Viaggio nei territori occupati della Cisgiordania. Intervista a un attivista di Via Campesina

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Viaggio nei territori occupati della Cisgiordania. Intervista a un attivista di Via Campesina
(disegno di giancarlo savino)

Nel dicembre 2024 una delegazione di agricoltori europei affiliati al movimento Via Campesina è andata in visita in Cisgiordania, da un lato per esprimere solidarietà ai lavoratori agricoli palestinesi dell’UAWC, dall’altra per promuovere la salvaguardia dell’autonomia alimentare palestinese: dalla produzione di ortaggi, all’olio di oliva, fino ai prodotti locali coltivati nei territori occupati.

Via Campesina è un movimento internazionale nato nei primi anni Novanta in Belgio, per unire le rivendicazioni di milioni di contadini, lavoratori senza terra, popolazioni indigene, pastori, pescatori, lavoratori agricoli migranti, piccoli e medi agricoltori; una lotta che naturalmente oggi si intreccia con le rivendicazioni palestinesi, visto che l’attacco alla sovranità alimentare è un fattore chiave del sistema di oppressione israeliano, poiché il controllo dei mezzi di produzione agricoli  impedisce l’autonomia del popolo palestinese. Per parlare dell’esperienza in Cisgiordania contatto uno dei delegati che ha preso parte alla visita.

Partiamo da Gaza. Qual è la situazione rispetto ai dati in vostro possesso?
La situazione a Gaza è catastrofica. Il pesce prodotto in Palestina arrivava dai pescatori a Gaza, ma quella flotta di pescatori non esiste più. Anche la situazione dell’agricoltura è drammatica. La quasi totalità delle terre sono completamente inutilizzabili. L’ultimo
 rapporto delle Nazioni Unite rileva che solo l’8,6% dei terreni coltivabili a Gaza è ancora accessibile, mentre solo l’1,5% dei terreni coltivabili è sia accessibile che intatto. Alcuni campi sono stati resi non coltivabili dai residui chimici dei bombardamenti, che nessuno sa come smaltire. Inoltre il cuscinetto di sicurezza che Israele sta imponendo nella Striscia sta diventando sempre più esteso, si parla di una zona inaccessibile profonda fino a due chilometri dal confine della Striscia. Una dimostrazione di come Israele non voglia che Gaza torni a essere abitabile. Siamo preoccupati dall’indifferenza degli organismi istituzionali. Già dai primi mesi del 2024 disponevano di dati che mostravano come a Gaza fosse in atto una carestia. Tuttavia a causa del blocco imposto dall’esercito israeliano all’ingresso di ispettori internazionali, il comitato tecnico legato alle Nazioni Unite ha ritardato il riconoscimento dello status, ratificandolo pubblicamente solo alcuni giorni fa.

In Cisgiordania, invece, c’è stato un attacco molto recente a Hebron, contro l’unità di riproduzione di sementi dell’UAWC.
L’attacco dimostra come nessun luogo in Cisgiordania è al sicuro, nemmeno gli uffici o i campi coltivati di un’organizzazione. L’offensiva ha colpito una delle unità di riproduzione delle sementi palestinesi nei territori occupati ed è stato lanciato senza alcun preavviso. L’unità di riproduzione garantiva la salvaguardia di un assortimento evolutivo di sementi selezionando, attraverso laboratori all’avanguardia, quelle più vitali e più salubri da distribuire ai contadini che ne facciano richiesta. L’UAWC svolge un altro ruolo fondamentale: identificare i terreni che sono a rischio requisizione. Nel 1950 in Israele è stata approvata una legge che stabilisce che tutti i terreni non coltivati o non lavorati regolarmente, vengano requisiti e redistribuiti a coloni o cittadini che ne facciano richiesta. Per questo è fondamentale il ruolo di supporto a UAWC: perché piantare degli ulivi o prendersi cura della terra viene visto come un’attività che mette a repentaglio l’esistenza stessa di Israele. Tuttavia i metodi di persecuzione maggiormente utilizzati dal governo israeliano consistono nel fiaccare i contadini attraverso attacchi mirati. L’esercito israeliano, per esempio, attacca gli allevamenti di polli quando sono pronti per la vendita, come accaduto nel villaggio di Qusra, dove sono stati messi i sigilli, chiusi gli edifici e staccata l’elettricità. Stessa cosa succede nei campi con la distruzione del frumento poco prima della trebbiatura. Tuttavia vediamo una coscienza contadina e delle radici ancora molto forti. A Betlemme abbiamo visitato un campo profughi palestinese, in luoghi dove l’acqua è razionata. Nel campo, sopra il tetto di una casa, gli abitanti avevano costruito una serra idroponica per svolgere attività educative con i bambini. Un’immagine iconica che dimostra quanto i palestinesi abbiano a cuore il rapporto con la terra e con le proprie coltivazioni.

