
Quello che è successo il 20 giugno, sotto un caldo torrido, lungo il tratto della tangenziale di Bologna compreso tra l’uscita n.7 di via Stalingrado e quella successiva di viale Europa, merita un momento di riflessione più approfondita. Stiamo parlando del corteo dei metalmeccanici emiliani, convenuti a Bologna nell’ambito della giornata nazionale di sciopero per il rinnovo contrattuale – agitazione sfociata nella marcia in tangenziale che ha conquistato tutte le prime pagine nazionali. A corteo ancora in corso, infatti, la questura di Bologna aveva diramato una nota rabbiosa in cui si avvisava che tutti i lavoratori entrati in tangenziale erano passibili di denuncia penale, in virtù del nuovo decreto sicurezza.
Il giorno dopo i commenti mainstream sono stati all’insegna del sensazionalismo – gli operai rischiano il carcere! –, oppure dello sdegno “per i disagi provocati agli utenti”. Qualcuno si è persino accorto che esiste una cosa che si chiama contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici – una fastidiosa e desueta sopravvivenza del passato. Qualche altro osservatore, invece, ha minimizzato: le minacce giudiziarie erano state solo l’uscita improvvida di un questore zelante, che ha agitato un polverone per un azione, più o meno concordata, che altrimenti sarebbe passata inosservata.
E così sono state pubblicate paginate con le dichiarazioni dei leader sindacali, dei politici che si sono schierati un po’ di qua, un po’ di là – ripetendo le loro prevedibili banalità –, dei giuristi che hanno puntigliosamente esaminato il decreto sicurezza alla voce “blocco stradale”. Più o meno tutti si sono dimenticati di parlare dei protagonisti della giornata: gli operai metalmeccanici e la loro soggettività. Chi erano quei diecimila? Che facce avevano? Che dicevano? Erano consapevoli che stavano violando in forma di massa una legge dello Stato – che è tra l’altro l’unico provvedimento di segno identitario che il governo di destra può vantare? O sono stati condotti in via Stalingrado come bestie al pascolo? Volevano andarci in tangenziale, loro: si o no? E come vedono la propria condizione, davanti a quaranta ore di sciopero accumulate e una prospettiva di rinnovo sempre più complicata? Ed erano davvero lì solo per il contratto?
Allora fotografiamoli, un po’, questi metalmeccanici “illegalisti” che hanno passeggiato in tangenziale. Età media: altina (ma lo sapevamo). I giovani accedono con difficoltà al lavoro, visto che in trent’anni l’età di pensionamento si è alzata di un decennio. E comunque i ragazzi giovani sono invischiati dentro percorsi di stabilizzazione ardui e lunghi come una via crucis (stage, tirocini formativi, apprendistato, contratti a tempo indeterminato privi dell’art. 18). Quando, dopo quattro o cinque anni, diventi un lavoratore fatto e finito, non sai un ostia di sindacato, assemblee e scioperi, perché te ne sei sempre tenuto coscienziosamente alla larga.
Il livello professionale di quelli in piazza, così, a naso, non sembra molto alto. Colpa del paradosso per cui più le mansioni tecnico-intellettuali si standardizzano (e si proletarizzano) più facilmente sorgono muri invisibili basati sulla gerarchia di produzione. E ovviamente, salendo anche di poco i gradini della piramide delle gratifiche e delle responsabilità, è raro imbattersi in un lavoratore consapevole in sciopero. Le catene di comando si stanno allungando artificialmente, i ruoli e le mansioni si moltiplicano, il prefisso “capo” (capoteam, caposquadra, caporeparto, capoturno) si elargisce al di là di ogni funzionalità organizzativa, tanto per fidelizzare.
Le donne invece sono molte, mediamente più giovani e vitali dei maschi – diverse le ragazze intorno ai venticinque. Ben curate, più in forma dei colleghi maschi, non hanno l’aspetto un po’ arcigno e casalingo delle rezdore di fabbrica di qualche anno fa – del resto per scarpinare a trentotto gradi sotto il sole rovente di via Stalingrado, bisogna essere atleticamente competitivi.
