
Lucia è figlia del sarto del campo Arar di Poggioreale, ex deposito di residuati bellici diventato nel dopoguerra uno degli insediamenti di baraccati della città di Napoli. «Con Mirella abitavamo da piccoli a Poggioreale; e Mirella era il nostro… faceva la scuola a tutti i bambini delle baracche. […] Eravamo tutti piccolini quando c’era Felice, Mirella… E dopo tanti anni, l’ho incontrata al Gridas; e lei mi ha abbracciata forte; ha detto: “Guarda un po’! Tu sei Lucia!”».
Mirella La Magna e Felice Pignataro – che nel 1981, insieme ad altri, fonderanno il Gridas, Gruppo Risveglio dal Sonno, stabilendosi nel centro sociale del rione Monterosa di Scampia – erano arrivati al campo Arar nel 1967, dando inizio a una scuola popolare ispirata alla Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani, che prese poi il nome di Scuola 128. Come ha scritto anche Felice in Pasquale Passaguai e altri racconti dalla Scuola 128, Mirella ricorda spesso che per illuminare la baracca utilizzavano una lampada a gas, ma per le proiezioni, anche se solo per un’ora o due alla settimana, non potevano fare a meno della corrente elettrica, offerta proprio dalla baracca del sarto.
È l’anno scolastico 1968-69 e nella baracca 128 si fa scuola e si organizzano assemblee e mobilitazioni per il diritto alla casa. Nel novembre 1969, la scuola ha un improvviso calo di frequenze: le famiglie baraccate stanno finalmente ottenendo le case e si stanno trasferendo. Alle 186 famiglie presenti nel campo Arar alla fondazione della Scuola 128 sono state destinate le nuove case popolari costruite a Secondigliano, vicino il rione Monterosa, le case Ises, realizzate dall’Istituto per lo sviluppo dell’edilizia sociale. Nel ’69, ci sono moltissime occupazioni di case popolari da parte di persone senza fissa dimora o che abitavano in alloggi impropri. Secondo Antonino Drago, che nel 1974 riassume in un testo le inchieste dei volontari sui campi baraccati di Napoli e le lotte per l’assegnazione delle case, si tratta di circa novecento alloggi in tutta Napoli. Le rivendicazioni si risolvono però in un sussidio mensile per gli occupanti e in trasferimenti forzati di baraccati e altre assegnatarie nelle case appena liberate, che come sottolineano Mirella e Felice “erano tutte fetenti, senza vetri alle finestre, né acqua, né fogne, né luce elettrica, né strade, all’altro capo di Napoli”.
Seguendo i trasferimenti, anche Mirella e Felice spostano la Scuola 128 e trovano posto in uno scantinato delle nuove case Ises. Da questo momento in poi, gli sradicamenti di persone dai quartieri in cui sono nate verso nuove zone di lottizzazione edilizia, sconosciute, isolate e senza alcuna infrastruttura, segnano l’urbanizzazione di Scampia e la vita di tante sue abitanti. «Io sono venuta all’età di sette anni al Monterosa – spiega Lucia –; dove, prima, Scampia era tutte terre; e le mie palazzine, dove abitavo [nel] ’70, erano le ultime palazzine… le ultime; […] c’era il pullman, l’autobus 111, era l’ultima fermata; e poi era tutto campagna: e che aria che c’era!».
ERA TUTTE TERRE
Nella casa di tre stanze del rione Ises, Lucia trascorse infanzia e adolescenza con i suoi sei fratelli e sorelle e i suoi genitori. Cominciò a lavorare come sarta, affiancando il padre nel lavoro. A tredici anni trovò lavoro come parrucchiera, poi come macchinista in una fabbrica conciaria. A diciotto anni, qualche mese prima del terremoto del 1980, andò via dalla casa dei genitori, si sposò e, insieme a un gruppo di persone che voleva ottenere le case in nuova costruzione a Scampia, occupò un ex sanatorio nel Vallone San Rocco, Villa Caputi. «Volevamo le case… sono uscita pure sul giornale a fare lo sciopero, co’ ‘na panza tanta. […] Eh, andavo a fare lo sciopero a piazza Municipio, io ero incinta di otto mesi. Occupavamo i pullman…».
Dopo il terremoto, abitò ancora in occupazione in una scuola a Piscinola. «Sono stata occupata là, avevo la bambina di diciassette giorni, stavo allattando. La rimanevo a mia cognata e andavo là a scuola. Poi, dalla scuola, uscì questa casa e sono andata a occupare questa casa: non c’erano le porte, non c’erano le fontane, non c’erano i vetri, non c’era niente, abbiamo fatto tutto noi».
