
Ogni vulnerabilità genera una dinamica di potere. Il malato è un oppresso in questo sistema. Ogni ricovero che mi è capitato è stato lo scontro con la distruzione totale. Il viaggio della malattia è terribile come quello dei migranti, come quelli dei poveri, perché smaschera cose della vita terribili. La prepotenza contro il debole come sistema. E le cure dovrebbero tenere conto della sapienza che soltanto il soggetto-corpo conosce intimamente. Invece il malato è un soggetto minorato escluso dalla gestione del suo stesso destino. Si può usare questa esperienza per diventare persone migliori e per comprendere che la malattia lavora contro il potere perché ti impone di conoscerlo. (Giovanna Ferrara)
Se è difficile leggere un libro che sappia unire in una sola trama lucidità di analisi e bellezza di scrittura, L’innocenza dei dinosauri di Giovanna Ferrara (edito da Fuorilinea) è la dimostrazione che – a partire dal proprio dolore – è possibile tenere insieme queste due dimensioni in un equilibrio di scrittura affascinante, lieve e delicato.
L’innocenza dei dinosauri è un romanzo/diario che racconta di desideri e di dolore, di amore e politica, di amicizia e di malattia. Un libro che è lo specchio di un’assenza, perché Giovanna, “generosa, appassionata e danzante” giornalista de il Manifesto, studiosa di storia e cultura europea, è scomparsa a Padova nel 2023, qualche mese dopo un trapianto che sembrava averle ridato una prospettiva di futuro.
Tutto il respiro che avevo era pianto
Un’ esperienza autobiografica che nasce dalla diagnosi di una rara malattia polmonare (ancora più raro che colpisca una persona giovane) che compromette in modo grave la capacità respiratoria di Giovanna. Una malattia insidiosa che peggiora progressivamente, per di più durante la pandemia che stravolge i fragili equilibri della vita quotidiana. Così i ricoveri diventano un corpo a corpo con le logiche dell’emergenza e con le regole di un sistema ospedaliero in affanno, già svuotato da logiche aziendali e dai tagli alla spesa pubblica. La pandemia da Covid 19 (che G. definisce l’Evento), è solo lo scenario di fondo al racconto, l’effetto (e non la causa) di una crisi che riusciamo a vedere davvero solo quando ci tocca in prima persona. Giovanna percorre uno a uno i gironi di questo inferno “malattia-cura-malattia”, ne conosce gli angoli più cupi, intuisce la luce che proviene dalle crepe, intravede le possibilità che si conquistano con una lotta personale.
Possiamo scomporre il testo, lungo tre nuclei di fondo. La prima è il confronto con il sistema sanitario e i suoi attori (ospedali, medici, infermieri). La lotta contro la malattia produce un rovesciamento, diventa la lotta contro il sistema che dovrebbe prenderti in cura e non trattarti come un sintomo. L’incontro col sistema sanitario si sviluppa in due luoghi. Il primo è quello della soglia, riuscire a farsi prendere in carico, superare le burocrazie dell’attesa per ottenere una visita specialistica o per un ricovero di emergenza: “Nell’attesa del Pronto Soccorso […] si può morire per le loro lentezze, le loro mancanze, le storture di fronte alle quali il personale sanitario dovrebbe allearsi con il paziente e non accanirsi contro il paziente. Perversa è l’autorità, e allora vedi infermiere sfatte da turni inverosimili gridare all’anziano che si lamenta, medici indifferenti, l’abbandono”.
Il secondo luogo di lotta comincia quando si è nel reparto. Qui la lotta contro la malattia – quando si è un “corpo senza storia” – è anche un sottostare alle misere vessazioni di chi dovrebbe prendersi cura di te. Piccoli episodi che segnano doppiamente chi è immobilizzato dalla malattia. Dopo un intervento per il drenaggio a un polmone, G. digiuna da un giorno, arriva in reparto alle tre di notte e chiede se può avere dell’acqua. L’infermiere le dice che non è possibile. Solo alle sei e trenta del mattino, un’amica che abita vicino l’Ospedale riesce a farle avere delle bottiglie d’acqua. “Chiesi all’infermiere […] cosa vi avrebbe messo a prendermi dell’acqua almeno alle macchinette che erano lì fuori con l’euro che potevo dargli. Mi disse che il servizio era sospeso. Ma disse qualcosa di più. Qualcosa che ha studiato Foucault, che quando stai male nasce una gerarchia. E tu dipendi dai capricci del più forte, dalle sue simpatie, dalle sue indisponibilità. Che il gioco del potere è mortifero perché degrada l’umanità a sopraffazione e prepotenza”.
