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Nel 2009 il futuro del cinema sembrava destinato a essere in tre dimensioni. Quell’anno il film Avatar di James Cameron ottenne l’incasso più grande nella storia, anche grazie a una capillare distribuzione della sua versione in 3D. Negli anni successivi Cameron continuò a promuovere questa tecnologia, descrivendola come inevitabile: «Alla fine sarà tutto in 3D, perché è così che vediamo il mondo».
Non andò così. Nei cinema l’interesse scemò rapidamente, e lo stesso accadde con i televisori. Anche se inizialmente le vendite furono buone, i modelli di tv 3D si scontrarono presto con costi troppo alti, limiti tecnici (soprattutto il bisogno di indossare gli occhiali 3D, come al cinema) e l’arrivo di tecnologie concorrenti come il 4K e le smart TV, che oggi dominano il mercato.
Nonostante questo, oggi molte aziende sono tornate a puntare sul 3D, seppur con altre forme: non più per guardare film ma per giocare o lavorare. Negli ultimi anni sono comparsi nuovi prodotti, come gli schermi Acer SpatialLabs o il recente Samsung Odyssey 3D, che offrono un effetto tridimensionale realistico, senza bisogno di occhiali o visori appositi.
Alla base di questi dispositivi c’è la tecnologia di Leia, una piccola azienda statunitense nata una decina di anni fa all’interno di HP Labs, la divisione dedicata alla ricerca del marchio HP. Il suo nome è ispirato alla principessa Leia di Star Wars, che nel primo film della saga appare inizialmente sotto forma di ologramma, una tecnologia a cui l’azienda vuole richiamarsi.
Il sistema di Leia prevede l’utilizzo di telecamere per seguire il movimento degli occhi dell’utente e di un sofisticato strato posto sotto allo schermo, chiamato Diffractive Lightfield Backlighting (o DLB) e mille volte più sottile di un capello umano. Questa tecnologia permette di proiettare immagini lievemente differenti in più direzioni, a seconda della posizione degli occhi dell’utente, simulando la percezione della profondità senza bisogno di occhiali.
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Si tratta di un procedimento che è da sempre alla base delle immagini in tre dimensioni. Persino lo stereoscopio, uno strumento inventato nel 1832 da Charles Wheatstone e considerato l’antenato di questa tecnologia, funzionava in modo simile, mostrando attraverso un visore binocolare due immagini lievemente diverse, una per occhio, dando così un’illusione di profondità. La tecnologia si evolse nel corso dei decenni e dei secoli arrivando fino a quella usata per il cinema in 3D, come in Avatar.
Il risultato di Leia è un 3D piuttosto credibile, reso possibile anche da sistemi di intelligenza artificiale che prevedono gli spostamenti oculari di chi gioca. Nonostante tutto, l’effetto rimane visibile a un singolo utente, rendendo quindi impossibile giocare in coppia o in gruppo, perché le altre persone vedrebbero immagini sfocate.
I progressi di Leia possono essere inseriti in un contesto più ampio, in cui sempre più aziende stanno applicando le nuove tecnologie al 3D. Lo scorso mese, durante la sua annuale conferenza per sviluppatori, Google ha presentato Beam, una tecnologia pensata per creare un effetto simile, in particolare nelle videoconferenze.
Anche in questo caso non servono occhiali appositi: basta sedersi di fronte a uno schermo dotato di un apparecchio grande come un lettore DVD e sei piccole telecamere. Il resto avviene nel cloud di Google, dove un modello di intelligenza artificiale mette insieme i dati dalle diverse telecamere per creare un effetto simile a un ologramma, in cui la persona sembra uscire dallo schermo. I pochi giornalisti che hanno avuto modo di testare il prodotto si sono detti molto colpiti dal risultato finale, che però non può essere reso in video.
Google sta sperimentando almeno dal 2021 con questa tecnologia, inizialmente chiamata Project Starline, ma ora è pronta al lancio commerciale. L’obiettivo dell’azienda è potenziare il suo servizio di videochiamate e videoconferenza Google Meet per differenziarlo nettamente rispetto a Zoom, Microsoft Teams e altri prodotti simili. Google non ha ancora fornito informazioni sul prezzo di questo servizio ma è probabile che inizialmente sarà piuttosto alto, e quindi interesserà perlopiù le aziende. Tra le prime a usare Beam ci saranno Deloitte, Duolingo e Salesforce.
Il prezzo di questi dispositivi, da quelli per il gaming a quelli per le videoconferenze, rimane ovviamente un ostacolo alla loro diffusione. Sia i monitor Odyssey 3D di Samsung che gli SpatialLabs di Acer costano attorno ai duemila euro, un prezzo che li rende ancora inaccessibili a molti utenti, anche se è destinato a scendere man mano che questa tecnologia si diffonderà.
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Sempre più aziende, infatti, stanno investendo sul 3D e su altre tecnologie in grado di creare immagini più realistiche. Lo scorso anno, presentando il visore per la realtà mista Vision Pro, Apple puntò molto sul concetto di “spatial computing”, in cui gli elementi informatici interagiscono realisticamente con l’ambiente circostante; gli ultimi modelli di iPhone, inoltre, permettono di realizzare video in 3D.
Anche Meta è da tempo interessata al settore: negli anni scorsi ha investito miliardi di dollari nella sua divisione Reality Labs, che si occupa sia del metaverso che di altre iniziative legate alla realtà aumentata. Tra tutte, i Ray-Ban Meta, gli occhiali smart sviluppati in collaborazione con EssilorLuxottica.