Tutti, maschi e femmine, sembrano disabituati alla pratica di piazza, non conoscono slogan – al massimo scandiscono “contratto, contratto” o soffiano negli odiosi fischietti da manifestazione. Tutti però esprimono una gioia e un protagonismo che non si vedeva da anni. Si applaudono tra loro, rispondono ai clacson dei camionisti che salutano l’anomalo corteo, scherzano come ragazzi in gita con i colleghi. Un conoscente, pio imam solitamente molto compassato, saltella sull’asfalto appiccicoso tutto contento. Sanno perfettamente che stare in quel pezzo di orrenda periferia bolognese, costeggiando l’autostrada, li sta proiettando dentro una ribalta mediatica di cui non hanno mai goduto. Questa generazione operaia è figlia, anche anagraficamente, della mitica figura dell’operaio professionale emiliano, il testimonial benpensante e socialmente integrato del rinomato modello emiliano – protagonista di una “centralità operaia” un po’ pelosa che rappresentava la base di legittimazione del potere Pci. Trenta anni dopo, questi figli ignoti conoscono poco o niente di quella storia, perché abituati in generale a contare zero. Possono al massimo testimoniare la fine dell’emilian dream, il mito del welfare perfetto e della mobilità sociale perpetua. Intanto, però, in questo venerdì mattina afoso e soleggiato, i nostri se la stanno godendo. Sono soddisfatti e orgogliosi. E quelli della Fim e della Uilm sono identici ai loro colleghi con le bandiere rosse – e questo riporta a un dato banale, spesso ignorato: i proletari sono proletari al di là del colore della tesserina che hanno in tasca.
La voce che il percorso non è stato concordato né autorizzato dalla Questura e si sta muovendo dentro una forzatura di piazza, si è sparsa subito, ringalluzzendo il serpentone colorato e madido. Adesso tutti capiscono perché il plotoncino di celerini con caschi e manganelli si è aperto all’altezza dell’uscita 7 per farli passare. Non è stata una concessione. È stato un rapporto di forza. Questo ha aumentato la soddisfazione collettiva. Stanno violando il decreto sicurezza, stanno violando una legge dello Stato: stanno violando l’ordine costituito e questo per la stragrande maggioranza di loro è una gioiosa novità.
Questa generazione operaia è cresciuta all’ombra di grandi sconfitte storiche e ne ha ricevuto l’imprinting in maniera naturale. Sono lavoratori abituati a non uscire dal seminato, solitamente sfiduciati. Le loro manifestazioni sindacali sono spesso segnate da passività e ritualismi fuori tempo. Se delocalizzazioni o crisi aziendali, mettono a rischio il posto di lavoro si agitano un po’, ma il più delle volte finiscono con l’implorare interventi dall’alto. Insomma: una psicologia di massa da sconfitti dignitosi.
Invece quella mattina, questo popolo operaio si è ritrovato all’improvviso al centro della scena. E i marciatori sembravano dirsi: non siamo gli ultimi, siamo importanti, e se ci incazziamo diventiamo pure pericolosi, perché anche solo per l’inerzia dei nostri corpi sudati, possiamo bloccare l’Italia. Per molti di loro il rientro in fabbrica lunedì sarà più interessante, racconteranno ai colleghi pigri o crumiri che bella giornata hanno vissuto; forse terranno la schiena dritta con più decisione, davanti alla sfilza di capi, capetti e sottocapi – che del resto, quando sentono puzza di incazzatura operaia, lanciano sempre segnali di accondiscendenza o complicità. E poi gli economisti ce lo dicevano tutti, negli anni duri della crisi: se non facciamo la fine della Grecia è perché abbiamo la manifattura, che è il nerbo dell’economia italiana. E allora che qualcuno cominci a chiedere il conto, di cotanta importanza sociale.
