra bianchi: “La battaglia tra la borghesia e il popolo, per quanto feroce possa essere, rispetta globalmente il paradigma razziale/coloniale che stringe il campo politico come in un corsetto. I due blocchi che si fanno la guerra, separati da rapporti antagonisti di classe, sono invece uniti dalla razza”. (p. 79)

Il nazi-fascismo del ventesimo secolo allora è un’anomalia: questa si spiegherebbe come l’esclusione – definitiva? – della parte più estrema dello Stato razziale integrale. Perde il nazi-fascismo, ma vincono gli “stati razziali progressisti”: Inghilterra, Stati Uniti e Francia. Isolando la parte violenta degli “stati razziali integrali”, le potenze occidentali si assicurano la sopravvivenza degli stati nati dal 1492 in poi. Arrivando alla contemporaneità, con questa prospettiva l’autrice rivaluta l’astensionismo: “Votare significa votare bianco… tranne quando – ironicamente – la scheda è bianca. Nonostante sia azzardato dare un senso definitivo e univoco allo sciopero elettorale […] la loro ‘miseria civica’ non è altro che un atto di rivolta contro un dispositivo che organizza l’impotenza, impedisce qualsiasi riforma”. (p. 84).

A questo punto Bouteldja avanza la sua proposta politica: un’alleanza tra i due soggetti del titolo, beaufs barbares. Queste due forze sono in conflitto, come riconosce l’autrice stessa, dal momento che i beaufs identificano una delle cause del deterioramento del loro stile di vita proprio nella presenza dei barbares nei loro stati (non è un caso infatti che i neri e gli arabi si siano rifiutati di aiutare i gilet gialli nel 2018). Eppure, secondo Bouteldja, i due gruppi hanno un nemico in comune: l’Unione Europea, “il punto debole dello stato integrale” (p. 129). Solo con l’obiettivo comune di un’uscita della Francia dall’Unione Europea si potrebbero radunare le forze dei due schieramenti. Il problema però è che il ritorno a una prospettiva nazionale comporta inevitabilmente il rischio di una svolta nazionalista, che colpirebbe proprio i barbares. Qui l’argomentazione dell’autrice sembra più fragile: seppur si mostri consapevole di questo rischio, Bouteldja confida in un orizzonte più ampio, che scongiuri la minaccia nazionalista: “Bisogna iscrivere la Frexit decoloniale in una nuova geografia politica, che deve implicare solidarietà e fratellanza con i popoli del Sud e anche una rottura della meccanica dello sfruttamento su cui si fondano i rapporti asimmetrici tra la Ue e il Sud globale” (p. 139). Questa prospettiva, seppur affascinante, appare molto problematica: come definire chi fa parte del Sud globale e chi no? E, soprattutto, come evitare che si ripresentino le stesse dinamiche di sfruttamento che caratterizzano la geopolitica contemporanea?

NOI E I MARANZA
Sebbene l’autrice parli della Francia, questo saggio si inscrive molto bene anche nella cornice italiana con le sue specificità. Nonostante il diverso rapporto con la cultura islamica, anche in Italia l’islamofobia è in crescita. Secondo Bouteldja, questa è “l’arma congiunturale della controrivoluzione coloniale […], un tassello chiave al servizio dello stato razziale integrale”. (p. 126). Da quando il termine “maranza” è divenuto di uso comune, questo non si sente solo nei comizi elettorali di Vannacci e Sardone, ma si ripete spesso per strada, in televisione, sui social.

È del 5 novembre scorso il post di Ryanair Italia che afferma: “Ci riserviamo il diritto di non servire chi indossa tute da maranza” (con tanto di didascalia: “facciamo noi le regole”). La parola è usata soprattutto nell’ambito della sicurezza: i maranza sembrano essere diventati il più grande pericolo per la nostra incolumità. È nota l’indagine della Digos secondo cui alcuni esponenti dell’estrema destra avrebbero organizzato delle “ronde anti-maranza” volte a riportare l’ordine e la sicurezza nelle strade milanesi; pare anche però che alcuni dei responsabili del blitz all’occupazione del liceo Da Vinci di Genova, indagati per danneggiamento aggravato e apologia di nazismo a causa delle svastiche disegnate sui muri, siano “maranza”. Ma chi sono allora i maranza?

Se non è esatto che la parola maranza sia un neologismo, come affermato nella nota editoriale (p. 7), è pur vero che, nel suo nuovo utilizzo, il termine di fatto combini le due parole “marocchino” e “zanza” (Gabriel Seroussi sostiene che questa idea sia un falso mito: probabile, ma di fatto oggi la parola richiama istintivamente questi due termini). Anche la parola “zanza” ha una storia molto particolare, ma possiamo ipotizzare che derivi da “zanzara”, insetto particolarmente fastidioso. Uno “zanza” è infatti un “imbroglione, truffatore, furfante” (Treccani), oppure, in senso più ampio, un “tamarro”. I maranza sarebbero quindi dei micro-criminali di origini marocchine o, nel migliore dei casi, dei tamarri magrebini. È sempre più diffuso però un utilizzo del termine con riferimento a quegli adolescenti, anche di origine italiana, che vivono – come i ragazzi marocchini – l’emarginazione delle periferie, ascoltano un certo tipo di musica e vestono con le fantomatiche “tute da maranza”. Da qui l’idea della traduzione del titolo: Maranza di tutto il mondo, unitevi!

Come ci racconta Bouteldja, in Francia il razzismo non è cosa di pochi, e lo stesso si può affermare per l’Italia. Tutti abbiamo condannato quel manipolo di ultras della Fiorentina che insultarono Kalidou Koulibaly dicendo “scimmia di merda”, ma quanti di noi rinuncerebbero al diritto di prelazione che sentiamo di avere su quanto ci circonda rispetto a un immigrato irregolare? Dire maranza vuol dire parlare dal di qua di una barricata, vuol dire che c’è un “noi” e c’è un “loro”; eppure, cos’altro ci rende diversi da “loro” se non la convinzione, sedimentata nelle tradizioni delle nostre famiglie, di meritare dei privilegi solo in quanto cittadini di uno “stato razziale”? Allora, dimenticando per un attimo quanto discutibile possa essere la traduzione del titolo, bisogna riconoscere a quest’associazione linguistica il merito di strappare la parola maranza alle connotazioni razziste sempre più diffuse di Sardone e Ryanair – ma anche di tanta gente di sinistra – e renderla, forse per la prima volta in Italia, soggetto politico attivo. (federico murzi)

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