Marsiglia, la sentenza sui “mercanti di sonno” sette anni dopo la strage di rue D’Aubagne

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Marsiglia, la sentenza sui “mercanti di sonno” sette anni dopo la strage di rue D’Aubagne
(archivio disegni monitor)

5 novembre 2018. Nove di mattina. Due edifici crollano a rue D’Aubagne a Marsiglia. È il mio quartiere, la strada in cui vivo da dieci anni. Un quartiere popolare in cui ci si era abituati che le scale degli immobili fossero storte, che le crepe a muri e soffitti disegnassero ogni mese nuove geometrie. Muoiono otto persone. I loro nomi e le loro biografie ci scuotono tutti. Studenti fuori sede, giovani lavoratori, madri di famiglia.

Gli otto morti sono il quartiere, un miscuglio di traiettorie umane che condividono uno stesso luogo.

Oulome, comoriana, madre di sei bambini, Marie-Emmanuelle, un’artista di Grenoble, per tutte e due la vita si ferma a 55 anni. Julien, franco-peruviano ha appena compiuto 30 anni, Fabien è pittore, Taher, tunisino e Cherif, algerino, sono ospiti a casa di Rachid, che non è lì quella mattina. Sono invece insieme Simona e Pape, italiani, lei di Taranto, lui di origine senegalese.

La morte di Simona, appena trentenne, forse dà un brivido in più a tutti noi italiani e italofoni venuti negli anni a vivere qui. La città dà la colpa alla pioggia. Il sindaco non va sul luogo del dramma perché sta inaugurando un salone del cioccolato, e si sa, nella vita, e nella politica, ci sono priorità. La gente si indigna. Scende in strada, protesta, si fa riempire di gas lacrimogeni da una polizia che forse per imbarazzo reagisce con troppa veemenza.

Un lacrimogeno sbaglia strada e colpisce Zineb, ottant’anni, che guarda la manifestazione al quarto piano, dalla finestra. Zineb muore. Nove.

Questo va e vieni di manifestazioni, di indignazione e repressione violenta durano mesi, noi, forse, riscopriamo una dimensione collettiva di abitanti attraverso il lutto. Come un segreto di Pulcinella si scopre che decine, centinaia di case sono in pericolo. La gente è espulsa, per ragioni di sicurezza, alloggiata qualche settimana in un motel all’altro capo della città e poi dimenticata.

Io ho appena comprato casa, ogni mattina mi informo con la vicina che ha la madre che lavora in Comune se rischiamo anche noi. Gli espulsi mi somigliano quasi più che i morti. I bobo. Siamo noi. Tutti per strada perché lo spazio pubblico è il nostro mezzo di informazione.

E per una volta nessuno guarda agli altri con compassione, nessuno osserva con un piglio da antropologo la miseria altrui. Popolo in fondo lo si è tutti. Nella sfiga c’è posto per tutti.

Nel quartiere si iniziano ad aggirare promotori immobiliari che come avvoltoi per qualche soldo ricomprano le case in cui la gente non può più entrare. Io faccio fatica a non notare con amarezza l’ironia dei supermercati: quando paghi ti propongono di dare soldi per Notre-Dame che è bruciata ad aprile: lutto nazionale. Della rue D’Aubagne e dei suoi morti, invece, ci sono i cartelli, le voci che gridano con rabbia, ma non certo molta eco tra giornali e discorso di massa.

7 luglio 2025. Sono passati quasi sette anni. Il tribunale emette la sentenza. Il sindaco è morto. Né per la pioggia, né per condizioni insalubri: era vecchio. Ma nel frattempo aveva perso le elezioni, dopo venticinque anni, anche per via dell’indignazione popolare per il dramma della rue D’Aubagne che aveva portato alla creazione della Primavera Marsigliese, un movimento popolare che aveva vinto le elezioni, per la prima volta con una donna sindaco, a dire il vero durata poco.

Questo processo è sicuramente merito di un movimento che non ha smesso di rimanere attento, che non ha barattato l’indignazione e la rabbia per niente. Che si è organizzato.

Nella sentenza si mette in evidenza tutto il sistema di malgoverno e quello della speculazione sulle abitazioni insalubri e popolari. Si dà finalmente una faccia ai marchands de sommeil, letteralmente “mercanti di sonno”, che di poetico hanno solo il nome. Si scopre che sono avvocati, società rispettabili, funzionari in doppio petto. A ricevere una condanna persino Ruas, vicesindaco e delegato agli alloggi insalubri della città. Il giudice lascia intuire che solo la morte ha salvato il vecchio sindaco da essere definito il vero capomafia di tutto l’inghippo. Eppure, le condanne sono nel peggiore dei casi un anno di braccialetto elettronico a bordo piscina. Per lo più sono pene di sursis, cioè stai attento, se lo rifai rischi grosso… Le multe poco più che per un divieto di sosta. La vita di Simona vale ottantamila, le persone che hanno perso casa, dopo aver dimostrato che avevano subito un danno psicologico maggiore, possono, forse, ottenere otto o novemila. Chi non aveva un contratto d’affitto in regola come potrà dimostrare che viveva lì?

Si esce tutti dalla sala. Un processo importante. Necessario. Una lente d’ingrandimento sul giochino della mafia che ha scoperto che con più sabbia e meno cemento si gioca al lascia o raddoppia e soprattutto che la miseria e la precarietà sono un ottimo supermercato. Eppure si esce sgomenti. Si sono sentite cose tremende e letti messaggi sconcertanti degli imputati. Parole che trasudano un disprezzo per l’umano che sembra quasi grottesco. La distanza tra le frasi perentorie del giudice che li dichiara colpevoli di lunghe liste di atti vergognosi e le condanne quasi simboliche.

Un meccanismo malsano è stato messo a nudo dal lavoro infaticabile dei superstiti. La città aveva sei milioni per gestire le case insalubri. Ne ha spesi solo trecentomila. Ma quel menefreghismo li assolve dal delitto di corruzione. In tutte quelle case gli abitanti avevano da tempo dato l’allarme. Un tecnico li aveva rassicurati il giorno prima del dramma. Partiva per la Grecia il giorno dopo. È dichiarato colpevole di negligenza, ma non di averne approfittato: la vacanza era prevista da tempo.

Quando i colpevoli escono, la folla grida un qualche  indignato “assassini”. Nelle manifestazioni le urla erano molto più forti, qui lo si grida con voce rotta. Un avvocato, peraltro della difesa della parte civile, ci rimprovera dall’alto della sua consapevolezza del bene e del male. «Vergognatevi, non hanno mica pugnalato qualcuno. Siate grati, senza di noi non avreste mai avuto giustizia», ci insegna. Immagino Simona, Julien, Taher, Marie Emmanuel, Cherif, Pape, Ouolume, Fabien. La sentenza ha detto che non hanno avuto paura. Che non c’è stata agonia. La morte è arrivata improvvisa e per questo il rimborso vale meno. Quanto fa male una pugnalata? Quanto ci serve questa giustizia edulcorata? (manuel maria perrone)

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