Dopo sei mesi di occupazione in un appartamento ai Sette Palazzi – rione di Scampia nei pressi di quella che solo successivamente diventerà la stazione della metropolitana – rientrò nella graduatoria per le case popolari. Si sarebbe dovuta trasferire di nuovo in un altro quartiere, ma rifiutò, riuscendo poi a ottenere l’assegnazione di quella casa, in cui ancora oggi abita con la sua famiglia. Lucia mi racconta che all’inizio non voleva stare ai Sette Palazzi. Rispetto al rione Ises, caratterizzato da dimensioni architettoniche a misura di vicinato, il nuovo rione le sembrava troppo grande e dispersivo. «Mo, male a chi me la tocca casa mia. Io rimango, fino alla morte. Esco da casa mia morta!».
Marco è di un paio d’anni più giovane di Lucia e anche lui si trasferì a Scampia all’età di circa sette anni, ma da un altro quartiere di Napoli, Ponticelli. La sua famiglia ottenne la casa in un rione costruito tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, appena dopo il rione Ises, e conosciuto oggi come “le Cappe”. Marco mi spiega che, poiché la zonizzazione della legge 167 ha successivamente frammentato il quartiere in lotti distinti da lettere dell’alfabeto, le persone impropriamente pensano che il modo di definire quel rione derivi dal “lotto K”. Quello è invece il lotto U e la toponomastica con cui lo si identifica si riferisce alla forma a “K” degli edifici. Marco abita ancora in quella casa, nell’edificio a pianta semicircolare con i balconi tondi che si affacciano sui campi sportivi dell’Arci Scampia e, oltre via Fratelli Cervi, sul Parco Corto Maltese e sul Giardino dei Cinque Continenti e della Nonviolenza, un tempo discarica abusiva in un cantiere edile abbandonato, oggi giardino rivendicato dalla rete di associazioni Pangea di Scampia, informalmente costituitasi nel quartiere. Gli chiedo che cosa si veda dal suo balcone: «Del quartiere che vedo? Gente buona e gente cattiva… e poi vedo ‘e cose della Gattablu, che abbiamo cambiato noi».
Il Gattablu, centro diurno di riabilitazione di Scampia, è negli anni diventato famoso nel quartiere per aver associato, grazie a laboratori artistici collettivi, educatori e operatrici socio-sanitarie illuminate, l’arte pubblica alla riabilitazione psico-sociale e per aver diffuso a Scampia, e non solo, installazioni artistiche negli spazi pubblici e sociali. Nel tempo, dallo stesso balcone, Marco ha assistito all’urbanizzazione di quel rione: quando ci si trasferì da bambino, c’erano le case e basta, intorno neanche le strade. «Perché era tutt’ terre, tutte terre: e noi giocavamo sulle terr… sul terreno; non c’era… purtroppo, calcetti, non c’era niente; con le bici, giocavamo per strada, era terra però. […] Tutte terre, tutte terre: andavamo pure a coltivare le arance; le arance, la verdura; noi ragazzi andavamo a prendere la verdura…».
Anche Simona conserva la memoria rurale di Scampia. Anche se molto nitida, è una memoria tramandata più che vissuta, dato che Simona è di una generazione più giovane di Lucia e Marco. Si è trasferita anche lei a Scampia da bambina, proveniente da San Pietro a Patierno, all’inizio degli anni Novanta. Mi confida che ancora oggi le capita di sognare la sua vecchia casa. La famiglia non poté più rimanere in quell’appartamento e si spostò nella casa popolare in cui abitava la nonna di Simona e in cui sua madre aveva trascorso l’infanzia. È infatti sua madre a raccontarle com’era Scampia. «Erano tutte terre. Infatti, Scampia era un borgo rurale, erano solo terre, si coltivava e basta… poi vennero cacciati i contadini per fare… […] La Villa dei Serpenti, o la Villa dell’Imperatore, è stata abbattuta all’inizio degli anni Sessanta per fare spazio a strade e palazzi. È rimasta solo quell’aiuola al centro là, ma quella doveva essere bellissima…».
Simona abita nello stesso rione di Marco e anche lei è stata testimone della trasformazione dei luoghi vicini. Tra i suoi ricordi, c’è la fatica, ma anche l’orgoglio, di trasportare litri d’acqua fino al giardino di Pangea, quando gli allacci dell’acqua non c’erano e gli alberi piantati sulla discarica venivano ostinatamente innaffiati con i secchi. L’acqua è arrivata due anni dopo, nel 2018, e l’evento eccezionale è stato riconosciuto dalle attiviste e abitanti che avevano preso in cura lo slargo abbandonato come “miracolo dell’acqua” a opera di San Ghetto Martire, carro allegorico creato dal Gridas e Santo Protettore delle Periferie.