Nel momento in cui si varca la soglia, la persona malata diventa un “corpo” senza diritti e dignità: “La regola degli altri ospedali è molto diversa. È fatta di attese senza lancette che scandiscono i controlli. Nella regola degli ospedali s’insinua, sempre, qualcosa di mostruoso. Il malato vive attese interminabili nei corridoi dei reparti. Scambia numeri e aspetta di essere chiamato. Non sa con quali tempi riuscirà a vedere un medico o a fare un controllo. Il tempo del malato non conta niente. Il malato non ha nient’altro da fare che vivere la sua malattia. E in più il malato è lì non sentendosi bene. Ho pianto spesso di rabbia nelle attese all’ospedale San Giovanni di Roma al suo Pronto Soccorso. Ho pianto per me e per tutti noi che aspettavamo sulle barelle un destino imprecisato. Dieci ore. Undici ore. Perdere coscienza di dove sono le tue scarpe. Il neon sempre sparato in faccia. Le porte scorrevoli che fanno entrare nuove barelle. Gli infermieri che fanno finta di non aver sentito che li chiamavi”.
Attese a cui seguono altre attese, a brevi dialoghi con medici indaffarati e stanchi che poco tempo hanno da spendere nel dialogo con il paziente. Scrive G.: “Non voglio e non so intessere un discorso teorico sulla necessità che i metodi di cura convergano. Non credo nemmeno che un paziente si debba addentrare in queste analisi, perché rimane uno che non ha studiato medicina. Io ho la mia conoscenza esperienziale. E banalmente mi piacerebbe che, nel rapporto medico paziente, non ci fosse nient’altro che l’incontro di due uomini. Uno che parla dell’incarnazione di quello di cui l’altro ha fatto oggetto di ricerca e studio e pratica e approfondimento”.
G. non contesta, quindi, il “sapere medico” ma chiede di includere in quel sapere la capacità di parlare al malato rispettando le sue emozioni e il suo stato di vulnerabilità. Scrive così G. dell’incontro con un primario che al primo incontro e alla prima domanda, senza nemmeno ascoltare la risposta della paziente, guardando la Tac dice: “Vabbè, qui ci vuole un trapianto urgentissimo”.
“Ci si può rivolgere a una donna spaventata, che ti ha cercato per chiederti […] come fare a evitare di morire in caso di pneumotorace; che sta da sola, pallida e confusa sulla sedia di fronte alla tua, alla quale non hai chiesto nemmeno il nome, dicendo “ma sì, facciamo un trapianto urgentissimo (sottointeso: stai per morire)?”.
“Ero scioccata. Sedevo sugli scalini di fronte al platano rovinato a terra ed eravamo una sola immagine. Mi cominciò a uscire sangue dal naso. Non avevo fazzoletti. Mi pulivo con le mani. Non sentivo più niente. Promisi a me stessa che non volevo vedere nessun nuovo medico. Che non avrei sopportato nessuna barbarie, nessuna insensibilità ancora […]. Cominciò lì dentro una fase nuova per me. Qual era stato il mio ruolo nel disastro che lamentavo? Cosa raccontava tutto quell’orrore della gestione di me, delle mie condotte? Che responsabilità avevo?”.
La lotta contro la malattia, dunque, costringe il malato a una duplice fatica. Si lotta per la propria vita e contro i meccanismi di mortificazione e oggettivazione che la cura ti impone. Una lotta che appare paradossale, che ti costringe a essere vicino a ciò che vorresti allontanare, a imparare a difendere ciò che sei e che viene prima della malattia. Così G. riesce, non senza fatica, a ottenere che in luogo di quanto inizialmente prescritto, le diano un farmaco analogo che non comporti fotosensibilità, perché ciò le consente, nonostante tutto, di andare al mare e di respirare il profumo dei limoni, “la parte di ricchezza che spetta ai poveri, diceva Montale, E ai malati postillo io”.
Avessero almeno detto che noi, l’innocenza dei dinosauri, non l’avevamo mai avuta
Il secondo nucleo del racconto è la riflessione “politica” che a partire dall’emergenza Covid si sviluppa nella critica al modello economico imposto dal neoliberismo. Comprendere il perché dell’emergenza, l’assenza di farmaci e dei vaccini, la sospensione della vite prigioniere del lockdown, la sospensione delle cure per le altre patologie, “capire che ruolo abbiamo nel disastro che lamentiamo”, sono le domande indispensabili per poter fare della propria vicenda personale un tassello di un quadro molto più grande di una singola biografia.
La pandemia ha svelato la fragilità di un sistema sanitario pubblico progressivamente svuotato al suo interno, di una possibilità di cura che separa chi ha risorse per entrare nel sistema privato e per chi invece è costretto a lunghe e infinite attese. La scorciatoia è stata quella di rendere ancora più complicato l’accesso al servizio sanitario pubblico con regole burocratiche e incomprensibili. Tutto senza mettere in discussione la logica liberista che ha fatto a pezzi lo Stato sociale. Persino durante la crisi più acuta, quando era chiaro che servivano nuovi fondi per la Sanità e per promuovere una ricerca pubblica separata dagli interessi delle imprese, Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea, non esitò a ribadire le implacabili ragioni delle autorità monetarie. Scrive G.: “Nella furia dei bollettini ospedalieri, nell’impossibilità di contenere i contagi che si allargavano sulla cartina del mondo senza controllo […] la Lagarde fece sapere al mondo di non avere alcuna intenzione di rivedere i patti fondanti del debito e del credito. Che la pandemia, nonostante il suo numero osceno di morti, non avrebbe influito minimamente sul rigore degli accordi. Non ci sarebbe stato un altro whatever it takes. Le regole di questa economia affamante restavano inalterate, disse quella sera di morti che cadevano senza numero”.
