Tra giustizia e ragion di stato. La posta in gioco del processo dell’Aquila ai tre palestinesi

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Tra giustizia e ragion di stato. La posta in gioco del processo dell’Aquila ai tre palestinesi
(disegno di adriana marineo)

Tra il 24 e il 27 giugno si svolgeranno, in concomitanza con le udienze previste presso il tribunale di L’Aquila, una serie di iniziative di mobilitazione a sostegno dei tre cittadini palestinesi Anaan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh.

Tra queste iniziative c’è la presentazione del numero 14 de Lo stato delle città al laboratorio Radici, partendo dall’articolo scritto sulla questione da Francesca Di Egidio, e con il supporto di CaseMatte L’Aquila e Fuori Genere. L’incontro si svolgerà martedì 24 al laboratorio Radici (via Leosini, 6) a partire dalle 18:30. Di quell’articolo vi proponiamo a seguire un estratto. 

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Il procedimento, che oggi entra nella fase dibattimentale, è stato preceduto da quasi un anno di mobilitazioni. Un percorso cominciato con l’arresto di Anan, che nelle ultime settimane ha ripreso forza con assemblee, presìdi, manifestazioni in diverse città italiane. Una rete, quella di “Free Anan”, che negli ultimi tempi ha raggiunto anche altre città europee come Marsiglia e Parigi. Questa storia, che oggi porta un centinaio di persone davanti a un tribunale, comincia proprio qui, all’Aquila, nel marzo 2024, quando Anan Yaeesh viene arrestato su richiesta di Israele. Inizialmente si trattava di una richiesta di estradizione: lo stato israeliano lo accusava di appartenere a una cellula terroristica attiva a Tulkarem. Il ministro della giustizia, Carlo Nordio, trasmetteva prontamente gli atti alla Corte d’Appello dell’Aquila, che ne disponeva la custodia cautelare. Il 13 marzo 2024, la Corte d’Appello negava l’estradizione, riconoscendo che, in caso di consegna a Israele, l’uomo avrebbe rischiato trattamenti crudeli, inumani e degradanti. I giudici basano queste decisioni su documenti delle Nazioni Unite, rapporti di Ong internazionali e osservazioni costanti su ciò che accade nelle carceri israeliane. Accolgono così il principio di non-refoulement, secondo il quale nessuno può essere trasferito verso un paese dove rischia tortura o violenza.

La vicenda giudiziaria però non si conclude. L’Italia, dopo aver negato la consegna a Israele, decide di trattenere Anan e di aprire un nuovo procedimento, stavolta su iniziativa autonoma della procura. L’11 marzo, due giorni prima della decisione della Corte d’Appello, i magistrati aquilani ottengono una nuova ordinanza di custodia cautelare. Oltre ad Anan, vengono arrestati anche Ali Irar e Mansour Doghmosh, accusati di associazione con finalità di terrorismo internazionale (ex art. 270 bis c.p.). Secondo l’accusa, i due sono coinvolti soprattutto per la loro vicinanza ad Anan: è anche grazie a questo legame che viene costruita l’ipotesi di un’associazione terroristica.

Non si tratta più di eseguire una richiesta estera. Questa volta è lo stato italiano che si fa carico dell’inchiesta, che prolunga la detenzione di Anan, che assume l’impianto accusatorio costruito da Israele in un altro ordinamento giuridico e in un altro contesto politico. E lo fa utilizzando le stesse fonti, le stesse prove, gli stessi verbali raccolti dalle autorità israeliane nei territori occupati. È difficile non vedere, in questa scelta, una forma di supplenza. Per alcuni osservatori è un precedente grave, esempio di come il sistema penale possa diventare strumento di repressione politica anche fuori dai propri confini.