Tra le persone che intervisto, chi è arrivata a Scampia dopo il terremoto da zone della città più vicine come Marianella e Piscinola, lega il ricordo rurale a queste ultime e a Scampia quello dei “palazzoni” da poco costruiti. Luca non ricorda l’anno in cui è arrivato a Scampia. Sa che quando ci fu il terremoto abitava a Marianella con i suoi genitori, che morirono quando lui era ancora molto piccolo. A Scampia arrivò con una delle sorelle e la sua famiglia, trovarono casa in occupazione nella Vela Rossa. Luca mi racconta che nelle Vele succedevano sempre “tarantelle” e che lui e la sorella venivano continuamente minacciati perché lasciassero la casa. Si sono poi trasferiti nelle case nuove, quelle costruite nel lotto delle prime tre Vele abbattute e consegnate nel 2016. Oggi, dalla casa nuova, Luca può affacciarsi sulla Villa di Scampia, il parco Ciro Esposito.
Alla famiglia di Carla invece, originaria di Piscinola, la casa fu assegnata già nel ’74, nel rione don Guanella. Carla però vi si trasferì solo anni dopo, proprio nell’80, uscita dal collegio in cui aveva trascorso tutta l’infanzia con la sorella. La madre le aveva raccontato che quando arrivarono in quella casa, al contrario di quanto accadeva spesso nel quartiere, i lavori di costruzione erano stati completati. Mancavano solo gli ascensori e loro abitavano al settimo piano. Così, all’inizio, suo padre portò sulle spalle la lavatrice e altre cose strettamente necessarie, mentre i mobili li sistemarono dopo che si erano trasferiti, un po’ alla volta, pagandoli a rate con quello che i suoi genitori guadagnavano facendo il muratore e la fruttivendola. Sara non ha bei ricordi di Scampia, me ne parla poco. I suoi ricordi d’infanzia sono tutti legati a Marianella: quello è il suo quartiere. Fu costretta a trasferirsi a Scampia con la sua famiglia nelle Case dei Puffi, o lotto P, subito dopo il terremoto. Mi racconta che li “appoggiarono” lì temporaneamente, in attesa che fosse riconosciuta loro l’assegnazione di un’altra casa.
Sara aveva diciassette anni. Usciva solo per andare a lavorare in una fabbrica di borse a Marianella e fare qualche commissione. In quella casa di due stanze da letto e un bagno rimase con i suoi genitori, il suo ex-marito e i suoi primi due figli fino al ’96, quando finalmente la sua famiglia ottenne il “rientro” a Marianella, in una casa, questa volta, che Sara riconosce come sua. «È bellissima, è una bella casa. È chiamato il Parco delle Rose, perché papà poi ci piaceva piantare e piantò le rose… Sta l’insegna fuori: Parco delle Rose».
PURTROPPO… SCAMPIA È BELLISSIMA
Luca è uno degli utenti storici del centro diurno Gattablu. Ha fatto parte sin dal suo inizio del GruppoZoone, l’associazione artistica di utenti e operatori costituitasi all’interno del centro. Tra le opere preferite di Luca a firma GruppoZoone c’è “Pinocchio con il cuore”, la prima installazione pubblica dell’associazione, posizionata a Pangea e realizzata recuperando pezzi di sedie e tavoli distrutti durante le crisi di sofferenza psicologica di alcuni utenti della comunità terapeutica, così come la grande scultura “La Resa” che si trova all’ingresso del centro Chikù. Quando gli chiedo delle altre attività che ha fatto al centro, comincia prima a ringraziare e nominare le persone che lo hanno aiutato nella gestione del suo dolore per la perdita dei genitori, poi mi parla dei quadri e delle “pitture” realizzati con Giovanni, operatore e maestro d’arte e scultura, della ceramica fatta con Rosa, operatrice e maestra di ceramica, delle “scritture”, murales e mosaici. Elenchi di relazioni tra cose, persone e luoghi che concisamente sintetizza nell’espressione: “tutte queste cose per il quartiere”. Luca è infatti un attivista di Scampia. Ha co-fondato la Murga Baleno, prima banda murguera a Napoli e collaborato alla creazione di altre bande in altri quartieri della città, oggi protagoniste dei cortei del Carnevale Sociale.
Pasquale ha fatto parte del GruppoZoone insieme a Luca e altre utenti. La sua intervista è breve, non mi racconta molto di sé, ma ricorda con estrema precisione le tante sculture realizzate nello spazio pubblico, i titoli delle opere, le storie che hanno portato alla loro realizzazione e i metodi artistici utilizzati. Mi parla delle opere di Pangea e delle panchine antiviolenza, delle numerose volte in cui hanno trovato le sculture distrutte e le hanno pazientemente restaurate. Nonostante la sua meticolosità nel testimoniare l’esperienza artistica del Gattablu nel quartiere, del sintetico discorso di Pasquale mi colpisce soprattutto che si soffermi più volte sulle “piccole cose”, i “piccoli oggetti” di cui nessuno parla, come la scultura realizzata insieme a Letizia, operatrice che lo ha seguito in questo lavoro durante il periodo della pandemia. «[Anche] se sono piccoli… perché sono fatti con il… con il cuore, Maria, uno ci mette il cuore a fare queste piccole… queste piccole cose; pure se deve fare una cosa con la carta-macera». (maria reitano – continua…)