L’esperienza diretta con la malattia offre sostanza alla critica. L’analisi politica è profonda perché si fonda sulla sofferenza personale e sulla conoscenza reale. Non è astrazione, è la riflessione che consente di dare una dimensione pubblica al proprio dolore e di darne una ragione più ampia che la semplice sventura personale. La democrazia vista dall’ospedale assume un aspetto tutt’altro che formale, richiede di comprendere che la condizione del malato è una condizione umana e politica.
L’oro tra le macerie
“Ora che ci penso, ora che provo a ricordare, ora che metto in fila le immagini di questi anni, ora che traccio una linea che mi separa dal prima e che voglio mi allontani dal dopo, ora che tutto quello che è successo è un materiale che riesco a maneggiare, che comprendo, che non mi fa paura, ora vedo l’oro che ho trovato in queste macerie”.
Il terzo nucleo narrativo, il più bello e commovente è quello in cui Giovanna racconta dei legami di amicizia, storici o appena costruiti in corsia, come la sola vera risorsa per attraversare il dolore. La malattia ha un effetto inaspettato, rivela l’esistenza di una rete di solidarietà e di affetti che è in sé un modo di concepire la vita e la politica come un riconoscersi ed essere riconosciuti. Così l’amicizia, la philia, mette riparo alle solitudini e ai limiti della coppia, rende sopportabili le attese, i viaggi, i ricoveri. Ci sono le alleanze solidali che nascono tra pazienti nei reparti, quando intimità e dolore superano i limiti del pudore, quando nel letto accanto al tuo una parola incoraggia, sostiene, accudisce. Una sorellanza che nasce da un dato di fatto, “si è esposti alle stesse intemperie, che questa sia la condizione dell’uomo fuori o dentro una istituzione totale, sfugge a molti”. Nascono legami insoliti e incontri inaspettati. Come con Assunta, compagna di stanza così loquace da essere definita “signora-parola” che in una stanza di ospedale trova l’intimità e l’accoglienza per raccontare la storia della sua vita: “Lei viene dimessa. Chiede di restare. Dice che non si sente ancora bene. Ma io lo so che in quel cubicolo di tre metri ha potuto parlare di sé. Del marito che la trascura da vent’anni. Dell’amarezza del suo sogno svanito, cucire vestiti d’alta moda. Se lei mi ha regalato una finestra e dell’aria, se mi ha lavato il panico dalle ossa, io le ho restituito l’impressione di essere vista. Non è stato uno scambio ragionato. È accaduto come accadono i doni. Nessuno si aspettava niente, entrambe abbiamo avuto molto”.
In questo viaggio tra spirometrie e broncospie, scrive G., “ho conosciuto meglio il Paese snobbato dell’intellighenzia di sinistra. Quella che si lancia in grandi dissertazioni e analisi sulla perdita di soggettività, la sussunzione delle vite da parte del capitale, e la necessità di scansare le passioni tristi […] ma in fondo – ora lo sentivo come la sabbia che scorre tra le mani – il mondo non lo vuole cambiare”.
Fuori e prima degli ospedali, quella rete di amicizie costruita in una vita di condivisioni, impegno politico e voglia di vivere la vita come corpo nudo al sole. Amicizie che G. definisce “alfabeti di profondità”, relazioni sotterranee e intime che nascono dalla philia, “traccia di oro di questo mondo faticoso”. Storie di amicizie che si riconoscono nella gioia e nel dolore delle cose quotidiane, nelle attenzioni pratiche, nei viaggi della speranza, nei legami con i sogni giovanili, in uno stare insieme attento e consapevole.
Ha scritto Susan Sontag che la malattia è “il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa. Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male. Preferiremmo tutti servirci solo del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese”.
Il libro di Giovanna Ferrara ci insegna a riconoscere salute e malattia come parti di un’unica dimensione, certo segnata da un prima e da un dopo. Questo ci obbliga a trovare luce anche nel luogo più oscuro, a non rinunciare a ciò che siamo e, più importante ancora, a ciò che vogliamo essere nel mondo. La malattia che ci conduce fragili di fronte al potere della morte, al sapere dei medici, alla verità della cura e che ci rende ancora più forti nel nostro desiderio di cambiamento personale e collettivo. Come scrive Giovanna, “quanto amore e quanta felicità, proprio là dove nessuno pensa possano abitare. Quanta politica”. (dario stefano dell’aquila)