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Il processo che si è aperto all’Aquila rappresenta un precedente giuridico e politico delicato e non privo di implicazioni. Da un lato, ci mostra fino a che punto possa spingersi la cooperazione giudiziaria in materia di antiterrorismo: l’Italia si ritrova a giudicare atti avvenuti nei territori palestinesi occupati, basandosi su elementi istruttori prodotti da uno stato straniero, Israele, e assumendo in proprio un impianto accusatorio costruito dentro un altro ordinamento giuridico e in un altro contesto politico. Dall’altro, evidenzia quanto le dinamiche geopolitiche riescano a infiltrarsi nei margini della giustizia, spingendola oltre i suoi confini ordinari: il principio di giurisdizione territoriale, il diritto alla difesa, la necessità di rispettare il diritto internazionale vengono messi alla prova da logiche di alleanze e rapporti di forza. Fino a che punto uno stato che si professa democratico può processare una forma di resistenza armata legata a una causa di liberazione nazionale, e farlo in nome della lotta al terrorismo? La distinzione tra terrorismo e resistenza, tra dissenso e minaccia, appare oggi sempre più fragile nel linguaggio giuridico, soprattutto in un’Europa che, dopo il 7 ottobre, sembra tollerare sempre meno ogni forma di mobilitazione legata alla causa palestinese.

Nei prossimi mesi il dibattimento proseguirà con un calendario serrato. L’udienza del 16 aprile ha intanto aggiunto alcuni elementi rilevanti. Tra i testi dell’accusa ascoltati vi era un perito balistico,  incaricato di analizzare un fucile apparso in una delle fotografie del materiale probatorio e attribuito ad Anan. Dalla sua perizia è emerso che si trattava di un’arma giocattolo, in plastica, facilmente reperibile in commercio, priva di qualsiasi funzionalità. Il fatto stesso che su un oggetto del genere sia stata disposta una perizia balistica, poi acquisita come prova, ha suscitato un momento di ilarità tra i presenti. È stato questo uno dei momenti in cui il processo si è spinto su un piano quasi surreale. Una sensazione che si è manifestata anche in altri momenti, quando si è fatto ricorso a fonti aperte (post Facebook, video YouTube, fotografie, materiali pubblici), utilizzate come elementi probatori. Un aspetto che in quella giornata è affiorato appena, ma che tornerà con ogni probabilità al centro delle prossime udienze, quando verrà riconvocato l’ex commissario della Digos a cui fu affidata l’operazione che portò all’arresto di Anan e per la quale avrebbe ricevuto una premiazione.

Ben più rilevante, però, è ancora una volta quanto accaduto sul fronte dei verbali d’interrogatorio raccolti da Israele. La difesa, infatti, ha presentato una ricerca giurisprudenziale articolata che richiama un principio consolidato del nostro ordinamento, secondo cui gli atti raccolti da autorità straniere possono entrare in un processo italiano solo se rispettano le garanzie fondamentali del diritto interno, come il contraddittorio, la presenza di un difensore, il divieto di coercizione. Ed è proprio l’assenza di queste garanzie a rendere quegli atti incompatibili con un processo giusto. A differenza di quanto accaduto il 2 aprile, quando la Corte aveva ammesso i verbali senza esitazioni, questa volta i giudici hanno deciso di riservarsi la decisione, che sarà sciolta il 7 maggio. Da tale decisione potrebbe dipendere molto, poiché una parte sostanziale dell’impianto accusatorio si fonda proprio su quei verbali.

Come già si intuisce da queste prime fasi, il cuore del processo non risiede solo nel suo esito finale, ma anche nelle modalità con cui verranno affrontati i nodi giuridici ancora aperti: l’utilizzabilità di prove raccolte da un altro stato, il riconoscimento o la negazione del contesto in cui quei fatti si sono prodotti. In gioco non c’è solo la sorte giudiziaria di tre uomini (uno dei quali, va ricordato, è detenuto in regime cautelare da oltre un anno, senza condanna definitiva) ma il senso stesso del diritto. Capire quindi se questo processo sarà fondato sulla ricerca della giustizia o se sarà, invece, piegato alle logiche della ragion di stato. (francesca di egidio – versione integrale dell’articolo sul numero 14 de lo stato delle città)

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