Qualcuno ha inquadrato la vicenda della tangenziale bolognese, nella dimensione del paradosso: potrebbero essere proprio i confederali, ultra legalitari e concertativi, le prime vittime del decreto sicurezza. Si, in certi tornanti della vicenda italiana può capitare anche che venga fuori il lato surreale o ironico. Ma davvero, le sigle e le affiliazioni non sono la lente principale attraverso cui leggere il conflitto e la composizione di classe. Del resto, i sindacati non sono moloch immutabili; sono corpi sociali sottoposti alle contraddizioni interne e alle tensioni esterne. E in certi passaggi la dialettica della trasformazione è inesorabile. Non c’è bisogno di riesumare il Presidente Mao né di scambiare la Uil per il Kuomitang; semplicemente quando cambiano le condizioni sociali e politiche il tuo ruolo muta e diventi altro, sei costretto a fare cose che prima non avresti mai osato, ed è la storia che agisce attraverso te. E sono i proletari che ti usano come strumento momentaneo, perché da sempre usano quello che trovano davanti – madonne, preti, jaquerie, brigantaggio, partiti e sindacati – per attivare la propria difesa di classe.
Certo, la lezione bolognese è stata fulminante. Il decreto sicurezza – come qualsiasi altra legge stupida o oppressiva – è un’arma vuota davanti alle masse. Se un pezzo di popolo si organizza e dice no, nessuna minaccia o sbarramento produce effetti concreti. E il fatto che siano stati proprio i metalmeccanici – quelli degli scioperi del ’43, dell’autunno caldo, dello Statuto, delle grandi mobilitazioni antifasciste e antistragiste –, che siano stati proprio i metalmeccanici, dicevo, a insegnare questa cosa, dà un sapore ancora più intenso ai fatti di via Stalingrado.
Il governo non farà l’errore di insistere sul terreno giudiziario; neanche la procura di Bologna, credo. Chi vorrebbe prendere una simile patata bollente in mano? Chi vorrebbe gestire una faccenda tanto compromettente? Se hanno ancora un qualche rapporto con la realtà, tutti i diversi soggetti interessati lasceranno cadere la cosa. Il che rafforzerà nel popolaccio l’idea che le “leggi canaglia” si possono violare, quando hai la forza del numero e un bel po’ di ragioni da mettere sul piatto.
Sempre a Bologna, un anno fa, in occasione delle mobilitazioni pro-Gaza, decine di studenti e attivisti occuparono la stazione cittadina provocando trambusto e ritardi. In questi giorni sta cominciando il processo a chi venne identificato. A difesa degli occupanti, un collegio difensivo “militante” si è costituito e ha reso pubblica la linea che porterà in tribunale: rivendicare l’occupazione dei binari come forma legittima di protesta sulla base dell’urgenza, della necessità e dell’alta moralità di tale azione, volta al contrasto di crimini di guerra di cui il governo italiano sarebbe complice. Una linea coerente e coraggiosa, che si potrebbe estendere pari pari ai metalmeccanici. Basterebbe portare una busta paga in tribunale e le alte motivazioni etiche, nonché l’urgenza indifferibile, non potrebbero essere negate da nessun pubblico ministero in buona fede. Lo stipendio medio italiano non consente livelli dignitosi di vita a nessuno, specie nelle grandi città del Nord. Cioè, la struttura retributiva italiana costituisce nel suo complesso una violazione palese dell’art. 36 della Costituzione. Questo significa che le decisioni assunte da più di un tribunale circa la non costituzionalità di alcuni Ccnl – vedi la vigilanza privata nel 2024 – andrebbero estese alla stragrande maggioranza dei contratti e degli stipendi di questo paese, in cui si può essere poveri in canna passando la maggior parte del proprio tempo di vita dentro un capannone, su un ponteggio di cantiere o dietro le casse di un supermercato.
In via Stalingrado non è successo niente di epocale, certo. Ma non è stato neanche un passaggio banale. Leggiamolo piuttosto come il segno dei nuvoloni cupi in arrivo, di tempi che saranno sempre meno concertativi ed educatamente collaborativi – mentre dietro l’angolo della storia si avverte il rumore sordo e incessante delle esplosioni. Sul popolo delle fabbriche arriveranno prima i benefici del keynesismo di guerra, o le macerie sociali di un ordine che non regge più? (giovanni iozzoli)