
Sette cancelli separano il mondo di fuori da quello di dentro. Hanno detto così le donne che stanno dentro. Ogni settimana provo a contarli, ma mi fermo a cinque. Gli ultimi due mi mancano, si perdono. La separazione tra fuori e dentro è un calcolo che non torna.
Fuori, sul verde acceso delle campagne, si affaccia la dormiente del Sannio: il monte Pentime che disegna i capelli sciolti fino al fiume Calore, un corpo addormentato che poggia le gambe sul Taburno.
Dentro, un piccolo televisore che trasmette la puntata di Uomini e Donne, chiavi grandi, mai viste così grandi, un’immaginetta di Padre Pio, il suono del metal detector, quotidiani non letti che dicono che il Napoli crede nello scudetto.
Fuori-dentro, ogni venerdì. E poi di nuovo fuori, io.
In macchina parte Friday I’m in love.
Parcheggio davanti a quel mostro di cemento marrone che da bambina mi sembrava avesse qualcosa di inquietante, come la bocca di una balena spalancata sulle campagne, pronta a divorare per lasciare posto soltanto al silenzio.
Sezione femminile, laboratorio di teatro, i nomi da segnare. Sempre quelli.
Ogni settimana si entra nella pancia della balena con Exit Strategy, nata come associazione a Benevento nel 2013 mettendo al centro l’autodeterminazione femminile in un territorio in cui le diverse facce della violenza di genere restano spesso un magma sommerso. Un’associazione di donne che fin dal primo momento decide di occuparsi delle più invisibili, quelle detenute e private della propria libertà, e decide di farlo attraverso il teatro.
In testa ho ancora il ritornello di quella canzone dei Cure sentita in macchina. Robert Smith dice di averla scritta viaggiando in auto verso casa in un venerdì in cui non vedeva l’ora di tornare.
Tornare dalla famiglia è un pensiero costante di chi sta qui, scandito da ricorrenze che certe volte sembrano un gioco sadico per chi è lontano. Il compleanno di un figlio, quello proprio, un anniversario. Una lettera. Loredana, nome di fantasia, racconta che quando sapeva di dover andare in carcere è andata dal parrucchiere a tagliarsi i capelli, perché sapeva che lì sarebbe stato complicato asciugarli lunghi com’erano. Penso al rumore di phon accesi coperto solo dalle canzoni alla radio, alle donne che si preparano per il sabato sera, per una cerimonia, alla palettina monouso lasciata nel bicchierino di caffè vuoto mentre si aspetta con il colore in posa, all’affollarsi di opinioni da superficie e frasi euforiche, al commento sul nuovo taglio. Alla sua testa mentre la parrucchiera le chiede se l’acqua va bene o è fredda, mentre si fa i capelli per il carcere.
La lontananza si nutre di un conto alla rovescia verso il fine pena. Ma per qualcuno quel conto è solo uno in più tra quelli che non tornano. Per Anna, altro nome di fantasia, la fine pena è mai. Dieci anni fa ha messo piede nella pancia del mostro. Racconta: “Non sapevo nulla del carcere. Non sapevo cosa mi aspettava all’interno di quello stabile che mi sembrava tanto freddo e che avevo capito che da quel giorno sarebbe dovuta essere la mia casa”. Entrare in carcere per lei è significato diventare invisibile, la chiusura totale in se stessa. Una condanna troppo grande per essere sopportata. Una condanna senza numero. I numeri da contare ogni giorno sono sempre gli stessi. Ma un giorno poi diventano di nuovo sette. 1: cancello della cella, 2: androne del femminile, 3: fuori dal femminile, si respira l’aria, 4: matricola, 5: portellone che si apre vicino l’uscita, 6: dove gli agenti depositano le loro cose, 7: l’ultimo, quello della libertà.
Sette cancelli sono anche quelli che hanno dato il titolo a uno spettacolo portato in scena un anno fa al Teatro comunale di Benevento. Per salire sul palco ad Anna viene accordato un permesso di otto ore che assomiglia a un miracolo. Di quella serata dice: “In quelle otto ore non ero più una detenuta, ma una persona con tanta voglia di vivere, di amare e di spiegare la mia vita, anche se sembra che vita non è”.
La vita passa attraverso le sbarre nei mandarini che spuntano sui rami, certe volte è la felicità di farsi la crema idratante con l’olio d’oliva, come dice una di loro. La vita è quella che poi al mostro di cemento viene data in pasto. Il 2024 è stato l’annus horribilis dei suicidi in carcere. Il rapporto annuale di Antigone parla di ottantotto persone detenute che si sono tolte la vita. Mai così tante. Nello stesso anno, mentre il ministro Nordio parla dell’importanza del lavoro per il reinserimento sociale e l’abbassamento del rischio di recidiva, dal ministero della giustizia è arrivato un taglio pari a circa il cinquanta per cento dei fondi destinati al pagamento delle persone detenute lavoranti in carcere.
Nel mese di aprile di quest’anno, nella visita dell’osservatorio di Antigone alla Casa circondariale di Benevento, vengono rilevate 378 persone ristrette a fronte di una capienza massima di 259 posti. Il reparto femminile in particolare ha una percentuale di sovraffollamento pari a circa il duecento per cento, un incremento dovuto anche al trasferimento delle donne sfollate dalla casa circondariale di Pozzuoli. Sempre Antigone riporta la carenza di personale sanitario e segnala che oltre i due terzi della popolazione detenuta assume psicofarmaci al bisogno, mentre lo psichiatra si reca in istituto per solo quattro ore a settimana.
Esco e mi lascio il mostro alle spalle. Al semaforo c’è un ragazzo che vende rose sotto la pioggia. Friday I’m in love. (giulia tesauro)