Quali sono i pericoli a cui vanno incontro i contadini che coltivano le terre in Cisgiordania?
In primo luogo i contadini ci hanno raccontato delle difficoltà incontrate per l’accesso ai campi. Viene negato l’ingresso ai contadini con un’età inferiore ai quaranta anni. Una strategia per rendere l’agricoltura un settore minoritario e non attrattivo per i giovani. Inoltre, circa il sessanta per cento della Cisgiordania ricade nella zona controllata da Israele, secondo gli accordi di Oslo, denominata zona C; in questa fascia di terra troviamo la maggior parte della produzione agricola palestinese. Per coltivare i terreni è necessario che gli agricoltori dispongano di un documento, rilasciato da un ufficio di coordinamento, che autorizzi i contadini ad accedere ai propri terreni. Senza l’autorizzazione diventa più semplice per i coloni e l’esercito giustificare attacchi violenti contro gli agricoltori e i volontari internazionali.

L’altra cosa che abbiamo visto, in particolare nella valle del Giordano, è la presenza di fiumi e fonti d’acqua circondati dal filo spinato. Un modo per negare ai palestinesi il prelievo dell’acqua. Nei casi in cui l’accesso ai pozzi non viene recintato, l’accesso viene regolato da aziende israeliane parastatali, come la Mekorot, che ricattano la popolazione palestinese creando una sorta di competizione interna nei villaggi, costringendo gli abitanti a scegliere se mandare l’acqua verso le case o per l’irrigazione dei terreni.

In taluni casi, in cui i villaggi palestinesi vengono dotati di condutture idriche grazie a finanziamenti provenienti da fondi europei – come nel paese di Bardala, nella valle del Giordano, dove un centinaio di famiglie beneficiavano dell’infrastruttura – i soldati hanno distrutto centinaia di metri di tubature.

Un’altra questione è legata alla diffusione di un lavoro agricolo, specialmente nella valle del Giordano, in cui si cerca di attrarre manodopera palestinese nelle colonie di monocolture intensive israeliane garantendo paghe molto alte e creando così una doppia frattura: rafforzamento del sistema produttivo israeliano e indebolimento dell’agricoltura palestinese. Non tutti cadono in questa trappola. In alcuni villaggi dove esiste un’organizzazione sociale più radicata, l’intero villaggio sceglie collettivamente, in assemblea, di non piegarsi a questo meccanismo coloniale.

Cosa è cambiato dopo il 7 ottobre?
Dopo il sette ottobre l’occupazione delle terre procede a una velocità impressionante. Rispetto al 2017 – il mio precedente viaggio in Cisgiordania – il movimento dei coloni ha sviluppato metodologie sempre più violente, come le colonie pastoraliste mobili che si dotano di capi bestiame più o meno numerosi e che, con delle roulotte, si fanno spazio nelle aree semi desertiche tra la valle del Giordano e le zone più popolate della Cisgiordania. Una modalità che aggredisce le comunità beduine che vivono una vita seminomade. Questi ultimi non avendo lo spazio per muoversi, e non essendo più liberi di spostarsi, sono costretti a restare nello stesso posto; a dover comprare il mangime, l’acqua e i medicinali perché gli animali abituati a pascolare allo stato brado cominciano a produrre meno latte.

Un’altra cosa che abbiamo notato è la crescita dei cosiddetti “avamposti bandiera”. I coloni che piantano una bandiera israeliana in cima a una collina. E formando un recinto e un piccolo muro bloccano l’accesso ai campi agli agricoltori palestinesi. Basta una bandiera piantata su un mucchio di terra e di colpo interi campi diventano di proprietà dei coloni israeliani come accaduto a Gerusalemme Est.

Come movimento su cosa bisogna lavorare per supportare la lotta in Palestina?
Abbiamo notato come la presenza di volontari e attivisti internazionali sia fondamentale. Tuttavia bisogna osservare la questione con una lente decoloniale. Nel movimento europeo forse è presente un paternalismo di fondo, una modalità frequente nei progetti della comunità internazionale, dove eleggiamo i rappresentanti e scegliamo quelli che sono i temi. In realtà, sono i palestinesi che devono indicarci le loro priorità. Questo ci è stato segnalato da un’organizzazione femminista incontrata a Ramallah, dove abbiamo parlato per un’ora e mezza su come la violenza di genere, l’oppressione delle donne, e le violenze sessuali sono rilevanti nella strategia di oppressione e di massacro della popolazione palestinese. Allo stesso tempo ci hanno detto che quando la loro organizzazione si rapporta con i movimenti femministi europei, nord americani e le Ong si tende a dare più peso alla violenza domestica, piuttosto che alla violenza strutturale contro le donne nell’occupazione sionista. Noi crediamo in un rapporto orizzontale e internazionalista tra popoli, non a una solidarietà selettiva nei confronti del popolo palestinese. Dobbiamo lavorare per spogliarci di questi retaggi colonialistici, concentrando gli sforzi in ciò che i palestinesi chiedono: cessate il fuoco, fine del genocidio e delle politiche espansionistiche di occupazione in Cisgiordania. Per questo è necessario pressare Israele attraverso campagne di boicottaggio economico, nonché sanzioni e cessazioni degli accordi internazionali.
(intervista a cura di giuseppe mammana)

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