Pornografia o documentario? San Damiano, un film sulle disgrazie di Termini

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Pornografia o documentario? San Damiano, un film sulle disgrazie di Termini
(archivio disegni napolimonitor)

Nel 1949, utilizzando per la prima volta in Italia il registratore magnetico a nastro, il giornalista della Rai Roberto Costa realizza un documentario inchiesta che rimane nella storia del giornalismo radiofonico. Si chiama I barboni. Dopo anni di conversazioni con decine di persone che vivono tra le strade di Milano, Costa affida loro il microfono. Ci sono disoccupati, cantanti, musicisti, poeti, “gente che si è fatta una cultura rinunciando a ogni cosa superflua”. È un lavoro onesto: l’autore scende per strada, ascolta, impara, riflette, registra. Nessun pugno nello stomaco, nessuna musichetta commovente a sottolineare i racconti. Sono biografie autentiche, complesse. Una ex insegnante caduta in disgrazia durante la guerra, un ex ufficiale dell’esercito, una ex studentessa universitaria separata dal marito che vende fiori per strada, “il mondo è pieno di gente che dà consigli, ma nessuno aiuta”, dice nel registratore.

L’ho riascoltato, dopo avere visto al cinema San Damiano, film del 2024 di Alejandro Cifuentes e Gregorio Sassoli, in questi giorni sul grande schermo di decine di sale italiane. I registi incontrano Damiano vicino alla stazione Termini e iniziano a filmarlo. Damiano è un trentacinquenne polacco fuggito dall’ospedale psichiatrico di Breslavia, è ripreso mentre monta audacemente su una torre delle mura aureliane alle spalle della stazione, è ripreso mentre infila il suo pene tra le chiappe di una donna alle spalle dei binari, mentre picchia ripetutamente un uomo, mentre una donna lecca avidamente il suo piede. Le immagini sono perfette, la fotografia nitida, la colonna sonora coinvolgente. Attorno a Damiano, ci sono uomini e donne disperati, una ragazza si infila un ago in una mano, una donna mostra le tette alla telecamera, un’altra il pube, un uomo balla di fronte all’obiettivo, guarda dritto in camera e spacca a gomitate il vetro di una macchina.

Nei giorni successivi leggo qualche recensione. “Senzatetto ma turrito, Damiano ci prende e ci si porta via, interrogando la nostra visione fin nel profondo, laddove è morale”. “Si avvale di una sincera libertà creativa che è davvero rara, in una stabilità che non si incrina neppure davanti a un possibile eccesso ed è attraversato da una sorta di purezza”. Scopro anche che è stato premiato di recente a Lo Spiraglio Film Festival della Salute Mentale di Roma “per la potenza della sua narrazione, che affronta con profondità i temi della migrazione, del trauma e della violenza vissuti dai protagonisti ritraendo il personaggio principale con realismo, senza idealizzarlo né censurare le sue contraddizioni”.

Ne parlo con Francesco Conte, giornalista, attivista, da anni frequenta la stazione Termini, stringe amicizie, racconta storie, insieme al gruppo Mama Termini organizza cene, distribuisce cibo ogni domenica nella piazza antistante la stazione e anima lo spazio pubblico con concerti. “Il punto non è il film, ma quello che c’è dietro. Critichiamo il prodotto senza capire come è stato prodotto. San Damiano è come i pomodori raccolti dai sikh a Latina, i recensori mangiano il pomodoro ma non si chiedono davvero da dove arrivi. Fin quando la gente che si occupa di cultura non esce davvero per strada, questa cultura è divertissement borghese”.

Che i registi in qualche misura si siano affezionati al protagonista, traspare da un passaggio del film – che fatico onestamente a chiamare documentario – in cui i due accompagnano Damiano, che aspira a diventare cantante, in una sala di registrazione. Tuttavia ancora una volta il racconto cede il passo all’esibizione, si riduce a due minuti di ripresa del matto che canta nella sala, urla, si sgola, si danna per qualcosa che non torna. Della sua musica nelle nostre orecchie non rimane nulla. L’episodio narrato allarga ancora di qualche chilometro quello spazio tra il noi che siamo qui, seduti sulle poltroncine a guardare, e il loro davanti alla camera, sporchi e disperati. Eppure qualcosa dentro noi – sempre quelli delle poltroncine – si muove. Non è ascolto, non è comprensione: è l’appagamento di una sordida brama pornografica di sangue, disgrazia e fango.

Il film ha un epilogo spettacolare: Damiano, dalla cima della torre in cui ha costruito il suo rifugio, appicca un incendio. I “documentaristi” documentano. Arrivano le forze dell’ordine. Damiano è rispedito in Polonia, ora è di nuovo in un ospedale psichiatrico. (marzia coronati)

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